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Il Terzo Scudetto e il Mito Maradona

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Il Terzo Scudetto e il Mito Maradona

Arriva a Napoli il terzo scudetto, e a trentatre anni di distanza l’immagine più diffusa in città resta quella di un ragazzo riccioluto e corrucciato, allora adorato, oggi trasfigurato: simbolo, icona, eroe, dio di un popolo che vive il calcio come redenzione e riscatto. Perché Diego Armando Maradona non è stato un giocatore o un giocoliere. Nelle sue giocate, nelle sue vittorie e nelle sue sconfitte, fuori e dentro il rettangolo di gioco, si sono rispecchiati milioni di persone, non solo persone “comuni”, ma per lo più i plebei, i marginali, i maleducati, gli ignoranti, quelli ai quali non è concessa una seconda opportunità perché spesso non hanno avuto neanche la prima. Questa categoria, che conta centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, e di cui Napoli, città nobilissima e plebeissima, è ben fornita, ha visto in Diego Armando Maradona un proprio figlio, un proprio fratello, con tutte le debolezze e le meschinità della propria condizione, eppure toccato dal genio, qualcosa di ineffabile che gli consentiva di essere il più forte senza allenarsi, senza disciplinarsi, senza seguire le regole che tanto non sopporta questa categoria di persone. E Maradona, anche da ricco, famoso e influente, non ha mai disconosciuto le sue origini, ha sempre capito che lui rappresentava il riscatto nelle vittorie e lo specchio delle miserie per milioni di vite.
E quando nel film di Kusturica Diego ascolta Manu Chao cantare “Se io fossi Maradona vivrei come lui” non piange per esigenze di copione: piange perché sa che la sua vita è stata e sarà una tombola, niente di prevedibile, di pulito, fors’anche di morale. Come la vita di chi nasce senza reti di protezione.

Per queste ragioni la vittoria della squadra di calcio del Napoli nel campionato italiano scatena una gioia che non ha pari nel mondo, e questo non per relative ragioni di rarità dell’evento, ma perché il popolo napoletano ha investito il calcio di significati molto più intensi che altrove, fino a sviluppare questa profonda identificazione tra il suo spirito e la vita di Diego Armando Maradona, da cui è scaturita la mitologia che oggi accompagna, promuove e identifica i suoi tifosi.Un mito inaspettato, elaborato in una città dell’Occidente in un’epoca in cui il senso del divino si è da tempo accomiatato dal mondo. Mitologia e non culto, perché al di là delle manifestazioni esteriori, delle edicole votive per le strade di Napoli, delle statuine come quelle dei santi, dei santini con l’aureola attorno alla selva di ricci di gioventù, inevitabile iconografia cattolica di un popolo che ha subìto i rigori della Controriforma senza godere della libertà della Riforma, la devozione a Maradona non ha niente dei santi cristiani.
In una città che nei secoli ha preteso la protezione di ben 56 santi patroni, non erano i santi che mancavano. All’indomani del terremoto, Napoli aveva bisogno di elaborare un suo dio contemporaneo, e le potenze ctonie dell’antica città greca sono riemerse per modellare una mitologia che, come quelle degli dei ellenici, prevedesse il tocco del destino, qualità uniche, prove da superare, trionfi e fallimenti, lussuria e sofferenza, sincerità e doppiezza, affetto e ingratitudine, ribellioni e compromessi, ritorni e declino. E la morte, perché nel mito classico l’eroe muore, non vive felice e contento e non lo attende una beatitudine paradisiaca. A differenza delle favole, che si concludono con un ingenuo lieto fine, a differenza dell’agiografia cristiana, che punta ad edificare gli animi con racconti di virtù irrealistiche, la mitologia classica racconta l’esistenza con tutte le sue contraddizioni, la fragilità e la bellezza drammatica del vivere, i vincoli e le condanne del destino.
Le immagini che i devoti di Maradona portano in giro per il mondo come un talismano, un segno di riconoscimento e appartenenza, indicano un’idea dell’esistenza e un metro di giudizio condiviso, in cui non c’è spazio per giudizi moralistici, consapevoli che la vita va oltre gli schemi e le regole.

Il mito Maradona non è un mito borghese, non è un mito contemporaneo

Ai tempi della sua manifestazione terrena, sull’altare dell’edificazione del dio Maradona Napoli e i napoletani hanno offerto e sacrificato tutto: stipendi e famiglie e mogli e figlie e mangiate e massaggi e cortisone, e soprattutto tanta, tantissima cocaina, la polvere che attesta e distrugge il successo nella nostra epoca. E così, come in un rito sacrificale collettivo, chiunque sentiva il diritto di riprendersi un pezzo del dio, di guardarlo, di toccarlo, di rubargli i vestiti, di strappargli i capelli, di soffocarlo, di togliergli ogni possibilità di vita privata, di poter mangiare e sopravvivere grazie a lui, di cibarsene quasi fisicamente.
Nessuno può negare che in un’altra città, in un altro club di livello mondiale, medici e psicologi avrebbero preso in cura la dipendenza di Maradona e la avrebbero fatta guarire, normalizzando lo sportivo e facendo riemergere la persona oscurata dalla droga e dal delirio collettivo. Ma solo a Napoli un calciatore eccelso poteva eternarsi in qualcosa che andava ben oltre la sua vita e che lui nemmeno percepiva del tutto, perché i suoi non non erano più i suoi successi, la sua vita gli era stata sottratta già in vita per destinarla alla sua mitologia.
Ogni gol, anche il più banale, diventava un’epifania del genio, la manifestazione che anche a un popolo bistrattato veniva riservata la benevolenza del fato, nella sua forma più esaltante: la Vittoria, la prevalenza e il predominio su coloro che il resto della settimana ti guardavano dall’alto in basso, per tante e anche giustificate ragioni. Si era già nel mito.

Ma che cosa si può ancora intendere con il termine “mito” nella nostra società? Nel linguaggio comune si usa oramai il termine in maniera indiscriminata per definire attori, cantanti, personaggi più o meno famosi e soprattutto relativamente capaci; degradata così, la parola si finisce per estendersi come un complimento generico, affibiato per gratificare chiunque, senza per altro crederci. Roland Barthes in “Miti d’oggi” ha svelato l’ideologia dei miti propinati allora come oggi dai media di massa: “la funzione del mito è di svuotare il reale (…) il mito non nega le cose, anzi, la sua funzione è di parlarne; semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce come natura ed eternità, dà loro una chiarezza che non è quella della spiegazione, ma quella della costatazione (…) il mito fa un’economia: abolisce la complessità degli atti umani, dà loro la semplicità delle essenze, sopprime ogni dialettica, ogni spinta a risalire, al di là del visibile immediato, organizza un mondo senza contraddizioni perché senza profondità, un mondo dispiegato nell’evidenza, istituisce una chiarezza felice: le cose sembrano significare da sole”(Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, pag. 223).

Ecco, il mito #Maradona NON appartiene alla categoria che, già negli anni Cinquanta, descriveva Barthes. Semmai ne è l’opposto.

Nei suoi celeberrimi testi Barthes investigava l’ideologia del quotidiano, (della bistecca come materialità tranquillizzante, del vino come identità patriottica francese, della Citroen DS come rassicurazione sulla direzione del progresso) e l’ideologia promossa dai media (il volto di Greta Garbo come inattingibile ideale estetico, il Tour de France come epopea da rappresentare per il popolo) come molteplici forme di accettazione della realtà, dei suoi principi e dei suoi rapporti di forza sociali, per assuefarsi ad essa, addirittura identificarsi con essi, così da non metterli in discussione. Il mito Maradona non è invece un mito borghese, mediatico, ideologico, ma un mito profondamente popolare, addirittura plebeo: mitologia contraddittoria, complessa, per nulla innocente e pura, che non semplifica la realtà e non discerne il buono dal cattivo, l’accettabile e l’evitabile, ma interroga sull’ambiguità delle scelte personali e sull’ambivalenza che ogni essere umano si porta dentro di sè, spesso tanto più grande quanto più egli è talentuoso o dotato. Un mito di rivolta e resistenza all’opportuno, al regolare, al corretto, al conforme: principi definiti da sempre da chi ha il potere e i soldi per farlo.

Il mito Maradona è così ampiamente e da tempo uscito dall’ambito sportivo per diventare, come i miti classici, un’indicazione per l’esistenza, basata non su qualche regoletta morale o sul conformismo borghese, ma sulla possibilità di infrangere quello che dovremmo dire, dovremmo fare, dovremmo scegliere per aderire al senso comune e compiacere i potenti. E allora quel che sembra smodatezza nella felicità per uno #scudetto diventa una lezione che i napoletani danno all’Italia e al mondo: la possibilità di essere se stessi senza seguire imposizioni o convenienze esiste ancora, la mitologia che abbiamo elaborato ce lo ricorda, oggi la celebriamo.

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