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Facebook diventa Meta: prove di totalitarismo digitale?

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Facebook diventa Meta: prove di totalitarismo digitale?


Chi crede che Zuckerberg con Meta voglia farci dimenticare i suoi problemi di credibilità, magari facendoci tornare a giocare con gli avatar come su Second Life, ha capito poco delle strategie del colosso di Menlo Park.

La creazione di Meta Platforms Inc. sottende invece il tentativo di giungere a una radicale trasformazione della condizione umana come è stata definita dall’uso della scrittura ad oggi, negli ultimi 5500 anni. Come la scrittura ha rappresentato un salto nella capacità dell’homo sapiens sapiens di comprendere se stesso, pensare il mondo e relazionarsi con esso, allo stesso modo la visione e gli obiettivi di Zuckerberg come di gran parte dei teorici della Silicon Valley, dalla Singolarità di Raymond Kurzweil, director of engineering in Google, alle prospettive transumaniste diffuse da filosofi come Nick Bostrom, non riguardano più lo sviluppo di imprese enormemente profittevoli, ma la pretesa di imporre un nuovo salto antropologico, la definizione di una nuova condizione umana basata su nuove tecnologie che definiranno non più una totalità organica, ma una totalità digitalizzata. Si arriva così alla sussunzione totale dell’essere umano in un infosistema pervasivo, ubiquo, ad altissima densità sensoriale, “collassato” come quando in astrofisica si ha un enorme addensamento di particelle subatomiche, perché, spiega il filosofo Cosimo Accoto, risultato di “operazioni di sensing, networking, mining, sorting e rendering che evocheranno di volta in volta anche ambienti sintetici saturanti ad alta e altra dimensionalità (x-reality)”.

Come conseguenza cambieranno anche le modalità di lavoro e di produzione e anche la catena del valore globale, che abbiamo sempre immaginato e rappresentato come una sequenza orizzontale e che invece bisognerà immaginare più come una pila fatta di varie stratificazioni: fisiche e digitali, concettuali e virtuali. Accoto suggerisce che il valore si produrrà per “collassamenti di valore”, ovvero a seguito di stratificazioni di valore capaci di fondersi l’un l’altro in un determinato momento per offrire un’esperienza o un servizio radicalmente innovativo: non più un treno ad alta velocità, ma il teleporting; non più un corso universitario sullo schermo di un pc, ma una lezione di astrofisica volando alla velocità della luce tra pianeti e galassie. Non si tratta di illusionismi da luna park, usciti dal quale, potrebbe pensare qualche ingenuo realista, ce ne torneremo alla concreta e dura esistenza di tutti i giorni.

Oggi nemmeno il barista sotto casa non ha verso il mondo un atteggiamento da ingenuo realista. Non solo sappiamo tutti che la realtà non è come ci appare, ma che è anche il frutto di molteplici filtri cognitivi. Due secoli fa uno dei capolavori della filosofia occidentale si apriva con questo avvertimento:

L’uomo non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra; (egli sa) che il mondo da cui è circondato non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso.

(Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818, primo libro)

Siamo oggi già ben oltre i wearables, i dispositivi indossabili che datificano il corpo umano come fonte costante i dati. Gli occhiali RayBan realizzati da Facebook in collaborazione con Essilor Luxottica sono il primo esempio di una protesi che non intende più imitare i sensi, ma aumentarli. Dagli occhiali ai microchip installati direttamente nella retina il passo sarà breve. Dai guanti per la realtà virtuale a guaine per usare datificare tutto il nostro corpo e interagire al meglio in questa realtà aumentata il passo sarà breve altrettanto. La datificazione del mondo non riguarderà solo l’estrazione di dati dalle vite, ma l’apparato simbolico e sensoriale che ha definito il rapporto dell’essere umano con il mondo viene integrato da un nuovo strato di contenuti e interfacce che finisce per aggiungere un nuovo velo di Maya, per citare sempre i Veda attraverso Schopenhauer. Ma in questo velo di Maya saremo costretti ad avvolgerci se non vogliamo rischiare una vita da reietti o da marginali. Così come oggi chi non ha un numero di cellulare rischia di non poter accedere nemmeno ai servizi anagrafici dello Stato, non possiamo escludere che la spinta di Zuckerberg e compagnia bella californiana e cinese sarà quella di spingerci a vivere “innanzitutto e per lo più” nei loro metaversi.

Il superamento dell’internet mobile che ancora caratterizza la fase 4G della digitalizzazione avviene attraverso quella che Zuckerberg chiama l’embodied internet: internet non è più nelle nostre tasche, ma noi diventiamo parte di internet. Il corpo virtuale prende il sopravvento sul corpo reale. Mentre finora il corpo virtuale è stato un’ombra, una scia datificata delle azioni del corpo reale, si assiste a un rovesciamento del rapporto: il soggetto virtualizzato prende il centro dell’esperienza grazie a una realtà aumentata e virtuale che abilitano il corpo digitale a fare esperienze precluse al corpo fisico. Non si tratta di una riflessione nuova per la sinistra più avvertita: già nel suo testo del 2018 “L’ algoritmo sovrano”, Renato Curcio evidenziava che “Per la prima volta nella storia della nostra specie (…) l’esperienza umana non si compie più in prevalenza nello spazio-tempo dei corpi in relazione ma si proietta anche e simultaneamente in uno spazio tempo virtuale. Siamo investiti da due processi asimmetrici regolati da logiche diverse che c’impongono, volenti o nolenti, una dissociazione identitaria radicale e permanente (…)”. Ma il salto oltre (Meta, appunto) questa dissociazione Zuckerberg lo pone offrendo al corpo digitalizzato una primazia che finora non aveva.

L’infosistema in cui opereranno i corpi digitali degli utenti di Meta non sarà solo il risultato dell’interazione tra l’infrastruttura tecnologica (5 e 6G, realtà virtuale e aumentata, wearables, e così via) con le app in 3D sviluppate e ospitate da questo ambiente digitale, ma dipenderà anche da quanto imprese, istituzioni e cittadini accetteranno questa nuova condizione umana.

Noah Yuval Harari ha recentemente lanciato un allarme sul rischio che gli esseri umani verranno in tempi brevi “hackerati” dagli strumenti dell’intelligenza artificiale sviluppati e messi a valore dai grandi oligopolisti globali dell’Information and Data Economy. L’unica possibilità per farvi fronte, secondo Harari, è un accordo generale tra gli Stati sovrani per imporre regole a questi oligopolisti globali e alla loro capacità di estrarre i dati dalla vita degli individui. Per quanto appaia una proposta di frontiera, l’appello di Harari, a confronto degli obiettivi che si ripromette di realizzare Meta, sembra un richiamo alle buone maniere.

Fonte: Statista

Gli azionisti dei GAFAM (Google Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), i grandi oligopolisti globali dell’epoca digitale, e di tutte le imprese coinvolte nel capitalismo dei dati, diffondono oggi una nuova argomentazione per rivendicare i loro enormi profitti: non solo, tradizionalmente, essi sarebbero il riconoscimento dei loro meriti, ma rappresentano le risorse necessarie a perseguire un progetto di trasformazione e di supposto miglioramento dell’umanità. Si tratta di un argomento molto forte: continuare a imporre e far accettare all’opinione pubblica globale il far west normativo, esenzioni fiscali scandalose, le politiche ostative della concorrenza e dell’innovazione, l’estrazione di dati al fine di attuare l’”anticipazione logica di sviluppi oggettivi” (come Hannah Arendt paventava dei totalitarismi di inizio Novecento), in cambio di una vita migliore e anche più lunga e sana per centinaia di milioni di persone. Si tratta chiaramente di un’attitudine totalitaria, intesa in senso duplice: come orientamento a mappare la vita delle persone dalla nascita alla morte, dal risveglio alla buonanotte; come ambizione di proporre un senso e un indirizzo alle esistenze di chi si affida a questi infoambienti, in qualche modo sostitutivo tanto di riti e religioni, quanto di sovranità statale e relativi servizi.

Il potere dei GAFAM e di tutto il sistema di imprese che lavora alla realizzazione delle loro ambizioni, non è più solo un problema di economia industriale, di concorrenza, di tutela dei consumatori e della loro privacy, di regolazione insomma, come se avessimo a che fare con il gas o l’informazione. Se a distanza di 50 anni, tra gli anni 30 e gli anni 70, gli oligopoli del petrolio e delle telecomunicazioni potevano essere affrontati ancora con strumenti relativamente simili, non si può dire lo stesso per realtà come i GAFAM per tre ordini di motivi:

  • la loro scala mondiale e la loro ubiquità, che difficilmente si lascia impaniare dai regolamenti di uno specifico paese
  • la costante dilatazione dei loro ambiti di impatto e di sorveglianza nelle singole esistenze,
  • l’ideologia dataista postcapitalista, in cui i principi di mercato e di borsa sono superati da una teleologia che giustifica ogni condotta in un interpretazione faustiana del loro ruolo.

Il più grande errore di politici ed economisti e non aver capito che applicare per analogia schemi e soluzioni che avevano più o meno funzionato in altri settori non ha senso in questo caso. Rispondere alla sfida di Facebook citando il successo della rottura del monopolio dell’AT&T e la creazione delle Baby Bells, un caso vecchio di 30 anni, significa non capire le idee che muovono oggi il profondo di aziende come Facebook, Google, di centinaia di pensatori accumunati da una visione transumanista, la quale non implica, come banalmente si pensa, solo un esito cyborg per l’esistenza umana, ma ancor di più un ripensamento di quella che chiamiamo “realtà”

Non si può opporre a questo orizzonte totalitario solo una stantia critica sui limiti dello sviluppo, basata sull’esaustione delle risorse naturali che l’espansione digitale finora ha velocizzato e non ridotto. Bisogna partire dalla constatazione che non solo il sistema istituzionale e regolamentare, ma anche l’intera elaborazione del pensiero dell’uomo su se stesso dai suoi primordi ad oggi, l’intero apparato sapienziale quanto razionalistico, non tiene il passo dell’accelerazione tecnologica in corso. Bisognerebbe chiedersi se, come nel caso di tecnologie militari che vengono tenute nascoste per non terrorizzare l’umanità, non sarebbe il caso di almeno tentare di rallentare certi sviluppi in attesa di comprenderne bene le conseguenze. Una soluzione semplice sarebbe quella di consentire l’introduzione di certe tecnologie in certi paesi (certo, cinicamente, sarebbero un po’ dei paesi-cavie), mentre i paesi più avveduti, spesso al tempo stesso i mercati più appetibili, potrebbero valutarne gli impatti e nel frattempo attrezzarsi per gestire queste innovazioni.

La tecnologia non è un processo autonomo, ma è sempre frutto di scelte politiche, anche, se non soprattutto, quando la politica lascia che essa si sviluppi in modalità a prima vista “libere”. Paesi come la Russia e la Cina hanno dimostrato che Google e Facebook non sono servizi perfetti che si impongono in ogni mercato di per sé, ma infosistemi totalitari, politicamente sostenuti dagli USA, che entrano inevitabilmente in conflitto con forme statuali autoritarie o tout court totalitarie. Le democrazie cosiddette liberali dovrebbero capire che la loro tutela della libertà non può capovolgersi nel consentire tutto al totalitarismo digitale. Ed è paradossale che alcune delle più feroci e argomentate critiche al totalitarismo digitale vengano da politici e pensatori di destra, sulla base di classici assunti libertari, mentre spesso i liberals americani si sono distinti per il loro collateralismo alle politiche e agli obiettivi dei GAFAM.

Dal canto suo anche una certa sinistra italiana, moderata e compatibilista, vive ancora nell’illusione che il progresso tecnologico sia un fattore di liberazione degli esseri umani, senza capire che ogni tecnologia pone immediatamente una relazione di dominio. Molti dei suoi esponenti farebbero bene a studiare le tematiche transumaniste, ma probabilmente si fermerebbero al prefisso trans e, per come è stato scritto il famigerato DDL Zan, nemmeno quello hanno capito.

 

Testi e link di riferimento

Marc Andreessen, Why the software is eating the world, 2011, https://pdf4pro.com/amp/view/why-software-is-eating-the-world-1bb986.html

Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, 2004

Benjamin Bratton, The Stack, on Software and Sovereignity, The Mit Press, 2016

Renato Curcio, L’Algoritmo Sovrano. Metamorfosi identitarie e rischi totalitari nella società artificiale, Sensibili alle Foglie, 2018

Arnold Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, 2010,

Raymond Kurzweil, The singularity in near, Viking, 2005

Nick Bostrom, Superintelligence, Oxford University Press, 2014

Max Tegmark, Vita 3.0. Essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2018

Shoshana Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism, Profile Books, 2019 (mia recensione qui)

Carlo Acutis: come si costruisce un santo al tempo dei media sociali

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Carlo Acutis: come si costruisce un santo al tempo dei media sociali

Dopo aver guardato sui nostri display gli sculettamenti di Gianluca Vacchi, gli scherzi scemi di Frank Matano, i video demenziali di Luis Sal, le videovendite di Elisa Maino e finanche la tragedia dei brufoli di Giulia De Lellis, finisce per essere una blanda penitenza l’attuale profluvio di video evocativi, interviste adoranti al prozio o all’amichetta delle elementari, i collegamenti in ginocchio con la volitiva mamma, gli approfondimenti di giornalismo misticheggiante in gloria di Carlo Acutis, lo sfortunato adolescente, oggi beato e prossimo santo, proposto dalla Chiesa cattolica come “influencer di Dio”.

Con un po’ di evangelica pazienza, supereremo anche questa campagna di comunicazione.

Semmai, essa è una buona occasione per chiedersi quali obiettivi si pone e se funziona la strategia di presenza sui media sociali della chiesa cattolica negli anni di Bergoglio.

Perché Carlo Acutis?

La biografia di Carlo Acutis è di per sé alquanto banale: bambino intelligente, sensibile e con le possibilità di avere un’eccellente istruzione, da adolescente stava iniziando a dimostrare le sue doti quando una leucemia fulminante lo uccide nel 2006. La trasfigurazione agiografica risulta, come sempre, molto più affascinante. Il giovane appassionato di informatica diventa così un genio precoce, da entusiasta credente diventa un esempio di fede miracolosa, l’adolescente chiassoso viene raccontato quasi come un giovane profeta circondato dai suoi seguaci, o followers.

Questo meccanismo di trasfigurazione è alquanto comune post mortem, anche fuori dalla religione. Ma ancora più interessante è che l’agiografia di Carlo Acutis rispecchi in maniera non casuale alcuni aspetti essenziali del papato di Bergoglio: innanzitutto, il culto di Carlo Acutis nasce dalla convergenza (che in termini secolari diremmo alleanza) tra gesuiti e francescani. Acutis, già allievo a Milano dell’Istituto parificato “Leone XIII” gestito dai gesuiti, frequentava Assisi dove la famiglia possiede una villa. Proveniente da una famiglia ricchissima (come San Francesco) e laica (proprio nel senso cui allude l’aggettivo in certi ambienti), il ragazzo volge la sua attenzione ai poveri e nel racconto agiografico converte alla fede con il suo esempio genitori, parenti e domestici.

Una figura vittima di una morte tragica e talmente precoce da non poter avere una biografia divisiva, in cui confluiscono il riguardo per l’elevata estrazione sociale e l’attenzione agli umili, il dialogo tra laici e cattolici, spiritualità e internet, ordinarietà ed eccezionalità, maturità di fede e superstizione. Su questo ultimo punto in molti articoli si lascia filtrare la presunta incorruzione del corpo del novello beato. Sono questi tutti elementi riscontrabili nella teologia del popolo cui tanto deve Papa Bergoglio.

Ma la vera sfida di questo progetto di comunicazione e di pastorale giovanile è riuscire a creare un santino per i media sociali, un riferimento di vita per adolescenti e soprattutto preadolescenti, considerati (a ragione) facile preda dell’ideologia dei media sociali.

La sfida di una chiesa onlife

Mentre le canonizzazioni dei religiosi sono spesso intelligibili solo alla luce degli equilibri di potere tra le varie congregazioni religiose, le canonizzazioni dei laici rappresentano piattaforme programmatiche che definiscono la posizione della Chiesa cattolica verso il potere politico e rispetto alle trasformazioni della società. Insomma, Carlo Acutis è un santo programmatico, un indirizzo sociale, un punto fermo su come la Chiesa cattolica vuole proporsi nella dimensione onlife. Proprio per questo vale la pena confrontare questo percorso con altre esperienze del Novecento. Tratteggiamo allora tre esempi di canonizzazione di persone comuni.

Il caso più celebre resta quello di Maria Goretti, la contadina delle campagne di Latina la quale, appena dodicenne, nel 1902 fu stuprata e uccisa da un altro contadino di poco più grande. Lo storico Giordano Bruno Guerri trasse dalla vicenda il celebre libro “Povera santa, povero assassino” in cui analizzò la costruzione della biografia della bambina vergine e santa, funzionale prima al riavvicinamento tra Chiesa e regime fascista dopo i Patti Lateranensi del 1929, poi, nel dopoguerra, alla campagna di moralizzazione avviata da Papa Pio XII anche come freno alle prime avvisaglie di libertà femminili.

Altri due esempi novecenteschi di santità laica sono indice di specifichi indirizzi di politica pastorale.

La canonizzazione nel 1964, proprio nel corso del Concilio Vaticano II, del paggio di corte Charles Lwanga e dei suoi ventuno compagni, i quali nel 1886 avevano rifiutato di prestarsi ai desideri omosessuali di un re ugandese, esplicitava due linee chiare: l’apertura verso il continente africano e la conferma del magistero in tema di inclinazioni sessuali.

Nel 2004 Giovanni Paolo II ha trovato nella vicenda di Gianna Beretta Molla, morta di tumore pur di non abortire, un esempio emblematico della sua idea di famiglia: rifiuto intransingente dell’aborto anche ai fini terapeutici, donna come moglie sollecita, madre prolifica e casalinga inappuntabile.

La novità novecentesca della santità cattolica proposta come qualcosa di ordinario trova però una nuova sfida nel web, perché non si tratta di un mero media al quale adattare i messaggi, ma di un ambiente sociale e cognitivo che cambia anche in profondità anche la percezione di sè delle persone.

La strategia di comunicazione

Per quanto venga presentato come “influencer di Dio”, Carlo Acutis non può esserlo, per il banale motivo che non può esserlo chi non produce contenuti in quanto, purtroppo, defunto. Certo, Youtube è stato, non per caso, invaso di video che propongono il nuovo beato, diffusi spesso da alcuni canali legati alla fede più popolare come Maria Vision o Medjugorje tutti i giorni, oltre che dagli account istituzionali come TV2000, della diocesi e frati minori di Assisi, di Chiesa di Milano e gli altri “stakeholders” dell’operazione.

Ma si tratta di filmati che devono fare i conti con la inevitabile scarsità di materiale, problema che la famiglia ha affrontato investendo addirittura su dei cartoni animati sulla vita di Carlo. Rimane la onnipresente madre a fare da testimonial, ma finendo poi per ripetere il solito canovaccio e i soliti slogan in ogni intervista o intervento.

Ecco perché, programmaticamente, è stata coinvolta finanche una laicissima firma del Corriere della Sera come Stefano Lorenzetto per proclamare Carlo Acutis “un santo per il web, ricordando che lo stesso Papa Francesco ha citato il giovane per dire che “questi meccanismi della comunicazione, della pubblicità e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati”, ma lui ha saputo uscirne “per comunicare valori e bellezza”. Dunque il web, i social media, la immediatezza del digitale dimentica di altre dimensioni come sfide del progetto di canonizzazione Acutis, e, al contempo, i media tradizionali e anche una certa religiosità tradizionalista. Perciò nella stessa intervista, Lorenzetto deve riportare la fola del corpo incorrotto di Acutis (smentita dalla stessa diocesi di Assisi) e citare vari esempi di trasformazione di ostie in muscolo cardiaco, di gruppo sanguigno AB, per la precisione. Riemerge costantemente la contraddizione di questa campagna di comunicazione: il web, un modello di religiosità capace di interfacciarsi con le dinamiche, anche mentali, dell’oggi, e il costante rimando a una devozione popolare, tridentina del culto.

Alla fine, nonostante gli sforzi di chi segue la comunicazione del progetto di rendere attuale, contemporanea, viva, la figura di Carlo Acutis, essa finisce inevitabilmente per rimanere una formula ideale, esemplare, di ispirazione per giovani già vicini alla fede cattolica, ma incapace di attrarre un numero sostanziale di nuovi “followers”.  Oggi non basta presentare degli esempi cui i cattolici possono ispirarsi, la sfida pastorale (che Bergoglio ha bene in testa quando gigioneggia alzando i pollici e indossando i cappellini da baseball con orrore dei tradizionalisti) è riguadagnare spazio sui media sociali e tra i giovani sostanzialmente indifferenti.

Quello che tuttavia sfugge del tutto all’approccio cattolico ai fenomeni web (e che quindi comporta una significativa irrilevanza fuori dagli stessi circuiti di comunicazione cattolica) è che gli influencer hanno successo non sulla base della loro eccezionalità, ma al contrario grazie alla loro ordinarietà, se non mediocrità, consentendo così ai loro fan di poter aspirare di diventare come loro.

E per quasi duemila anni, fino al Vaticano II, la santità cattolica è stata invece qualcosa di eccezionale, eroico, inattingibile, frutto di virtù uniche e fuori dal comune. E infatti Carlo Acutis viene presentato come un ragazzino eccezionalmente precoce, genio del computer, regista originale in erba, ideatore (e organizzatore) di mostre dal successo globale.

Ma i Millennials e la Z Generation rifuggono dagli esempi inarrivabili. La generazione degli under 20 sta costantemente abbassando le sue ambizioni per poter sopravvivere a condizioni di vita che si prospettano peggiori di quelle dei loro genitori. Questa generazione non cerca degli eroi o dei miti, e men che meno dei santi, ma solo persone simili a loro che possano rassicurarli che l’inconsistenza e la fragilità delle loro esistenze possano essere redente da un algoritmo che li sollevi alla celebrità. Gli influencer più celebri non sono inarrivabili, ma sono oggetto di identificazione proprio per la loro mediocrità.

Ecco come un’operazione di comunicazione come quella costruita attorno alla parabola di Carlo Acutis rileva tutti i suoi limiti rispetto alle esigenze dei giovanissimi e soprattutto in rapporto alla ideologia dei media sociali, che sono emozionali e non riflessivi, mediocrizzanti e non eroicizzanti, epidermici e non profondi, materialistici e non spirituali.

I Millennials e la Z Generation non cercano degli eroi o dei miti, e men che meno dei santi, ma solo persone simili a loro che possano rassicurarli che l’inconsistenza e la fragilità delle loro esistenze possano essere redente da un algoritmo che li sollevi alla celebrità

Si tratta di una sfida pastorale che alcune diocesi storicamente più avvertite stanno comunque affrontando. Il caso di maggior successo è quello di don Alberto Ravagliani, il quale fa catechesi copiando in tutto e per tutto lo stile dei video di Marco Montemagno. La Chiesa di Milano è da decenni molto avanti nel confronto con i mondi ad essa lontani (Carlo Maria Martini istituì la cattedra dei non credenti nel 1987) e, pur non avendo trovato ancora uno stile proprio e originale, dimostra che ha iniziato a studiare i casi di successo sui social.

Il web è uno spazio dove la chiesa si sente se non perdente, di certo sulla difensiva. In quanto potere istituito, la chiesa ha saputo gestire o indirizzare molto bene i media di massa a logica broadcast, uno a molti, ma non riesce a prendere le misure con la reticolarità di un modello che fa emergere facilmente in modalità virale pensieri e tendenze non istituzionali, specialmente sette new age e proposte sincretiche che tanto allarmano i cattolici.

Carlo Acutis sarà dunque un santo programmatico, ovvero un punto di riferimento della strategia di presenza e rilevanza sui media sociali che la chiesa cattolica sta ancora elaborando. Si tratta di un work in progress dai risultati contraddittori che sicuramente registrerà correzioni e aggiornamenti fino alla canonizzazione definitiva. E si tratta di una sfida che non riguarda solo i cattolici ma tutte le organizzazioni che hanno un portato identitario forte e stratificato e sono chiamate ad elaborare ed affermare il loro essere onlife.

Spesso un santo ci dice più cose sulle sfide di un dato momento storico di quanto potremmo credere.

Il low cost, causa dimenticata del populismo

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Il low cost, causa dimenticata del populismo

Cosa c’entra un mobile di compensato con Berlusconi, Salvini, Renzi e Grillo? Molto più di quanto si creda e di seguito cerco di spiegarlo. 

Il low cost e l’eclisse del futuro

In un mondo dove prima o poi quasi tutto sarà in offerta speciale, in saldo, in sconto, in promozione o al prezzo di lancio o di svendita, il low-cost è molto di più che il suo prezzo. Semmai esso rappresenta un’estetica e un’ideologia, al contempo aspirazione e rifugio dell’esistenza, che oggi appaiono prossime ad esaurire la loro carica persuasiva: il basso costo non riesce più a nascondere i suoi costi nascosti, materiali e sociali; l’abbassamento degli stili di vita non è più mascherato da consumi accessibili; le scelte che dieci anni fa sembravano scaltre ora appaiono per quel che sono: compromessi, con i quali si è deciso di rinunciare a qualche certezza nel futuro in cambio di un presente meno frustrante.

Cosa (non) è il low cost

Passiamo a definire meglio il tema.

Il low cost non è l’acquisto al mercato rionale dove si fruga tra roba taroccata, rubata o di seconda mano, ben consapevoli dei limiti della propria condizione economica.

Il low cost non è la svendita o la promozione speciale, quando per un periodo limitato si può comprare un prodotto della medesima qualità usuale.

Il low-cost non è nemmeno la bassa qualità, quando il rivenditore non fa nulla per mascherarla.

Il low-cost non è sobrietà. Al contrario è la rivendicazione da parte del consumatore impoverito a pretendere svaghi e beni simili a quelli che possono permettersi i benestanti globali.

Il low-cost non è solo uno slogan e una tecnica di marketing, ma definisce anche un habitus sociale che va ben al d là delle scelte strettamente economiche di chi ne fruisce

Il low-cost si è presentato come uno stile di vita capace di incarnare un nuovo compromesso sociale, tipico delle società post-industriali europee, in cui le generazioni di mezzo si adeguano alla contrazione dei loro redditi rispetto alla generazione precedente, accettano l’impossibilità di accumulare risparmio e rinunciano, inconsciamente o meno, alle tutele sul futuro che garantiva lo Stato in cambio di un potere di acquisto immediato e alquanto diversificato di beni e servizi mimetici dei consumi affluenti, ma il cui prezzo media tra le loro aspirazioni e la loro condizione economica.

La rap-presentazione del low cost

Il prodotto low cost non si propone a prima vista come povero o economico, almeno per quanto riguarda la comunicazione. Il low cost non si racconta come un compromesso o una rinuncia, ma come una scelta consapevole di cui non vergognarsi perché dei beni e i prodotti low cost si evidenzia la loro ampia diffusione, cercando così di renderli non solo accettabili, ma fattore per essere socialmente accettati. Il low cost viene comunicato con stili e modalità a volte più raffinati di quelli dei prodotti equivalenti di qualità superiore, lo stile è tranquillizzante, oppure entusiasta ma anansiogeno, in alcuni casi addirittura scanzonato e (auto)ironico.

Il catalogo IKEA è un classico caso di studio. La qualità delle composizioni, degli ambienti, della luce nelle immagini del catalogo potrebbe reggere il confronto con le riviste di architettura più prestigiose. Ma questa scenografia serve a presentare prodotti in truciolare, pannellature e plastica prodotti nei paesi più poveri al mondo.

Non si tratta solo della classica confezione più prestigiosa o più costosa del contenuto. Il catalogo interloquisce con le attese e le aspirazioni del compratore. Certo, ogni acquirente è ben consapevole che se si trova in un IKEA è perché, di solito, vive in un appartamento piccolo e vuole risparmiare, ma quel che l’acquirente inconsciamente cerca e vorrebbe ritrovare quando entra in un megastore IKEA sono gli ambienti e le atmosfere del catalogo. Il catalogo è l’utopia possibile, di un appartamento piccolo ma confortevole, economico ma accogliente, in cui esprimere i propri variegati interessi calibrandoli sul proprio reddito. Coerente con le conclusioni di queste riflessioni anche lo slogan del catalogo italiano IKEA 2018: “Facciamo spazio alla tua voglia di cambiare”.

Le didascalie del catalogo alludono spesso al confine, chiaro ma implicito, tra vincoli materiali (spazio, disponibilità economiche) e aspirazioni.

Ascesa e declino del low cost 

Son passati poco più che dieci anni da quando il testo di Massimo Gaggi ed Eduardo Narduzzi “La fine del ceto medio e la nascita della società low cost” si spingeva a ipotizzare un modello low cost per tanta parte delle attività economiche e sociali. Si andava ben oltre l’acquisto di un biglietto aereo a pochi euro o un mobile in truciolato per qualche decina. Si ipotizzava un mondo dove la produzione e l’erogazione di servizi tradizionalmente in capo allo Stato, la giustizia, la sanità, la pubblica amministrazione, le pensioni, venivano ripensati in logica low cost e dentro l’idea di uno Stato minimo. Molto più di una moda o di uno stile di vita, il low cost veniva proposto come uno strumento, culturale, prima ancora che economico, per riprogettare la società sulle basi non di una frugalità voluta, ma di modello sociale imposto dall’addio al welfare state e dal declino dei redditi personali.

Una generazione intera ha così visto nei consumi compulsivi e low cost una soluzione alle grandi aspirazioni cui era stata educata. La “generazione low cost” e la per tanti versi sovrapponibile “generazione Erasmus” sono due facce della stessa medaglia: una generazione occidentale transnazionale, che ha fruito solo indirettamente dei benefici e le tutele sociali dei loro genitori, accomunata da principi politici in sostanza moderati e da una bassa conflittualità sociale anche grazie all’accesso a beni che per i loro padri erano un lusso, come ad esempio i frequenti viaggi in aereo. Una generazione precaria e senza alcuna sicurezza per i suoi anni tardi che non sente acutamente il disagio della sua condizione grazie all’accesso a beni e servizi a basso costo.

Al di là di motivazioni strettamente culturali e politiche, bisognerebbe anche indagare quanto la facilità di accesso a beni e servizi ha consentito di disinnescare la conflittualità potenziale di una intera generazione. Internet e il low cost hanno rappresentato due grandi valvole di sfogo delle inquietudini e dei desideri giovanili, per cui mai come oggi, nonostante scontri sporadici, la gioventù europea è tanto poco politicizzata e tanto conformista. Se di per sé internet ha ancora una carica liberatoria e libertaria (disintermediazione del sapere, della politica, dei rapporti sociali: messa in discussione dei “poteri”), i social media, che tanta parte parte rappresentano dell’internet, sono al contrario un meccanismo conformista perché tendono a spingere le persone a ricercare il consenso su quanto affermato, rafforzando gli stereotipi delle grandi filter bubbles in cui le varie tribù digitali vivono. Il low cost ha trasformato il desiderio in un processo pulsionale e ricorsivo di accumulazione quantitativa, rimandando la pretesa per la qualità (degli oggetti, come anche della stessa esistenza) a un orizzonte lontano, “quando ce lo potremo permettere”.

A questa platea di consumatori si aggiunge una parte consistente dei loro genitori, privati spesso delle tutele e dei servizi sociali che fruivano all’inizio del loro percorso lavorativo, che oggi si trovano a far fronte a questo declino della loro condizione ricorrendo a servizi e beni low cost. Da un punto di vista globale queste due generazioni si trovano soprattutto in Europa, affastellati attorno al valore minimo della oramai classica curva di Branko Milanovic.

In fondo alla proboscide dell’elefante di Milanovic si sono dunque ritrovati milioni di giovani europei che prima hanno pensato che le scelte low-cost fossero solo legate alla fase iniziale del loro percorso lavorativo per poi capire di essere ingabbiati in una dimensione permanente.

In un mondo dove poi l’esibizionismo digitale di desideri, esauditi o meno, crea forti pressioni esistenziali, il low cost si propone come una strategia di gestione all’impoverimento delle prospettive di almeno due generazioni.

Ma questo modello, che poteva essere accettato come un rifugio temporaneo, è diventato per molti  la trappola in cui son richiuse le loro aspirazioni.

Dalla sicurezza ai consumi: il low cost come ricerca di senso

La modernità può essere raccontata anche come l’eclisse dall’orizzonte umano di una idea di senso trascendente e inattingibile nella storia dei singoli e delle collettività. L’idea di un destino che presiedeva le vite di tutti, rendeva le tragedie più accettabili e comprensibili (“dio dà e dio toglie”). L’ideologia della razionalità che inizia a farsi strada a partire dall’età moderna sostituisce un destino accettato come inevitabile con la volontà di prevedere il futuro, la coscienza di poter controllare il percorso delle vite umane e delle stesse società.

Con Bismark, in pieno positivismo, viene teorizzata e messa in pratica l’idea che la coesione sociale e lo spirito nazionale vanno rafforzati attraverso l’impegno dello Stato a garantire a tutti un possibile futuro (scuola pubblica aperta a tutti), la cura dalla malattia (ospedali pubblici) e soprattutto la vecchiaia. Lo Stato garante del futuro attraverso le pensioni è il massimo esempio di predittività sociale: le assicurazioni calcolano matematicamente quanti lavoratori servono per mantenere un pensionato e quanti anni in media potrà quest’ultimo godersi la pensione (al netto di abusi).

Il passaggio dal modello a ripartizione al modello contributivo è già un primo colpo a una idea di coesione sociale attraverso la garanzia di tutela comuni e inclusive. Il principio contributivo per cui chi più versa più avrà cambia totalmente il quadro. Viene meno l’idea che era un diritto e diventa una componente di un piano di investimento in base alla capacità individuale gestito dallo Stato.

Il compromesso socialdemocratico europeo di una vita confortevole basata su lavoro, pensioni, sanità e istruzione era il patto fondante tra cittadino e Stato, in cui quest’ultimo si faceva garante del futuro dei propri cittadini che in cambio ne riconoscevano la piena legittimità.

Ogni senso dell’esistenza parte dall’idea di futuro che ci facciamo o che ci viene proposta. Se lo Stato viene meno con gli impegni che aveva iniziato a prendere oltre un secolo fa che senso ha più la mia cittadinanza? Ecco dunque che nella tarda società consumistica avviene il decoupling, il disaccoppiamento tra consumatore e cittadino: lo Stato con le sue elites si allontana dalle masse, mentre si minimizza e si ritira da tanti ambiti, lasciando il cittadino orfano di legami politici e concentrato solo nel suo ruolo di consumatore a basso costo, con l’obiettivo di massimizzare le sue gratificazioni materiali.

Il destino personale in una società atomizzata si riduce a nient’altro a una collazione di gratificazioni consumistiche a basso costo e a se stanti, senza più una visione che dia l’idea di un percorso o di un senso all’esistenza. Al massimo, si richiede un consenso temporaneo alle proprie esperienze pietendo un Like su Facebook o un cuoricino su Instagram.

Il processo di produzione-consumo del low cost

L’abbassamento dei costi di produzione non è solamente il frutto delle efficienze dovute alla digitalizzazione dei processo produttivi e distributivi. Il prosumer, il produttore-consumatore, è un soggetto centrale perché senza la sua diretta collaborazione non si potrebbero ottenere ulteriori riduzioni di costi, ad egli, talvolta, parzialmente restituiti.

Il Low cost addebita al cliente una serie di costi non monetari o non immediatamente monetizzabili: il montaggio con le proprie mani o a proprie spese di beni fisici, il self service in tanti ristoranti a basso costo, il processo di registrazione e accettazione del passeggero, la necessità di acquisire competenze un tempo appannaggio solo dei bancari, la breve durata dei capi di abbigliamento che implica costi di sostituzione significativi.

Il consumatore è costretto alla collaborazione se non vuol pagare costi aggiuntivi che spesso fanno svanire i vantaggi del prezzo basso. Richiedere il trasporto e il montaggio a casa di un mobile o dimenticarsi di completare da sé il check-in costa molto salato.

Non si tratta solo di costi a valle. Sappiamo bene che il processo d’acquisto di un volo low cost può tradursi in una snervante gimcana tra caselle da cliccare e offerte da declinare per riuscire davvero a raggiungere l’agognato prezzo speciale. Così come il prezzo di altri beni low cost appare davvero super conveniente solo con ulteriori sconti, mentre prodotti simili sono spesso più convenienti in altri esercenti.

Iniziamo ad essere sempre più consapevoli che la produzione del low cost ha un pesante impatto ecologico e sociale. e a volte non è nemmeno tanto conveniente sotto l’aspetto strettamente economico. La produzione globale delocalizzata punta non solo a inseguire il costo del lavoro più basso, ma anche il quadro normativo meno stringente per quanto riguarda il rispetto della sicurezza ambientale e sul lavoro. Le nostre case low cost sono piene di capi di abbigliamento made in Bangladesh o di mobili made in Serbia o  in Romania, ma queste nostre stesse case sono abitate da assistenti di volo di compagnie low cost, commesse di negozi low cost, sviluppatori software sottopagati per progetti low cost.

Il low cost, essendo un processo assolutamente deterritorializante, indifferente al territorio e alle sue regole, tende a imporre la stessa logica lungo tutta la sua filiera, non conta se parti di essa si trovino in Marocco o in Germania. L’assistente di volo della compagnia low cost si può affidare solo al low cost per poter mangiare, poter arredare il proprio monolocale, per potersi vestire, per poter telefonare e per gran parte delle sue attività.

Il low cost, che è apparso nelle nostre vite come idea geniale per avere di più dai nostri salari sfruttando le opportunità delle disuguaglianze globali, ha piegato le nostre vite e i nostri diritti alle sue logiche.

Low cost e populismo industriale

Il low cost, come ideologia di controllo sociale proposta dalle elites, finisce per sfociare nel populismo, come rottura della fiducia tra governanti e governati a seguito della rinuncia dello Stato a offrire un orizzonte di senso e di futuro ai suoi cittadini.

Lo Stato viene identificato del tutto con le sue élite perché non riesce più a rappresentarsi come un organismo coeso. Il superamento degli Stati-nazione è andato di pari passo con il ritiro dello Stato dagli impegni del compromesso socialdemocratico del secondo Dopoguerra. Privati di molte garanzie che si aspettavano dallo Stato, disorientati da uno Stato multiculturale che spesso non sa gestire la trasformazione dovuta ai flussi migratori, le classi meno agiate hanno trovato un rifugio consolatorio nel low cost e un rifugio politico nel populismo, pur pienamente consapevoli che si tratta di soluzioni di ripiego in entrambi i piani.

Il low cost rappresenta una delle massime esperienze del Populismo industriale, per usare il termine di Bernard Stiegler. La fruizione compulsiva di beni di poco valore e dal basso costo alla fine banalizza l’esigenza degli stessi consumatori di individualizzarsi, di caratterizzarsi attraverso il consumo. Se sei consumatore low cost, sarai anche un cittadino low value?

L’ideologia di controllo sociale attraverso il low cost dell’ultimo quindicennio implicava una depoliticizzazazione delle masse e il loro rifugio in orizzonti di senso del tutto individuali, basati su gratificazioni materiali continue ma di breve durata e di ridotte ambizioni. Questo downsizing materiale, questa resilienza esistenziale, mostrano ogni giorno dei punti di rottura di fronte alle pressioni di una società orfana di visioni capaci di governarla nel complesso e dare un senso alle singole esistenze. Così, all’interno del classico pendolo tra dimensione pubblica e dimensione privata di Albert O. Hirshman, gli individui tornano alla politica, ma a una politica di stampo populista, in cui si ritrovano accomunati da accuse più o meno generiche alle èlites che, esplicitamente o meno, hanno gestito il processo di impoverimento di milioni di persone nelle nazioni più industrializzate.Il disvelamento dei limiti del compromesso low cost porta questa forma di individualismo frustrato a sfociare in politica, in una politica che si può essere definita, senza accezioni di giudizio, populista.

In tutti i programmi politici populisti vi è un forte accento su un nuovo protagonismo dello Stato, che deve essere chiamato non solo a proteggere i cittadini dagli effetti della globalizzazione (si manifesti essa come immigrazione o come impoverimento della classe media), ma dovrebbe ricostruire un orizzonte di senso attraverso un nuovo senso di appartenenza e di coesione collettiva.

Ecco perché il low cost, che pure resterà come offerta commerciale, ha fallito come ideologia a sostegno dell’idea di uno Stato minimo: essa ha mancato totalmente l’obiettivo di creare una generazione soddisfatta della propria condizione grazie all’accesso diffuso a beni di scarsa qualità e oggi questa generazione (assieme agli strati sociali più poveri che più hanno sofferto …) entra in politica attraverso la porta del populismo, senza essersi però mai addestrata alla capacità politica di risoluzione dei problemi.

Il low cost rientra nei ranghi come mera strategia aziendale e lascia il campo a un’epoca in cui il contrasto tra le attese degli individui e le possibilità della politica diventerà ancora più stridente e rischioso per la tenuta della stessa società.

(l’immagine di copertina è tratta dal Catalogo Ikea Italia 2017)

Bibliografia: 

Branko Milanovic, “Worlds apart: Measuring international and global inequality” Princeton University Press, 2005

Massimo Gaggi, Eduardo Narduzzi, La fine del ceto medio e la nascita della società low cost, Einaudi, 2006

Bernard Stiegler, Reincantare il mondo. Il valore spirito contro il populismo industriale, Orthotes, Napoli 2012

Bernard Stiegler, State of Shock. Stupidity and knowledge in XXI century, Polity Press, 2015

Albert O. Hirshman, Felicità privata e felicità pubblica, Feltrinelli, 1983

 

Linkografia:

Ideología del loro cost, El Paìs, 7 decembre 2006 https://elpais.com/diario/2006/12/07/sociedad/1165446009_850215.html

La generatiòn low cost, El Mundo, 11/01/2015 http://www.elmundo.es/economia/2015/01/11/54afd7cc22601d31158b457e.html “No hay muebles de carpintería, sino estanterías Billy de Ikea, símbolo de la existencia low cost de la mayoría de estos jóvenes.”

No more low cost: East Europe goes up in the world, July 25th 2017, Reuters, https://www.reuters.com/article/us-easteurope-economy-analysis/no-more-low-cost-east-europe-goes-up-in-the-world-idUSKBN1AA1RE “We are not just cheaper-labor economy but also a low-cost economy,”

When cheap is not so cheap, The Economist, Sept 2nd 2014,  https://www.economist.com/news/business-and-finance/21614076-rethinking-low-cost-and-high-cost-manufacturing-locations-when-cheap-not-so-cheap

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