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Fenomenologia di Vincenzo De Luca

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Fenomenologia di Vincenzo De Luca

(e della sinistra post-democratica)

Da oramai 3 decenni imperversa sui media, prima locali e oggi sociali, l’unico politico costantemente impegnato a imitare i suoi imitatori. 

L’affabulatore

All’epoca dei suoi primi successi su una televisione locale, privilegiava il dialogo con i telespettatori, dando conto dei suoi risultati e delle sue idee, al massimo redarguendo qualche ardimentoso cittadino che aveva osato criticarlo e crogiolandosi nei complimenti che regolarmente arrivavano tramite le telefonate in studio. 

Oggi, in epoca di social media, si dedica per lo più a monologhi in forma di proclami via dirette facebook. Il tono della voce indugia su una scala di bassi, scandendo le parole e a volte le sillabe con fare pedagogico e talvolta a mo’ di “consiglio amichevole” di un malavitoso. Le pause, gli sbuffi, le incrinature della voce, studiate come ogni bravo attore, indicano, di volta in volta, rabbia trattenuta per l’incapacità degli avversari, benigna commiserazione verso l’ottusità altrui, complicità con gli spettatori nell’irridere i critici.

Tipica mimica deluchiana durante un’esibizione su LIRA TV

L’eloquio forbito non serve solo ad affermare il suo livello culturale, ma anche a incutere un timore reverenziale in una parte del suo pubblico, affezionato quanto ingenuo, come tutti i fan d’altronde. Un lessico così ricercato creerebbe una distanza incolmabile con il pubblico se non venisse inframmezzato da insulti colloquiali, dialettali, o schiettamente volgari di cui presentiamo un florilegio minimo: somaro, sciacallo, pinguino, cretino, idiota, imbecille, farabutto, sfessato, Neanderthal, pistolino, chiancarelle, chiattona, portaseccia e mezzapippa. Il nostro performer dedica particolare cura all’elaborazione degli epiteti da destinare agli avversari: “chierichetto” quando vuole essere banalmente gentile, “faccia come un fondoschiena usurato”, quando è in vena creativa. Si tratta oramai di un pezzo forte del repertorio preteso dal suo pubblico ad ogni sua performance e la collazione di queste ingiurie creative alimenta una specie di sottocategoria giornalistica. 

Sarebbe però banale ridurre Vincenzo De Luca alle invettive e agli insulti che lo hanno fatto diventare una star del web internazionale. La storia di questo politico meridionale dice molto della parabola della sinistra italiana, del suo fallimento, che l’ha portata a essere al contempo conformista e marginale; teoricamente inclusiva, ma elitista nella pratica; sulla carta progressista, ma conservatrice, se non addirittura autoritaria, nella sostanza, come anche la pandemia ha dimostrato. 

Dalle rivendicazioni collettive all’affermazione del singolo 

Nato a Ruvo del Monte, un paesino della Basilicata di mille abitanti, e cresciuto a Salerno, dove si laurea in filosofia agli inizi degli anni Settanta, il futuro “sceriffo” era destinato a essere un professore di liceo, un onesto quanto oscuro intellettuale di provincia, se non avesse intrapreso l’attività politica con il partito comunista, impegnandosi in particolare nelle lotte dei contadini. Una tipica sintesi perseguita dal PCI: gli intellettuali che si confrontavano con il popolo, se ne facevano portavoce, lo elevavano in termini di consapevolezza e capacità di organizzazione. Non è  il percorso di vita di un singolo: dal Dopoguerra in avanti tantissimi giovani intellettuali di sinistra decisero di impiegarsi nei servizi dello Stato o di farsi assumere nelle fabbriche private per fare attività politica in questi contesti. Lo stipendio fisso era una motivazione secondaria rispetto all’obiettivo di cambiare i rapporti di forza sociali dall’interno dello Stato e nella società. Chi si dedicava esclusivamente al Partito, faceva una scelta di vita che implicava sacrifici ancora maggiori in termini personali ed economici. 

Dunque il nostro attuale performer di successo viene da una gavetta che per circa 15 anni ha visto come pubblico contadini, braccianti, allevatori, operai delle fabbriche della filiera agroalimentare di Campania e Lucania, un pubblico al quale parlare semplice, diretto, con un linguaggio immediato era una necessità, ma anche un obbligo morale e politico. 

Immaginiamo la situazione: un giovane intellettuale meridionale fresco di una tesi di laurea su Francis Bacon, il primo teorico moderno della razionalizzazione del mondo, si confronta con un mondo che negli anni Settanta era in parte ancora ancestrale per cercare di portarlo nell’analisi marxista dei rapporti di forza economici e mobilitarlo politicamente. Tanti giovani idealisti si sarebbero arresi nel constatare quanto la razionalità dei libri risultasse lontana da quella realtà. Non il ambizioso eroe, che in quegli anni gli avversari  soprannominarono, con un’iperbole lungimirante, Pol Pot, il dittatore cambogiano che sterminò gli intellettuali e chiunque portasse gli occhiali per creare una società totalmente rurale. 

Una vulgata giornalistica facilona associa la politica degli anni Settanta quasi sempre e solo ai terrorismi, di destra come di sinistra. In realtà, gli anni Settanta sono stati l’acme di un percorso, intrapreso due decenni prima sulla scorta delle intuizioni gramsciane, in cui la sinistra ha davvero creduto di redimere il popolo, non svuotandone la cultura, ma valorizzandola come elemento di orgoglio e di identità e dunque di liberazione, oggetto di studio e ispirazione per grandi studiosi e artisti, come Ernesto De Martino Italo Calvino, Roberto Leydi e Roberto De Simone,  e tanti altri. 

Quel che oggi sappiamo della civiltà contadina italica, che era rimasta la medesima per forse tremila anni ed è stata distrutta in Italia in meno di tre generazioni, lo dobbiamo per lo più ai lavori di ricerca ispirati nel Dopoguerra dal PCI, capaci anche di demistificare certe modalità di idealizzazione del “popolo” da parte di chi non era mai stato in mezzo ad esso. Vincenzo De Luca in mezzo ai contadini si è invece formato, e ha capito nel corso degli anni Ottanta come la battaglia ideale e sociale del PCI stava perdendo colpi, a seguito delle trasformazioni della società, del consumismo televisivo, dell’emergenza di  nuovi soggetti lavorativi che portavano nuovi bisogni e forse soprattutto dei limiti, in termini di idee e di personale politico, che il PCI manifestava a comprendere questi fenomeni. La caduta del muro di Berlino è stata soltanto la pietra tombale su un progetto di trasformazione sociale e politica che era già morto da anni. 

Così, a inizio degli anni Novanta, migliaia di persone dal notevole spessore intellettuale si ritrovarono allora non solo disorientati, ma spesso anche disoccupati a causa del fallimento di un progetto politico che aveva convogliato per decenni nella sua realizzazione migliaia, se non decine di migliaia, di esistenze, condizionandone scelte e qualità della vita. Si smantellava una burocrazia intellettuale e si rinunciava così a ogni ambizione di redimere i cafoni, i lavoratori, gli ignoranti, i marginali, quelli che un tempo erano stati invece l’oggetto privilegiato delle cure del PCI: le masse industriali e civiltà contadina non si sarebbero mai fuse in un “popolo” capace di indirizzare un percorso di avanzamento sociale e politico. Il dilagare del berlusconismo, inteso come un’idea di società individualista, opportunista, antilegalitaria, anche negli strati meno agiati della popolazione veniva vissuto dalla sinistra come un tradimento. Pochi però si sono posti qualche domanda sugli effetti che il crollo di certi ideali, l’agile trasformismo di tanti dirigenti e l’opportunismo da sopravvivenza di tanti altri facevano sul sentire comune di ex militanti e tesserati. Il berlusconismo dilagò anche perché trovò le casematte abbandonate da chi vi era a guardia. 

Sparito il mondo in cui si era formato De Luca, quando gli intellettuali facevano politica per redimere gli ignoranti; chiuse le sezioni dove ci si ritrovava a ragionare tra istruiti e militanti e prima ancora a conoscersi e a socializzare; svanita ogni prospettiva di cambiamento: restavano singole emergenze e indignazioni del momento, singoli obiettivi di questa o quella associazione monotematica, vertenze territoriali e diritti dei singoli (gay, disabili, immigrati) raramente visti in una dimensione collettiva.

Come tanti suoi ex compagni di partito, il nostro personaggio capì che la sua sopravvivenza politica passava attraverso la conquista in prima persona delle leve del potere amministrativo. Per decenni il ruolo di segretario del partito comunista e gli incarichi amministrativi erano stati tenuti ben separati. Nel 1993 De Luca impone da segretario cittadino del PDS la sua candidatura a sindaco di Salerno, conscio che i rapporti si erano ribaltati: il potere non si trovava più nel partito politico, locale o nazionale, o nei corpi sociali che organizzavano le istanze della cittadinanza, ma nell’amministrazione e nel governo. Svanisce l’ambizione di dilatare il potere e i diritti del popolo e predomina l’idea di un cittadino-cliente che chiede di essere amministrato attraverso servizi efficienti gestiti da tecnici competenti. 

Da plebe a popolo, dalla gente ai follower

Plebe, sudditi, proletariato, popolo, massa, gente, individui: sono tutti termini che sottendono una specifica ideologia e una specifica relazione di potere tra l’oggetto e il discorso che ne parla. Quando ci si lamenta che è sparito “il popolo” (qualsiasi cosa con questo termine si intenda) non ci si riferisce a un’estinzione di tipo antropologico come nel caso della cultura contadina: semplicemente è diventato minoritario o marginale un certo approccio che implicava una determinata modalità di (auto)rappresentazione.

Nel corso del Novecento la cosiddetta cultura popolare è stata di volta in volta oggetto di disprezzo, repressione, riscoperta o valorizzazione a seconda dei rapporti di potere nella società. Quello che una volta veniva chiamato popolo attraverso le lenti di un’ideologia di liberazione, diventa negli anni Novanta la “‘ggente” sotto le telecamere della cosiddetta Tv-verità, in cui i singoli che vi apparivano dovevano per lo più manifestare solo sfoghi, proteste, rabbia, urla, sentimenti basici e per lo più negativi: un coro vociante chiamato solo a fare da contrappunto e a confermare le tesi dei conduttori, i Funari o i Michele Santoro, guarda caso quest’ultimo proveniente dal PCI di Salerno. 

In questi anni di trionfo mediatico del suo storico antagonista salernitano, De Luca deve accontentarsi delle dirette da una sgarrupata televisione locale (“De Luca non vali una LIRA TV” è lo slogan di protesta di quegli anni a Salerno) per affermare il suo lavoro amministrativo e affinare il suo appeal televisivo. Nei suoi proclami televisivi il caudillo di Salerno sostituisce presto la pedagogia del popolo di gioventù con l’ortopedia del buon cittadino che egli ritiene debba, da buon amministratore, imporre. A un’idea di trasformazione democratica dei servizi pubblici subentra presto l’uso dei vigili urbani come una guardia pretoriana personale. La tanto esaltata movida esalta il disimpegno dei giovani e lascia ampi spazi all’autocrazia localistica, mentre i pochi spazi realmente autogestiti vengono  marginalizzati, criminalizzati, se non a volte anche perseguiti. Un modello di amministrazione e un’idea di società che in qualsiasi paese d’Europa verrebbero definiti di destra. Perché allora la sinistra salottiera di Fabio Fazio ama tanto Vincenzo De Luca? Perché quest’ultimo, nella sua studiata incontinenza linguistica, dà voce al disprezzo che questi “ceti medi riflessivi” riservano ai miracolati della politica come ai dipendenti pubblici fannulloni, agli immigrati che spacciano e non sanno fare la differenziata, ai vicini maleducati, ai fattorini che gli portano il cibo a casa senza il dovuto rispetto, ai giovani ignoranti e sboccati, a tutti quelli che disturbano l’agognata quiete nelle loro vite e confermano le loro supponenze. D’altra parte quale è lo zoccolo duro degli elettori della sinistra “moderata” italiana se non un ceto medio conformista e in cerca di sicurezza economica e tranquillità sociale?

Vi è in questo fatto la profonda contraddizione che condanna oramai la sinistra italiana a essere minoranza numerica nel paese, proprio a fronte della sua sbandierata superiorità morale e intellettuale: mentre un politico leghista, berlusconiano, post-fascista non si sente migliore dei suoi elettori e rappresenta coerentemente i loro principi e il loro sentire, un politico di sinistra italiana rimarca spesso una certa distanza (se non imbarazzo), dai suoi elettori. Il politico della sinistra italiana attuale farebbe volentieri a meno dei suoi elettori, e ancor di più delle elezioni (come in effetti accade). 

Nel collasso ideale e antropologico che ha caratterizzato la politica italiana dell’ultimo trentennio, De Luca è stato un raro animale politico capace di adattarsi all’ambiente e agli scenari che rapidamente si susseguivano, attivando doti mimetiche a seconda dei contesti e delle situazioni in cui si trova. La sua comunicazione è tutto tranne che improvvisata e connette mondi ben diversi: le volute volgarità del suo linguaggio lo fanno percepire loro prossimo a ignoranti e analfabeti di ritorno; i termini aulici e le allusioni di varia natura sono colte da chi le deve intendere a ben altri livelli; le metafore, le iperboli, le metonimie, le pause, gli sbuffi, le urla sono il precipitato storico che dai comizi di piazza arriva fino alle miniclip e ai meme sui media sociali e sui sistemi di messaggistica. 

 

La pandemia, prove generali di post-democrazia 

La pandemia è stata per De Luca la grande occasione per mettere in atto senza freni il suo narcisismo comunicativo e le sue pulsioni sadico-autoritarie. 

Ricordare nel dettaglio le sue sparate grandguignolesche, come sull’utilizzo del lanciafiamme come antisettico, sarebbe stucchevole quanto stupirsi, dopo le nostre argomentazioni, degli applausi scroscianti che ha ottenuto dai cosiddetti liberali di sinistra per queste e altre affermazioni della sua incontinenza verbale. Ora delle due l’una: qualsiasi governante in qualsiasi parte del globo che avesse affermato una cosa del genere (pensiamo per esempio a Trump) sarebbe stato trattato o da psicotico o da buffone. Il lettore avrà oramai capito che noi propendiamo per la seconda ipotesi, nella variante del personaggio da avanspettacolo, eppure sconcertano ancora le risate crasse e indulgenti che la sinistrata sinistra italiana ha riservato a queste e altre sparate, mentre milioni di famiglie campane vivevano nelle quattro mura domestiche momenti di sconforto, panico e spesso di fame.

Mentre la pandemia in primavera risparmiava il Meridione, Sua Incontinenza se ne attribuiva il merito e metteva in campo un confinamento durissimo (vietato anche l’asporto) che realizzava così il suo sogno segreto: esercitare, almeno per qualche settimana, un controllo assoluto sulla popolazione, facendo delle città un deserto poco problematico. 

E quando poi in autunno è arrivata la seconda ondata quali sono stati i risultati di questa starlette della pandemia, invitato costantemente da Fabio Fazio per rivitalizzare l’audience con i suoi monologhi della piangina contro il mondo incapace? Abbiamo un ulteriore paradosso: a parlare in tv di governo del Covid e dintorni viene chiamato il governatore della regione con più ammalati d’Italia al momento e quello che ha registrato spesso i peggiori numeri. 

Secondo il Gimbe, la Campania resta ad oggi la quarta peggiore regione italiana (dopo Calabria, Sicilia e Basilicata) nel rapporto tra incidenza per 100.000 abitanti nelle ultime due settimane e percentuale di incremento dei casi. 

Sempre secondo i dati elaborati dalla Fondazione Gimbe sulla base dei dati ufficiali del Ministero della Salute, la Campania è oggi di gran lunga la regione con la maggiore incidenza di casi di Covid19. 

La regione è risultata sempre agli ultimi posti in Italia per numero di tamponi ogni 100.000 abitanti. La Campania resta la peggior regione d’Italia per numero di posti in terapia intensiva per 100.000 abitanti. Dopo l’attivazione del piano elaborato dall’ex commissario Domenico Arcuri, la Regione Campania ha aggiunto appena 9 posti effettivi di terapia intensiva ai precedenti 355 complessivi. Dal canto suo il Veneto è passato con lo stesso piano da 494 a 804 posti letto. 

Repubblica (proprio il quotidiano dei liberali di sinistra, che paradosso) ha prima denunciato la presunta truffa dei tamponi con bandi su misura tra l’Istituto Zooprofilattico di Portici e la struttura privata Ames e poi ha svelato il trucco dei posti letto disponibili e attuabili: ecco allora che il moralismo sbandierato dal Governatore degrada in una farsa scarpettiana, mentre i posti letti appaiono e spariscono come il gioco delle tre carte a piazza Ferrovia a Napoli. 

Dati e fatti risaputi a livello regionale che vengono coperti a livello nazionale da una comunicazione che usa oramai il personaggio-intrattenitore come uno schermo alle inadeguatezze del politico-amministratore. Non si tratta di una novità assoluta, la comunicazione è oramai l’unica forma autonoma di politica. Eppure allarma vedere come i liberali di sinistra non abbiano capito che De Luca non è un’eccezione narcisista quanto provocatoria, ma l’esito, caricaturale ma prevedibile, dell’indirizzo antipopolare e tecnicista che ha gradualmente prevalso nella sinistra italiana. Se si rinuncia a un progetto politico di cambiamento per celebrare competenze tecniche insindacabili, governare finisce per essere l’attuazione di determinate verità, ovvero un regime autoritario. Così un’emergenza sanitaria viene interpretata e affrontata come un problema di ordine pubblico, ribaltando sui cittadini, in termini di minore libertà, le inadeguatezze dei governanti. 

 

Per quanto abbia superato i settant’anni, Vincenzo De Luca non è un personaggio del passato, e studiarlo ci aiuta a capire come potrebbe essere l’esito dell’attuale post-democrazia: una società verticistica dove un solo leader di un’elite ristretta tiene a bada masse di persone impoverite nel reddito, nella cultura e nei diritti, impaurite dalla precarizzazione delle loro esistenze.  Esattamente il modello di società contro cui tutte le sinistre del mondo si sono battute, almeno fino a trent’anni fa, con l’aggiunta oggi dell’introversione narcisistica indotta dai social media.

L’influencer De Luca tutto questo lo sa bene, come sa che solo la popolarità in rete gli garantisce un futuro politico.  Perciò se dovrà gareggiare in lazzi con l’ultimo guitto che lo imita o prestarsi alle attese del pubblico televisivo pur di mantenere questa popolarità, da bravo performer lo farà. The show must go on. 

L’illusione della meritocrazia

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L’illusione della meritocrazia

Chi di noi vorrebbe avere a che fare con un collega incapace, un impiegato statale svogliato, un insegnante dei propri figli inadeguato, un medico inesperto, un amministratore locale incapace o addirittura truffaldino? E quante volte invece capita proprio così, e sempre i nostri improperi si mescolano all’usuale preghiera: vogliamo la competenza, la gratificazione del merito, insomma, vogliamo la meritocrazia al potere!

Ecco dunque il toccasana negli ultimi anni sulla bocca di tutti: premiare il merito per superare le ingiustizie in termini di reddito e di ruoli che vediamo tutti i giorni. Ma che cosa è il merito? Merito poi in base a che cosa e per fare che cosa? Chi decide poi chi è meritevole? Abbiamo davvero esempi di merito nelle posizioni di vertice delle società occidentali, a partire dal caso italiano? 

La meritocrazia in realtà è una delle parole chiave più usate e usurate dell’ideologia neoliberale, che in sé semmai giustifica proprio le ineuguaglianze e gli squilibri sociali che tanto ci indignano. 

Se approfondiamo vedremo che la meritocrazia non è altro che uno dei tanti slogan che invece di migliorare la società la rende soltanto più conformista, e questo nel migliore degli esiti. 

Partiamo allora dalla politica, certo proprio l’ambito dove la mediocrità sembra oggi trionfare. Applicare un concetto così indistinto come il “merito” alla politica significa proprio essere presi nella trappola di questo dispositivo linguistico. Chi è meritevole in politica? Chi prende voti a valanga alla Cetto Laqualunque? Chi è esperto di un singolo settore? Chi sa scrivere o argomentare idee a prescindere dalla loro qualità? Chi rappresenta in maniera paradigmatica delle categorie sociali? 

La politica è un’arte complessa, che richiede competenze multiple e a volte persino contraddittorie. E quali sono i parametri su cui giudicare il lavoro di un politico? Chi li decide? Salvare i crediti delle banche francesi e tedesche condannando i greci alla fame è stata una decisione buona per quei due paesi, devastante per generazioni future di elleni. Un reddito di cittadinanza può essere una boccata d’ossigeno per tanti che vogliono rimettersi in carreggiata, ma anche un onere pesante per le casse dello Stato. 

La politica non ha sempre le risposte giuste in assoluto come nei test a risposta multipla, perché la vita non offre quasi mai le risposte giuste. 

Anche in ambito lavorativo il merito non è che una giustificazione a posteriori di certi percorsi di lavoro cui hanno contribuito innumerevoli fattori: l’origine familiare, il paese in cui si vive e il relativo contesto sociale, la fase economica in cui uno vive gli anni della maturità professionale, il sistema scolastico, le attitudini personali, gli incontri personali e professionali e infine la parolina che genera al contempo ansia e speranza: la fortuna. Quanto un incontro o una casualità può indirizzare in un senso o in un altro una carriera, una intera vita? Le generazioni passate erano più umili di noi e riconoscevano alla fortuna un ruolo importante nelle umane vicende. 

La mentalità pseudoscientifica che accompagna il liberismo, quella che ci fa credere che esista una logica lineare e oggettiva entro la quale si concatenino con perfetta razionalità le scelte vincenti o perdenti delle persone, rappresenta un altro modo in cui l’arbitrarietà del sociale e dell’economia viene spacciata come un qualcosa di perfettamente intellegibile cui alcuni si sono attenuti e altri no. 

Credere che una società sappia scegliere i meritevoli è una idea diffusa da chi oggi la domina, ma le elites sono le prime a non crederci. Se non fosse così le elites non costruirebbero dei percorsi esclusivi per i loro figli, per proteggerne lo status e le relative opportunità attraverso specifiche scuole, specifici club, specifici percorsi lavorativi. Chiaro allora che ogni donazione a una scuola o a una università delle elites non è un atto di generosità, ma una garanzia per perpetuare queste differenze sociali ed economiche di cui essi stessi beneficiano. 

Ma un sistema nemmeno tanto oligarchico, quanto proprio plutocratico come quello attuale, deve anche trovare le modalità per legittimarsi. Ecco finalmente spiegata la diffusione degli ultimi anni della retorica della meritocrazia. 

Tanto più una società è ineguale, tanto più esalta la meritocrazia. 

E la esalterà non perché davvero applicata, ma perché in un contesto siffatto le oligarchie predominanti usano questa retorica per controllare le aspirazioni delle classi subalterne e legittimare così il loro potere. 

La meritocrazia può esistere solo in ambiti specialistici (Information Technology innovativa, chirurgia specializzata, progettazione aeronautica, etc.), mentre già i servizi informatici di ordinaria amministrazione o servizi professionali anche di qualità vengono affidati ai circuiti fidati, per appartenenza familiare, politica, massonica, religiosa, di orientamento sessuale e così via. Chi è fuori dai giri o sceglie di esserlo sarà condannato a una esistenza precaria e misera: nessuna possibilità di partecipare al banchetto. Ecco perché quando sentite parlare di meritocrazia in Italia mettete mano alla pistola dell’intelligenza e smentite quella retorica, verificando magari grazie al web che chi la esalta è arrivato dove è arrivato solo tramite amicizie, relazioni e appartenenze. Anche esse un valore, ma ben distante dalla competenza vera e propria. 

Ovviamente l’ideologia sottostante è di stampo neoliberale  Decidi, scegli e agisci in autonomia”, (…) e se fallisci nella vita, evidentemente, è perché non hai sviluppato a sufficienza le tue competenze: insomma, non hai meritato.”, così come il risultato di questa disciplina mentale non può che essere un perfetto conformismo: “l’ideologia del merito suggerisce che è davvero meritevole solo chi accetta il mondo così com’è, modificando se stesso nell’impossibilità di modificare il contesto”, sottolinea icasticamente Marco Meotto nella sua recensione dell’efficace saggio “Contro l’ideologia del merito” di Mauro Boarelli. 

 

Mai il reale era stato tanto spacciato per razionale come nella nostra epoca, almeno fino a quando una pandemia non arriva a dimostrare l’inconsistenza del tutto. Già il Foucauldt delle lezioni del 1978-79 al College de France sottolineava come l’ideologia neoliberista del capitale umano arriva a interpretare in termini di investimento anche il rapporto tra mamma e figlio, per cui tanto più tempo e attenzioni la madre avrebbe dedicato al bambino, tanto più questi avrebbe avuto un percorso di studio e di carriera brillante: l’essere umano interpretato sin dalla nascita come un investimento da cui trarre il massimo, in termini economici, ca va sans dire. 

Così ci siamo ridotti a una scuola che non intende più formare delle personalità complete e capaci di un approccio complesso al mondo, ma solo degli individui funzionali alle esigenze delle imprese, soggetti competitivi più che cooperativi. Il ruolo storicamente delegato alla scuola “di contrasto all’esclusione sociale non è governato da una visione politica autonoma, ma è filtrato attraverso il punto di vista del mercato e delle imprese”, scrive Boarelli. Con questa impostazione, sintetizzata nel Sillabo della scuola italiana emanato nel 2018 secondo il quale gli studenti devono essere idealmente degli imprenditori o dei manager in nuce, è un passo ritrovarsi con celebri licei romani che esaltano il loro essere etnicamente puri e aristocraticamente frequentati per lo più da pargoli di famiglie ricche. 

Se si persuadono le persone che la società è perfettamente razionale, che essa sia basata sul merito e che dunque ogni qualità o inclinazione verrà perfettamente ricompensata (purché aderente alle esigenze delle imprese), il giovane verrà responsabilizzato a inseguire determinati parametri di “successo” e colpevolizzato per i suoi fallimenti, ovvero per non essere riuscito a “matchare” (orrido inglesismo) le esigenze di chi domina la società. 

La meritocrazia non fa che rappresentare la società in maniera banale e semplicistica, con tante caselline in cui dovrebbero trovare perfetta sistemazione le vite di quelli che meglio si adattano alle dimensioni delle stesse caselline. E alla prova dei fatti la meritocrazia è smentita dal Principio di Peter, che recita così: «In una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza». In ogni organizzazione, i membri che mostrano particolari qualità in un ruolo finiscono per essere promossi in un ruolo superiore che non saranno poi capaci di gestire. Sembra una battuta tratta da una striscia di Dilbert, ma è proprio quello che lo psicologo Lawrence J. Peter scoprì già negli anni Sessanta, dimostrando come spesso le posizioni manageriale (sulla base delle quali si valuta il “successo” di una carriera) erano ricoperte da persone che avevano dimostrato di valere in altri ruoli, con il conseguente corollario: “Tutto il lavoro viene svolto da quegli impiegati che non hanno ancora raggiunto il proprio livello di incompetenza”. 

Potremmo applicare anche questo principio alla società intera e dire che magari essa viene portata avanti proprio da chi non si trova ai vertici? 

Beh, sarebbe un’affermazione troppo populista e troppo poco meritocratica, no?

 

Bibliografia

Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza 2019

Marco Meotto, L’ossessione meritocratica, Doppiozero 2019, https://www.doppiozero.com/materiali/lossessione-meritocratica

Lawrence J. Peter, Raymond Hull, Il Principio di Peter, Calypso, 2008

Michel Foucauldt, Nascita della biopolitica Lezioni al College de France 1978-1979, Feltrinelli, 2005

Gary Becker, Il capitale umano, Laterza 2008

Roger Avramanel, Meritocrazia, Garzanti 2011

 

Algoritmi e fake news: i nuovi alibi per i fallimenti politici

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Algoritmi e fake news: i nuovi alibi per i fallimenti politici

All’inizio fu un bottone rosso.

Ricordate? Il 19 gennaio 2018  il Ministro degli interni Marco Minniti pretese “una vigilanza delle forze di polizia sulle notizie palesemente false” e lanciò il famigerato bottone rosso contro le fake news.

Ma se una notizia è palesemente falsa (tipo Renato Balestra non si è mai sottoposto a chirurgia plastica o la Volkswagen regala 800mila auto a San Valentino) perché ci sarebbe bisogno della Polizia? Immaginate i poliziotti virtuali impegnati a inseguire le tracce di tanti Ermes Maiolica digitali per poi dire loro: “mi raccomando burlone, non dire bugie”?

Ma in conferenza stampa il capo della Polizia Gabrielli fu più sincero: l’emergenza vera era l’imminente campagna elettorale per le elezioni 4 marzo. Certo, bisognava stare attenti ai congiuntivi di Di Maio e alle solite bufale di Berlusconi, ma quale è il confine tra promessa elettorale, diritto di critica e polemica politica? Tra generica cialtronaggine e specifica denigrazione?

La Polizia offriva anche il modulo online per fare le segnalazioni: immaginavamo orde di sicofanti digitali pronti a segnalare ogni incongruenza e balla degli avversari di collegio elettorale o per le elezioni di condominio.  Il tutto promosso da un ministro aderente a un partito che vantava un segretario chiamato fin da ragazzo “il bomba”.

Come è andata a finire? Si è mossa addirittura l’ONU dichiarando che il famigerato bottone rosso era “incompatibile con gli standard di legge internazionale sui diritti umani,” e delle 128 notizie che la Polizia dichiarava di aver scovato come fake con tanta acribia non esiste un elenco. L’iniziativa è stata fatta sparire, discretamente.

Un’iniziativa tanto imbranata è stata dunque la risposta del governo italiano a un timore diffuso basato su un chiaro teorema: le centrali di diffusione di fakenews basate in Russia e gli strumenti di microprofilazione che sfruttano i dati di Facebook e Google sostengono le opzioni politiche cosiddette populiste, come già successo in Usa con Trump, nel Regno Unito con il Leave e in Germania con il successo di Alternative fur Deutschland. L’obiettivo, come ha evidenziato un rapporto della Commissione Esteri del Senato americano, è destabilizzare l’Occidente e nello stesso rapporto fu lanciato l’allarme anche per l’Italia, indicando esplicitamente i beneficiari di queste azioni di manipolazione. Una sana democrazia occidentale basata su principi (neo)liberali si difende dalle fake news perseguendole. Se almeno le sapesse definire, certo.

Ma chi erano i partiti maggiormente indiziati di fruire di questo incrocio perverso tra fakenews putiniane e iperprofilazione digitale? Ovviamente la Lega Nord guidata dal filoputiniano Matteo Salvini e il Movimento 5 Stelle creato dal guru del webmarketing Gianroberto Casaleggio. E chi ha stravinto le elezioni del 4 marzo? Proprio Lega e Cinque Stelle. Allora abbiamo tutti gli elementi per arrivare rapidamente alla conclusione di questo articolo: c’era il timore di manipolazioni dall’estero degli orientamenti degli elettori che già hanno avuto successo in Usa, UK e (parzialmente) in Germania e hanno puntualmente vinto proprio i partiti sospettati di fruire o usare queste tecniche.

Grazie per la lettura e arrivederci.

O forse no.

Post hoc ergo propter hoc? Contro il pensiero magico digitale

Un vecchio adagio di base della logica ricorda proprio l’errore alla base del pensiero magico: post hoc ergo propter hoc, se un fatto precede un altro, esso non ne per forza è la causa.

La sequenzialità temporale non è un nesso causale. Figuriamoci quando la presunta causa è tutta da dimostrare.

Giornalisti, commentatori, tuttologi assortiti nelle ultime settimana sono tutti diventati esperti di Facebook Ads per spiegarci non solo che c’è un’unica regia che unisce il microtargeting,  la fakenews e populismi, ma che soprattutto queste azioni abbiano avuto una clamorosa efficacia e siano l’arma finale per destabilizzare l’Occidente (il quale evidentemente non riesce a destabilizzarsi abbastanza da solo nonostante gli sforzi delle sue elite). Quali sarebbero le prove a sostegno dello straordinario successo di questa strategia?

Come accade nelle culture premoderne, quando non si hanno strumenti culturali e tecnici per spiegare fenomeni naturali o tecnologici ci si rifugia nel pensiero magico.

E da qualche tempo dobbiamo registrare la nascita del pensiero magico digitale, in cui tanti commentatori privi di competenze tecniche e della pazienza per leggere le ricerche di settore, sovrappongono piani di analisi e costruiscono teoremi di causalità senza portare un minimo di studio empirico.

Il pensiero magico digitale parte da alcuni principi:

  1. I concreti algoritmi, di cui è pieno il nostro mondo, da componente tecnica di cui studiare e denunciare la non-neutralità, sia perché scritti da esseri umani con i loro pregiudizi sia perché spesso piegati alle logiche della società che ci sta fornendo il servizio, vengono raccontati come un elemento metafisico, l’Algoritmo con la A maiuscola. Una ipostasi per rinunciare a studiare i fatti tecnici nella loro complessità e nelle loro distorsioni e proporre invece una spiegazione astratta quanto polivalente, una specie di semidio digitale che tutto spiega e tutto vuole, come quando invece dei meteorologi ci si affidava ad Eolo o a Poseidone.
  1. Citare coattivamente e ricorsivamente l’Algoritmo (sempre con la A maiuscola) come fino a cinquant’anni fa si citava il Capitale per spiegare un po’ di tutto, dalla guerra in Vietnam alla guerra in Siria, dalla sconfitta della squadra del cuore ai cambiamenti climatici, tanto in qualche modo qualcosa può sempre entrarci, fa moderno e non impegna ad analizzare le molteplici variabili che impattano su ogni fenomeno.
  1. Un bel teorema-mischione cospirativo che mette dentro Mark Zuckerberg, Larry Page e Sergej Brin, Jeff Bezos, Vladimir Putin, Xi Jinping, Beppe Grillo e magari il Gabibbo per dimostrare che sono tutti impegnati a destabilizzare le certezze dell’Occidente, ovvero a rovinare gli aperitivi dell’upper class di Manhattan, dei Parioli o di Brera. Poco conta che i Big del digitale statunitense siano quasi tutti liberal e hanno dato uno sostegno dirimente all’elezione di Obama (il Presidente giurista che spiava le email dei capi di Stato alleati), hanno pesantemente finanziato la campagna di Hillary Clinton o hanno grossi problemi con le pretese cinesi e russe di sovranismo digitale.
  1. Un equivoco tecnico di fondo, per cui non si capisce quando il termine algoritmo per parlare di algoritmi strictu sensu, programmi eseguibili e codici. Naturalmente la critica ai grandi nemici della libertà digitale avviene usando operativi Mac, Win o Android e postando tutto su Facebook. Un po’ come se negli anni Settanta i grandi intellettuali di sinistra avessero lanciato i propri strali contro il Capitale dalle colonne del Sole 24 ORE, magari grazie a ricerche finanziate dalla Mount Pelerin Society.

Il pensiero magico digitale va ora di gran moda in certi circuiti culturali perché come “ai tempi degli dei falsi e bugiardi”, credere nell’Algoritmo soprannaturale esime dall’ammettere colpe e fallimenti di questo mondo, non solo quando si tratta di una prenotazione sbagliata, ma ancor di più quando intere classi dirigenti e politiche hanno rinunciato a dialogare, comprendere e dare voce agli elettori che pretendevano di rappresentare.

Facebook, “why always me?”

Prima che venisse eletto Trump, la principale accusa mossa alla piattaforma di Zuckerberg era di creare delle filter bubbles confermative dei pregiudizi soggettivi e di cancellare o emarginare attraverso algoritmi o scelte editoriali soggettive i contenuti di orientamento conservatore. Come sta emergendo negli ultimi giorni, a dispetto della retorica ribadita nei suoi proclami da Zuckerberg, Facebook resta un sistema opaco anche per gli studiosi più esperti, e affermare di aver compreso gli obiettivi politici globali della piattaforma fa progressivamente slittare il ragionamento dall’abduzione ai detti oracolari.

E’ d’altronde acclarato che agenzie di propaganda russe sono intervenute nella campagna presidenziale Usa del 2016. Quello che tanti cospiratori non sanno o non dicono è che l’inchiesta del Congresso ha determinato che l’investimento in Facebook Ads del gruppo russo di disinformazione IRA è stato di 46,000 dollari (aggregando altri investimenti sospetti si può arrivare a non più di 100,000 dollari), mentre l’investimento complessivo di Trump e della Clinton sulla piattaforma è stato di 81 milioni di dollari.

Per quanto i messaggi costruiti dai russi fossero volutamente incandescenti per suscitare più engagement, difficilmente si può valutarne l’impatto. Semmai la squadra digitale di Trump ha lavorato meglio su Ads Auctions e Custom Audiences, in sostanza è stata più efficiente perché ha generato più engagement ed engagement (coinvolgimento in termini di tempo, di condivisioni e di contenuti originali postati) è il mantra che indirizza tante preferenze di Facebook quando si tratta di dar visibilità a contenuti e pubblicità. E questo, come spiega Antonio Garcìa Martinez, già parte del monetization team di Facebook, è ancora più vero per NewsFeed.

Quando i quotidiani e i commentatori tuttologi citano gli 87 milioni di profili che avrebbe acquisito (all’epoca legittimamente) Cambridge Analytica non spiegano quanti di essi sono stati effettivamente utili alla campagna di Trump. E in tutto questo ragionamento vi sono due assunzioni che configgono apertamente.

a) Se Facebook promuove un engagement tanto autoreferenziale da creare le celeberrime filter bubbles, è possibile che le azioni di microprofilazione sia riuscite a scardinare le filter bubbles degli elettori negli swinging states in maniera così performante?

b) E’ realistico pensare che il microtargeting abbia d’improvviso soppiantato l’efficacia di ogni altro media e risulta essere l’unico strumento capace di far cambiare idea repentinamente a centinaia di migliaia se non milioni di elettori?

La Clinton ha concentrato i suoi 140 milioni di dollari di pubblicità televisiva su Ohio, Pennsylvania e Florida, perdendo in tutti e tre, mentre Trump ha avuto a disposizione “solo” 40 milioni di dollari.

Certo, se uno nota che Trump ha vinto in Michigan per 10mila voti, in Pennsylvania per 50mila e in Florida per 100mila, può legittimamente ipotizzare che un distacco così piccolo sia stato frutto del microtargeting. I commentatori apocalittici dell’algoritmo non ricordano però che in questi Stati quattro anni prima Obama aveva vinto rispettivamente per 450mila, 300mila e 70mila voti. Dunque è ragionevole supporre che il microtargeting ha spostato quasi il 10% dei votanti solo in questi 3 stati?

Questi stessi votanti, trattati da certi commentatori quali eserciti di zombie digitali capaci solo di reagire passivamente agli stimoli cui li sottopongono le piattaforme sociali e dimentichi di qualsiasi relazione personale, a partire dalla famiglia, forse hanno anche voluto protestare contro una crescita economica statunitense  senza occupazione che preoccupava Obama a poco più di un anno dalla fine del mandato.

Proprio a proposito di Barack Obama, viene sempre da chiedere ai commentatori apocalittici perché non si sono stracciati le vesti quando le invasive strategie di microtargeting attuate del 2008 e del 2012 hanno permesso la vittoria del Senatore di Chicago, al contrario celebrate e studiate come casi da manuale della nuova comunicazione e della nuova politica tout court. Viene forte il sospetto che Cambridge Analytica, al netto della grande pubblicità che sta ottenendo, avrebbe dovuto lavorare per far vincere l’altra candidata per venir celebrata oggi come un club di geni e non come un covo di ladri di identità digitali.

 

Le elezioni italiane del 4 marzo: la tecnologia digitale come alibi della politica

Ad oltre un mese dalle elezioni del 4 marzo possiamo contare su un numero significativo di analisi e di ricerche che consentono di tracciare un bilancio delle strategie di comunicazione politica applicate.

Se partiamo dagli allarmi lanciati dal Congresso degli Stati Uniti e ripresi dallo stesso Ministero degli interni italiano dovremmo provare a rispondere ai seguenti due punti:

  • Quali fake news hanno condizionato il dibattito e l’agenda setting elettorale e in che misura?
  • Quali partiti hanno realizzato campagne di iperprofilazione su facebook?

Ma al di là delle tecniche salite alla ribalta, cerchiamo di ragionare anche su obiettivi e risultati:

  • Quali sono state le strategie di comunicazione dei principali attori politici?
  • Quali sono state le campagne più efficaci?

Abbiamo visto come vi sia stato un allarme diffuso e internazionale prima delle elezioni. Non vi sono prove di bufale di origine russa, ma è possibile che l’alto allarme abbia consigliato una certa prudenza e discrezione nell’intervenire nella campagna elettorale italiana. Ma anche questa è conclusione prematura basata, su un periodo di tempo limitato, che invece va approfondita.

Un articolo di El Pais del 2 marzo scorso riporta una ricerca effettuata dal centro di ricerca The Alto tra febbraio e luglio 2017 la quale evidenzia come Sputnik.it abbia un’influenza sproporzionata sulle conversazioni digitali italiane a fronte di soli 45.000 followers Facebook e 6.300 followers su Twitter. Questo alto impatto può essere spiegato con l’alta mobilitazione di un numero relativamente limitato di account. Secondo lo studio su un 32% di account Twitter che possono essere definiti anti immigrati, I loro tweets rappresentano i due terzi delle conversazioni sul tema.

Ma l’agenda setting sul tema dell’allarme immigrazione non è solo una specialità russa. Le testate di centrodestra ilgiornale.it e libero.it totalizzano molto traffico con gli articoli dedicati all’allarme immigrazione. Quando agli allarmismi sul tema si contrappone un generico buonismo ecco che si arriva al gap tra immigrazione reale e percepita che pone l’Italia ai vertici in Europa.

Se l’agenda setting sull’immigrazione è stato fondamentale per il successo della Lega e il crollo della sinistra, vi è anche da dire che Berlusconi non ha raccolto quasi alcun dividendo, tanto che ha immediatamente chiuso le trasmissioni televisive che più cavalcavano il tema come Quarto Grado di Paolo Del Debbio e Dalla vostra parte di Maurizio Belpietro.

Come mostra il grafico di seguito, nessun altro partito come la Lega ha spinto tanto sul tema dell’immigrazione.

 

 

Il trionfo leghista va correlato a un agenda setting costruito da tre principali aree mediatiche:

  • I quotidiani e le edizioni online di centro destra, controllati direttamente o meno da Berlusconi
  • Le testate online estremiste, nazionaliste e antiimmigrazione, come Imola Oggi, molto attivi sui media sociali e registrate da tempo nella black list di Butac come spacciatrici di notizie distorte o esagerate
  • I media della galassia mediatica putiniana, ovvero RT e sputnik.it, oltre a vari account di area e gruppi anche su Facebook che promuovono personaggi come Aleksandar Dugin.

Se l’allarme immigrazione può essere certamente collegato a strategie di agenda setting nazionali o internazionali, non sono emersi altri traini di consenso eterodiretti dall’estero. Di certo resta un elemento di fragilità sociopolitica il fatto che nella graduatoria continentale Media Literacy Index l’Italia si trovi in fondo tra i paesi occidentali, indice di una chiara vulnerabilità alle fake news.

 Il reddito di cittadinanza, che punta a rispondere alle urgenze di una fascia della popolazione italiana, 9 milioni, prossima o già vittima di povertà, è stata un’esclusiva grillina. Nei mesi precedenti le elezioni e anche durante la campagna elettorale né la televisione di Stato né le televisioni di Berlusconi avevano interesse a sollevare il problema. Il pubblico mediamente più colto e affluente di Twitter non ha trattato il tema in maniera diffusa il tema, mentre i partiti di governo non avevano alcun interesse a evidenziare la questione. Dunque il tema è rimasto quasi patrimonio esclusivo del Movimento Cinque Stelle, che ha potuto farne un tema caratterizzante la sua campagna elettorale, grazie anche alla scelta del PD di raccontare solo un paese in ripresa e quella di LeU di concentrarsi sui diritti.

Quattro occasioni fallite dal Partito Democratico

Possiamo individuare quattro notizie esterne al ristretto dibattito sulle proposte politiche che hanno scandito la campagna elettorale:

  • L’allarme per il ritorno del fascismo dopo la marcia di Casa Pound a il 7 gennaio a Roma
  • L’omicidio di Pamela Mastropietro e la successiva tentata strage di Macerata tra fine gennaio e inizio febbraio
  • Il caso delle mancate restituzioni delle diarie da parte di alcuni deputati e senatori dei Cinque Stelle scoppiato con il servizio de Le Iene del 10 febbraio
  • I video di Fanpage del 17 marzo sull’inchiesta sullo smaltimento rifiuti in Campania che vede coinvolto Roberto De Luca, figlio del Presidente PD della Regione Campania

Matteo Salvini ha assolutamente dominato la narrazione sull’omicidio di Pamela Mastropietro da parte di uno o più spacciatori nigeriani e della successiva tentata strage di neri tentata dal suo ex candidato Luca Traini. A partire da inizio febbraio i post sul tema di Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno dominato il dibattito su Twitter e Facebook in termini di visibilità e condivisioni.

In questo caso il centrosinistra, sia tramite esponenti politici sia tramite intellettuali di area come Roberto Saviano, è stato incapace di trovare un’interpretazione mobilitante che andasse oltre le accuse a Salvini di strumentalizzare le tragedie. Mentre i Cinque Stelle hanno intelligentemente evitato di scendere nel dibattito, estremamente polarizzato, il centrosinistra si è rifugiato nell’antifascismo generico, scelta che forse aveva l’obiettivo di ricompattare la sua storica base elettorale ma che si è rivelata debole e poco sentita.

Sul tema del pericolo antifascista il centrosinistra aveva già battuto i suoi colpi con la marcia di Como a dicembre e i tanti allarmi sul ritorno delle destre dopo la partecipata marcia a Roma di CasaPound del 7 gennaio, allarmi fortemente esagerati da vari media vicini al PD. Al completamento degli scrutini le due formazioni che si richiamano al fascismo, Casa Pound e Forza Nuova, hanno registrato rispettivamente lo 0,9 e lo 0,3% dei consensi. Dove è finito il ritorno del fascismo in Italia, come si paventava sulla scorta del successo di AfD in Germania? Se non si può definire questa esattamente una fakenews, di certo si tratta di un fenomeno grandemente esagerato.

I Cinque Stelle sono riusciti a gestire in maniera eccellente la scoperta delle restituzioni falsificate da parte di alcuni loro eletti. Il confronto con la “iena” Filippo Roma di Luigi Di Maio con l’annuncio delle sanzioni per i colpevoli è stato il post su facebook più cliccato della campagna elettorale. La rilevanza polemica che è stata data al fatto da parte degli avversari politici e delle testate avverse hanno fatto sì che tutta Italia venisse a sapere di questa scelta politica ma anche promozionale dei Cinque Stelle. Dopo qualche giorno lo scandalo che doveva pesantemente colpire la credibilità dei Cinque Stelle è diventato un fattore positivo e di crescita dei consensi.

Il Centrosinistra si ritroverà pochi giorni dopo in estremo imbarazzo nel difendere il figlio del Presidente della Regione Campania e assessore a Salerno Roberto De Luca, ripreso dalle telecamere nascoste di Fanpage mentre partecipa a incontri propedeutici all’assegnazione di appalti per lo smaltimento dei rifiuti. In questo caso Centrodestra e Cinque Stelle possono agevolmente martellare sulla vicenda.

In questi quattro snodi del racconto elettorale a situazioni oggettive e imprevedibili si è sovrapposta una incapacità di chi gestiva la comunicazione del PD nell’argomentare e nell’offrire narrazioni alternative a quelle di Centrodestra e Cinque Stelle. Accusare le moderne tecniche di microprofilazione sui social media o evocare le fakenews, oppure accusare i limiti caratteriali o politici del partito committente quando non si riesce a gestire le crisi di comunicazione o di reputazione di cui inevitabilmente può essere costellata una campagna elettorale è indice meno di mancanza di umiltà che di scarsa professionalità.

Movimento Cinque Stelle e Salvini: due modi opposti e di successo di fare comunicazione politica

Anche da un punto di vista mediatico i vincitori sono Salvini e Di Maio, ma con strategie radicalmente diverse.

Quella di Salvini è un leaderismo digitale. Il “Capitano” (come viene spesso chiamato nei post) satura Twitter postando più di ogni altro politico, costantemente invita i suoi followers su Facebook a spalleggiarlo nelle polemiche o a dire la loro (tipica call to action), utilizza espressioni giovanili, popolari o anche volgari per entrare in sintonia con i diversi tipi di pubblico che vuole attivare.

Il social media manager Luca Morisi, docente di Informatica filosofica a Verona, ha sviluppato un meccanismo di comunicazione top-down, in cui i messaggi del capo cercano un riscontro di consenso e di attivazione all’interno delle varie tribù sociali che lo seguono con l’obiettivo di suscitare di volta in volta sentimenti di indignazione o di appartenenza o di polemica ma senza arrivare ad argomentazioni particolarmente dettagliate. Gli hashtag #primagliitaliani o #vergogna sono atemporali e acontestuali, possono andare bene quasi in qualsiasi contesto e anche in qualsiasi momento storico, dall’eliminazione dell’Italia dai Mondiali di calcio fino alle accuse agli altri politici sul tema immigrazione.

In Italia Twitter dichiara circa 6,5 milioni di account che in termini di utenti attivi non arriverebbero a otto volte meno, si tratta di uno strumento quasi di elite, che tuttavia Salvini, seguendo lo stile di Trump, ha trasformato in un luogo dove il dileggio e la polemica con gli avversari vengono esaltate.

I parametri essenziali di successo su Twitter sono quantità, stile e mobilitazione: con un numero altissimo di tweet ogni giorno, il suo stile corrosivo e una base di seguaci maggiore, Salvini ha dominato ogni altro avversario quando questi cadevano ingenuamente nelle sue provocazioni.

Come scrive Walter Quattrociocchi nell’ultimo numero de Le Scienze: “Tantissime informazioni, poco tempo per elaborarle attentamente e difetti connaturati alle nostre percezioni creano un mix potentissimo. Notiamo le informazioni che più ci convincono e che meglio aderiscono alla nostra visione del mondo (e ignoriamo quelle avverse), su di esse ci soffermiamo e le condividiamo con i nostri amici virtuali. Da confirmation bias si arriva così alle echo chamber e si innesca così un processo che, segregando su visioni comuni, fortifica la polarizzazione. Le fake news sono solo la punta dell’iceberg, l’uso strumentale e pretestuoso delle informazioni è solo una conseguenza di questo fenomeno molto più radicato e profondo” (W. Quattrociocchi, La babele di Internet, Le Scienze, 1 aprile 2018, pag. 42)

Quanto leaderistica è la strategia della Lega, tanto la strategia del Movimento Cinque Stelle è molecolare e può essere indicata come paradigmatica di un modello alternativo e altrettanto vincente di gestire la comunicazione politica. Se da una parte c’è “il Capitano”, dall’altra il mantra è “massima condivisione”. La Casaleggio e Associati non solo gestisce i contenuti e ne promuove la distribuzione (e la recente ricerca dell’Università Carlo Bo ne attesta l’estrema efficacia), ma favorisce anche la creazione di contenuti sviluppati dagli stessi militanti. Questi contenuti, non direttamente riferibili alla Casaleggio, consentono di testare l’umore degli attivisti e di aprire dei fronti polemici anche violenti senza un diretto coinvolgimento. Si tratta di meccanismi che si sviluppano anche sul blog, dove una parte dei commenti sono “spintanei”, ovvero scritti dallo staff. Checchè ne scriva il complottista Jacobo Jacoboni, le tattiche di gestione di un’assemblea o di una community sono in essenza le stesse. Chiunque ha fatto politica quando le assemblee erano una cosa seria con scontri anche fisici sa che alcune posizioni venivano poste e fatte approvare dall’assemblea attraverso un’azione coordinata di vari partecipanti, che rimarcavano una posizione e indirizzavano verso l’esito voluto la discussione.

La teoria delle reti a invariaza di scala elaborata da Albert Laszlo-Barabasi e applicata da Gianroberto Casaleggio alla politica italiana si sta rivelando estremamente efficace. Venuto meno lo snodo (hub) originario, Beppe Grillo, si è lasciato lo spazio agli snodi che sono cresciuti in questi anni, che sono stati fatti crescere in parallelo in termini di connessioni/popolarità anche attraverso l’aiuto della Casaleggio e Associati. Se Luigi Di Maio ha 1,591 milioni di like mentre Matteo Salvini lo supera nettamente con 2,1 milioni, il Movimento Cinque Stelle può contare su molti più snodi di comunicazione della Lega. Alessandro Di Battista vanta anch’egli a 1,5 milioni di Like, Paola Taverna arriva a 486mila, Roberto Fico registra 336mila Like, Danilo Toninelli 187mila. Basti dire che la storica figura leghista di Roberto Calderoli arriva ad appena 41mila Like.

Se i grandi hub diffondono le informazioni e attivano le campagne (“attenzione, massima diffusione”), i nodi periferici diventano più strategici per avvicinare e persuadere le loro personali reti amicali e familiari. I microinfluencer riescono a fare opinione a livello familiare, indirizzando le scelte di tanti indecisi.

Ecco perché l’analisi Ipsos TWIG evidenzia il paradosso del primo partito di Italia, che cresce di quasi due milioni di voti ma che registra un fortissimo gap tra performance comunicazione del leader (pur eccellente, come attesta la crescita della fan base) e performance del partito nel suo complesso. In realtà quel gap è ampiamente recuperato dalla grande capacità di mobilitazione del Movimento Cinque Stelle, che in qualche modo è l’unico partito il cui successo non dipende dal leader.

In questo senso la strategia dei Cinque Stelle non richiede investimenti in microtargeting perché la grande capacità di mobilitazione consente una capacità di diffusione dei messaggi in maniera assolutamente trasversale, non solo per caratteristiche sociodemografiche ma anche per quanto riguarda i media di riferimento. La rete dei microinfluencer risulta anche più efficace del microtargeting, perché basata su un rapporto spesso personale costruito nel mondo reale.

Sembra un paradosso per un movimento politico nato sul web ma sviluppatosi programmaticamente fuori di esso, ma la Casaleggio e Associati, specializzata in ecommerce, è pienamente consapevole che oggi il consumatore o l’elettore deve essere seguito e persuaso in un’ottica omnichannel, che implica anche i contatti faccia a faccia e i bagni di folla nelle pubbliche piazze.

 

Conclusioni

Una ricerca presentata su La Stampa del 19 febbraio curata da Community Media Research evidenziava come cresca costantemente l’importanza dei nuovi media per l’acquisizione delle informazioni, specialmente tra i più giovani, ma per quanto riguarda le opinioni esse hanno ancora un impatto limitato, al contrario delle reti relazionali reali: famiglia, amici, persone abitualmente frequentate. È sempre sbagliato separare, per motivi di ricerca o di semplificazione concettuale, quello che nella realtà è sempre costantemente interrelato: viviamo non solo un’esistenza onlife, costantemente scambiata tra mondo fisico e mondo digitale, ma anche per quanto riguarda i media, le interlocuzioni reali, le relazioni e i contatti digitali, il tutto non ha alcuna soluzione di continuità. Credere dunque che microtargeting o fake news possono nell’arco di tempo limitato di una campagna elettorale condizionare decine se non migliaia di persone è farsesco e autoassolutorio, mentre non è un caso che l’ultima campagna elettorale è stata vinta dai partiti non solo più efficienti sul web ma anche più presenti sul territorio.

I professionisti del debunking sono talmente vigili durante una campagna elettorale che difficilmente una fakenews potrebbe incidere realmente. Quello che invece viene poco evidenziato è l’impatto delle fakenews nel costruire un framing rispetto ad alcuni temi mesi o anni prima che si arrivi alla competizione elettorale. Insomma: sbagliato il bottone rosso a poche settimane dalle elezioni, ma sbagliato anche farlo sparire senza ripensarlo non appena l’iniziativa ha evidenziato tutti i suoi limiti.

Un ulteriore elemento che deve essere accertato è il fallimento della comunicazione del PD, incapace di gestire la campagna ordinaria e gestione delle crisi di comunicazione ma anche solo di caratterizzare la comunicazione del committente con una unique selling proposition memorabile. Lo stesso Berlusconi, nonostante i ritardi di natura proprio culturale nel gestire i nuovi media, ha saputo rimpacchettare il vecchio “meno tasse per tutti” con 7 memorabili lettere: #flattax.

In questo senso denunciare a posteriori il pensiero magico digitale che accusa Cambridge Analytica di ogni nefandezza (e in Italia non ha nemmeno lavorato!) non fa i conti con il fallimento professionale dei consulenti PD e ancor di più con i limiti della proposta politica.

Non si è studiato abbastanza l’impatto nella campagna elettorale dei meccanismi “tribali” o “comunitari” che sanno attivare la Lega e i Cinque Stelle. Puoi avere ogni sorta di media o di psicografia dalla tua, ma se alla fine non hai una base elettorale altamente motivata che diffonde il tuo messaggio, forse non tanto casa per casa come una volta, ma di certo di più contatto per contatto sui media sociali, non potrai che essere destinato alla sconfitta. Una delle lezioni di queste elezioni è l’emergere dei microinfluencers, che arrivano a presidiare decine di migliaia di piccoli circoli di relazione dove sono stimati e seguiti.

Quasi un post scriptum, anzi tre

1. Appena Luigi Di Maio ha proposto una qualche ipotesi di accordo con il PD, Twitter è stato inondato da migliaia di tweet con hashtag #senzadime per rifiutare senza esitazioni ogni compromesso. La ricerca di Niccolò Barca e Giacomo Antonelli pubblicata su The Vision (http://thevision.com/attualita/senzadime-alleanza/) ha dimostrato che l’operazione è stata orchestrata da solo 8 account Twitter, gli stessi che a dicembre celebravano il finto rientro dei terremotati dell’Aquila nelle loro case. Di chi è stata la regia di questa operazione?

2. Il 7 aprile Dario Franceschini è stato vittima di un’ondata di critiche su Twitter per aver sommessamente ipotizzato la possibilità di valutare le aperture Di Maio. Questa volta la stessa Repubblica ha sospettato l’attivazione di account Twitter fasulli. Chi è il regista di questa operazione?

3. Prima ancora che terminassero gli scrutini che attestavano la clamorosa avanzata al sud dei Cinque Stelle è iniziata a circolare la notizia di un assalto ai Caf di persone pronte a richiedere e a ottenere il reddito di cittadinanza. I telegiornali di Stato hanno dedicato molti minuti alla notizia mentre il coordinatore nazionale dei Caf Massimo Bagnoli ha parlato di qualche decina di richiesta di informazioni, “potremmo arrivare al massimo a 200 complessive” in Puglia, Sicilia e Calabria, a fronte di 2 milioni di Dsu, le richieste per ottenere le Idee nei primi tre mesi del 2018.

Il debunker questa volta è stata Striscia la notizia, che ha svelato una telefonata tra Vittorio Sgarbi e il suo addetto stampa dove concordavano di sparare la notizia durante un’ospitata. Di chi è stata la regia di questa operazione? Anche il Gabibbo è parte della cospirazione?

Nasce invece il sospetto che per vari casi di fakenews e manipolazione del dibattito in rete i politici finora al governo ne siano più promotori che vittime.

 

Riferimenti

Tra i tanti testi e interventi citati sono stati estremo aiuto i contenuti di DatamediaHub e l’ottimo lavoro di monitoraggio della campagna elettorale sui social che ha fatto Marco Borraccino con socialrecap.it. Spunti estremamente interessanti sulle dinamiche di diffusione dei messaggi di Lega e Cinque Stelle sono arrivati anche dai risultati della ricerca Ipsos-TWIG. La linkografia che segue è parziale e in costante aggiornamento:

https://motherboard.vice.com/it/article/pamwkz/dove-la-lista-delle-128-fake-news-smentite-dalla-polizia-postale

https://motherboard.vice.com/it/article/j5aqgx/per-lonu-il-bottone-rosso-delle-fake-news-di-minniti-viola-i-diritti-umani

http://www.butac.it/the-black-list/

https://www.foreign.senate.gov/imo/media/doc/FinalRR.pdf

https://www.nytimes.com/interactive/2016/10/21/us/elections/television-ads.html

https://techcrunch.com/2017/11/01/russian-facebook-ad-spend/

https://www.wired.com/story/how-trump-conquered-facebookwithout-russian-ads/

https://www.theguardian.com/us-news/2016/nov/16/facebook-bias-bubble-us-election-conservative-liberal-news-feed

https://www.washingtontimes.com/news/2017/oct/23/internet-giants-show-power-to-shape-politics/

https://gizmodo.com/former-facebook-workers-we-routinely-suppressed-conser-1775461006

http://www.butac.it/democratica-salvini-calabresi/

http://www.butac.it/il-non-candidato-di-forza-nuova/

https://medium.com/@CKava/why-almost-everything-reported-about-the-cambridge-analytica-facebook-hacking-controversy-is-db7f8af2d042

http://www.affaritaliani.it/politica/la-piu-grande-bufala-della-sinistra-onda-nera-scomparsa-da-media-tv-532795.html

https://www.nytimes.com/2016/05/01/magazine/president-obama-weighs-his-economic-legacy.html

http://www.nybooks.com/articles/2018/04/05/silicon-valley-beware-big-five/

Non toglieteci anche le Fake News!

Social minds

Non toglieteci anche le Fake News!

Come già per i superalcolici, il tabacco, le patatine fritte, le bevande gassate, i grassi idrogenati, lo zucchero e, buon ultimo, l’olio di palma, il proibizionismo delle buone intenzioni è pronto ad abbattersi su un nuovo nemico della salute fisica e mentale degli individui incapaci di badare al loro bene: le fake news.

Ho sempre sospettato di chi mi dava consigli per il mio bene, per questo nella vita ho fatto tanti errori. Ma almeno mi sono sentito libero di farli.

Che il grande allarme sulle fake news diventi il punto di partenza per imporre sul web una certa idea di verità, decisa per lo più da poche piattaforme attraverso algoritmi ovviamente proprietari quanto opachi, oggi è meno un’ipotesi distopica che una tendenza fondata.  Negare visibilità a versioni alternative o paradossali dei fatti potrebbe essere il primo passo verso una sorta di totalitarismo digitale.

Ma che cosa significhi fake news, termine oramai usato anche dalla casalinga per apostrofare un’offerta farlocca del supermercato sotto casa, per certo più non si sa: chi etichetta così anche gli slogan degli avversari politici, chi ci mette dentro anche le teorie cospirative, chi lo confonde con la propaganda, chi definisce fake news un fatto che vuole negare, chi lo usa perché è il termine del momento e produce tanta attenzione e tanti click.

L’utilizzo indiscriminato del termine fake news è diventato un grande alibi per dimenticare la cause reali della crisi del giornalismo e tralasciare la memoria delle manipolazioni, della propaganda, delle interpolazioni di testi e fotografie che hanno inciso in tante ricostruzioni storiche, come anche degli articoli un tanto al chilo, delle bufale per far abboccare i giornalisti tonni, degli educational tours con molte occasioni di divertimento che a volte sono entrate nella mitologia della professione giornalistica. Bei tempi andati insomma, quando si affogavano i cormorani nel petrolio al fin di smuovere i delicati animi degli occidentali (fino ad allora poco toccati da abusi, crudeltà e decine di migliaia di esecuzioni arbitrarie) o quando il segretario di Stato USA Colin Powell mostrava in Consiglio di Sicurezza dell’ONU le mitiche boccettine di polvere bianca, e ancora non si sa se fosse talco o forfora di Bush Jr. Ma tant’è, all’epoca la parola fakenews non era stata inventata e poi la diffusione delle contronotizie era fatta da grandi società di comunicazione come Hill&Knowlton con l’ausilio di tanti giornalisti finanziariamente “embedded”, mica dal primo pischello smanettone ubicato in chissà quale villaggio dei Balcani. Fino a dieci anni fa l’informazione era ancora un circuito abbastanza limitato e controllabile, un club quasi esclusivo e ancora relativamente benestante dove ci si conosceva, ci si scambiava favori e, almeno a certi livelli, tutti conoscevano gli altarini degli altri. Ecco, mi chiedo quanto gli allarmi per le fake news e il livore per l’informazione via social media che diffondono tanti paludati giornalisti non siano le reazioni di chi vede svanire il mondo confortevole in cui viveva.

Con questa persuasione ho seguito con distacco il tema fino a quando non ho letto un meditabondo  appello di Gramellini alla regolazione dei social. Il vate nazionale del buon senso il 17 maggio scorso ha dichiarato: “che le porte dei «social», spalancate sul male del mondo, hanno urgente bisogno di una serratura”. Ora, vada per i grandi esperti di politica e media, vada per i professori universitari di comunicazione e sociologia, ma la presa di posizione di Gramellini preoccupa perché,  a differenza di chi studia davvero l’argomento, il suo pensiero è letto dai politici perché ritenuto rappresentativo di qualche milione di italiani che si considerano buoni, civili e riflessivi e così tanti politici, anche le versioni reali e decuplicate di Cetto la Qualunque, tengono in gran conto il giudizio dei tremebondi lettori di Gramellini.

Ma il fatto è che per scrivere un editoriale alla Gramellini ci vogliono pochi minuti, mentre per verificare il caso Blue Whale ci vogliono ore o giorni di verifiche. Non mancano sul web le penne brillanti, invece scarseggiano i redattori capaci di ricercare le fonti e verificare le notizie con rapidità e autorevolezza.

Definizione delle fake news

Ma ora cerchiamo di definire l’ambito e il concetto delle fake news, che possiamo definire come contenuti non fattuali, dal tono spesso sensazionalistico e con una titolazione roboante, costruiti con logica di click baiting, diffusi via web prevalentemente attraverso i media sociali.

Le fake news trovano spazio all’interno della grande divaricazione  che il web sociale ha creato tra informazione e contenuti, con questi ultimi diventati strumenti principi del web marketing. I contenuti per il web non sono necessariamente informativi, ma sono costruiti con logiche di web marketing per incrementare il traffico o le page views. Anche l’informazione di qualità può essere riorganizzata per veicolare più traffico attraverso titoli enfatici, per ottenere più page views reimpaginando i contenuti in slideshow, per essere più facilmente condivisibile via social media utilizzando, per esempio, immagini efficaci ma non sempre in linea con l’oggetto dell’informazione.

In generale un contenuto per il web è innanzitutto ottimizzato per essere trovato dai crawler e condiviso facilmente via social media. Per certi contenuti sarebbe più corretto parlare di fake contents che di fake news, ovvero di contenuti che nemmeno si pongono il problema della veridicità (Il culo photoshoppato della Kardashan, non è una fake news, ma un fake content che produce traffico e visibilità monetizzabili).

L’ecosistema delle fake news strictu sensu è caratterizzato da variabili di mercato e da variabili sociali.

Le Variabili di mercato riguardano:

  1. Basse barriere di accesso al mercato dei contenuti digitali, sia dal punto economico (poche centinaia di euro per realizzare un sito web di buona qualità grafica) che organizzativo (grazie ai Content Management Systems gratuiti) e distributivo (costo marginale zero della distribuzione digitale)
  2. Declino della circolazione dei grandi media, a causa dei costi di produzione e di distribuzione e al declino della raccolta pubblicitaria
  3. Modelli attuali di pay-per-view e pay-per-click che premiano i volumi di traffico a discapito della qualità dell’informazione (un articolo di informazione o di riflessione di qualità verrà quasi sempre penalizzato rispetto a un contenuto ottimizzato per essere cliccato e condiviso)

Tra le variabili sociali possiamo elencare

  1. Incremento della fruizione di contenuti enfatici, polemici o leggeri attraverso i media sociali e in particolare Facebook.
  2. Declino della fiducia nei grandi media
  3. I fenomeni di echo chamber o filter bubble, che spingono verso un processo di ripetizione e di rafforzamento di determinati contenuti all’interno di cluster relazionali
  4. Diffusione di teorie cospirative e incremento dell’attitudine a credere a verità considerate “alternative”

 La censura attraverso gli algoritmi

Non è la prima volta che l’intellighenzija italiana si lancia ardimentosamente a provare a regolare le “fake news”. Prima si è provato proponendo un comitato di esperti (un evergreen italiano), che non si sa se si sarebbe riunito a cadenza mensile o trimestrale per verificare contenuti diffusi settimane o mesi prima e dimenticati in poche ore. Poi il 21 aprile a Montecitorio si son tenuti ben quattro tavoli di lavoro, promossi dalla Presidenta della Camera, per “arginare la disinformazione”. Ma verso chi si rivolgono gli strali delle menti illuminate convocate dalla Boldrini? Da una parte verso i produttori di fake news, siano essi ubicati a San Cataldo, provincia di Caltanissetta, a gestire il famigerato senzacensura.eu, o in Macedonia o Romania a disinformare a vantaggio di Trump o rifugiati in Bulgaria a fare gli imprenditori della bufala. Dall’altra parte ci sono le grandi piattaforme come Google e Facebook, alle quali anche il giurista statunitense Vivek Wadhwa ha indirizzato i suoi strali in un articolo sul Washington Post del 12 aprile intitolato “What Google and Facebook must do about one of their biggest problems” invitando le due grandi porte del web a indirizzarsi verso una “positive direction” e a rendere accessibili non i codici, ma almeno i filtri di selezione. Wadhwa ha dimenticato che se ci sono aziende che non vogliono apparire sui siti di fake news ce ne sono tante altre che si rivolgono proprio a quel target. A questo appello ha indirettamente risposto nel corso dell’ultima edizione di F8 Developers di Facebook Adam Mosseri, VP di News Feed, il quale ha evidenziato i quattro parametri su cui lavora la selezione di notizie di Facebook: Inventory, Signals, Predictions, Score. All’interno di “hundreds of thousands of data points” processati da Facebook, dei quattro parametri che riordinano I contenuti quello di maggiore interesse è Predictions, ovvero l’insieme degli algoritmi di predizione che Facebook usa per proporci i contenuti che hanno più alta possibilità di spingerci a una reazione/interazione.

Dall’esposizione di Mosseri sembra che Facebook punti solo a incrementare la capacità di engagement delle informazioni/contenuti distribuiti nel News feed. In questo senso Facebook si presenta in maniera agnostica rispetto ai contenuti che diffonde: la costruzione della filter bubble o della echo chamber non si baserebbe su considerazioni di tipo politico, ma avrebbe l’unico intento di farci restare più tempo possibile sulla piattaforma per alimentarla con Like, commenti e contenuti (con tutti gli enormi interrogativi che pone questo modello di estrazione del valore dalle persone).

Ma che l’interpretazione di Mosseri sia volutamente ingenua e reticente è dimostrato dal rapporto “Information Operations and Facebook” dello scorso 27 aprile. In esso si esplicita un obiettivo politico chiaro, sulla falsariga del Manifesto di Zuckerberg, quello di “make the world more open and connected”, con la rivendicazione del ruolo in “facilitating public discourse”.

Le ”Information Operations” sono definite come “actions taken by organized actors (governments or non-state actors) to distort domestic or foreign political sentiment, most frequently to achieve a strategic or geopolitical outcome” attraverso “fake news, disinformation or networks of fake account” con obiettivi principalmente di carattere politico e non di monetizzazione. Quindi un documento assolutamente politico e non di carattere tecnico, che pone al primo punto della sua strategia di contrasto la lotta al “Targeted Data Collection”, in sostanza ai “leaks” di dati politicamente sensibili che possono essere attivati anche attraverso i profili Facebook. Per chi crede che Wikileaks, al di là delle ambiguità e delle controversie, abbia consentito negli ultimi anni di conoscere alcuni aspetti del sistema di sorveglianza e degli arcana imperii globali, la posizione di Facebook appare assolutamente schierata a favore della segretezza e a tutela di una parte dell’establishment mondiale, ben lontana dai principi di promozione di un mondo aperto e di libera espressione dei sbandierati da Zuckerberg.

Le tecniche che presenta la società di Menlo Park per tutelare la sua dimensione informativa finiscono per essere risultare di sostegno ad alcune narrazioni (e abusi) di alcune classi dominanti globali. Prendiamo un esempio, la violazione degli account di posta della presidentessa del Democratic National Committee Debbie Wasserman Schultz da parte di hacker russi più o meno strettamente controllati dal Cremlino. Una operazione di spionaggio politico internazionale che ha svelato come i vertici del partito democratico americano giocassero scorrettamente ai danni di Bernie Sanders, ovvero ai danni di colui che tutti i sondaggi davano vincente contro Donald Trump. Queste rivelazioni hanno certamente incrementato, come era loro fine, la sfiducia nelle istituzioni politiche, ma sulla base di fatti veritieri che hanno portato alle dimissioni della Wasserman Schultz, a scuse formali del DNC verso Sanders, il quale aveva anche citato in giudizio il DNC. Eppure il rapporto di Facebook a pagina 8 si preoccupa dei “fake accounts” che potrebbero “undermine the status quo (grassetto mio) of civil or political insistitutions”: un’esplicita presa di posizione che evidenzia l’approccio conformistico di questi meccanismi che potremmo definire di “information patroling” che attiverà nei prossimi mesi Facebook. A tal riguardo Facebook assicura a pagina 12 che continuerà a lavorare con i governi per fornire formazione e a collaborare con le agenzie governative di cibersicurezza: una scelta di campo chiara a sostegno dei governi in carica, ovunque essi si trovino e comunque essi operino. Postulare e promuovere un confronto aperto tra i suoi utenti e collaborare con governi autocratici che perseguono chi vuole esprimersi liberamente potrebbe apparire una contraddizione oppure rappresentare i due assi di una rete di controllo globale pronta ad attivarsi per sanzionare o a imprigionare chiunque apponga un Like o faccia un commento considerato sovversivo ad Ankara o al Cairo, ad esempio. Un ambiente relazionale in cui si potrà parlare con tutti di quasi tutto purché non cambi lo status quo del mondo reale.

Ma, si dirà, le fake news ci hanno portato Trump e qualche contromisura bisogna pur prenderla. Ebbene, tanto il citato rapporto di Facebook quanto l’eccellente ricercaSocial Media and Fake News in the 2016 Election dei ricercatori della Stanford University Hunt Allcott e Matthew Gentzkow evidenziano che non vi è alcuna correlazione certa tra la vittoria di Donald Trump e la diffusione di fake news a sostegno delle sue posizioni. Mentre sul tema delle presidenziali USA il citato rapporto di Facebook dichiara che “we have no evidence of any Facebook accounts being compromised as part of this (information operations) activity”, il rapporto di Allcott e Gentzkow, pur confermando che Facebook era stato il principale veicolo di diffusione delle 156 fake news monitorate durante il periodo pre-elettorale, dimostra come l’impatto delle fake news in termini di capacità di indirizzo e di cambiamento delle opinioni politiche è estremamente limitato. Altri fattori, come l’orientamento politico, la dieta mediatica e il livello di istruzione, risultano molto più incidenti.

Le fake news come fallimento della governance liberal e globalista

In una recente intervista Eli Pariser ha dichiarato: ““The filter bubble explains a lot about how liberals didn’t see Trump coming, but not very much about how he won the election” e si chiede: “Is the truth loud enough?” Ma chi o cosa dovrebbe decidere cosa è la verità?

A mio avviso il dibattito globale sulle fake news può essere interpretato anche come un alibi che le élite mondiali liberal e globaliste stanno diffondendo per giustificare vari fallimenti delle loro scelte di personale politico e di governance. L’incapacità di queste élite di costruire quella che Gramsci chiamava la “connessione sentimentale” con il popolo, che oggi si esprime tanto attraverso i social media e in special modo Facebook, finisce per essere attribuita alle fake news, all’hate speech, ai leaks, alle information operations pianificate da stati esteri, ma raramente vi è un’autocritica sulle proposte politiche e sulla qualità della comunicazione e dello stesso personale politico proposto da queste élite liberal. Brexit e Trump sono due dei vari esiti di questa disconnessione tra gente comune e classi dirigenti globaliste. Di converso bisognerebbe chiedersi se l’efficacia di Sanders e Corbyn su Facebook sia solo merito del loro social media manager o anche l’effetto della loro proposta politica.

La risposta verso cui certe élite sembrano orientarsi per far fronte ai fallimenti della loro governance tende alla censura da stato etico, con l’aggravio di voler ricorrere agli algoritmi delle grandi corporation del web per fini strettamente politici. In realtà gli studi più recenti non mostrano una particolare capacità di orientare il dibattito pubblico da parte delle fake news. Esse vanno intese in molti casi più come una gratificazione psicologica per persone che vogliono ulteriori conferme dei loro pregiudizi, occasioni di svago più che armi di propaganda politica. Uno svago pettegolo e malizioso quanto si vuole, ma un indice della libertà di espressione di una società.

Immaginiamo un ministero della verità che decida di togliere dalle edicole Cronaca Vera e Novella 3000. Non sarebbe un attentato alla libertà di stampa, a una stampa che da sempre è anche svago e può essere letta senza alcun impegno intellettuale e senza impegnarsi in alcuna verifica fattuale?

Qualche Solone liberal dirà: “ma nessuno vi vuole togliere il cazzeggio pettegolo dal parrucchiere o sotto l’ombrellone! La questione riguarda i temi seri, dalla politica alle affermazioni pseudo scientifiche”. Ecco, anche se gli algoritmi di verifica della veridicità di un fatto o di un’affermazione venissero applicati solo (solo?) a questioni politiche e asserzioni scientifiche, ci sarebbe molto da preoccuparsi. Se la politica è il presente della storia sarebbe inquietante che il dibattito politico venisse indirizzato dagli algoritmi delle grandi piattaforme. Quale storia avremmo?

Aggiungiamo il fatto che mentre la storia viene da secoli riscritta grazie a documenti inediti e interpretazioni innovative dei fatti, un documento digitale una volta cancellato non può più venire recuperato.  E anche sulle affermazioni pseudoscientifiche bisognerebbe riflettere con meno conformismo.  Isaac Newton era un geniale scienziato quanto un alchimista appassionato: qualche algoritmo di ricerca potrebbe retrocedere tutti gli articoli sulle ricerche di un Isaac Newton contemporaneo perché parte di esse sarebbe patentemente controversa.

La storia del giornalismo, da Winchell e Pulitzer in poi, è un continuo confronto tra watchdogging e propaganda, tra impegno e svago, tra terze pagine e pagine rosa, tra scoop e violazioni della privacy, un coacervo di manipolazione, idealismo, servilismo e impegno civico. E ci sarà sempre un tipo di pubblico che all’Etica nicomachea di Aristotele preferirà la lettura delle amorali vicissitudini di Fabrizio Corona. L’importante è avere una politica che voglia fare in modo che tutti abbiano gli strumenti per comprendere il valore delle diverse intraprese.

Al contrario, una politica che si illuderà di usare gli algoritmi di aziende commerciali per poter cancellare una parte della realtà che trova sgradevole rischierà di vedersi cancellata da questi stessi algoritmi.

Il Manifesto di Mark Zuckerberg: Facebook come nuovo modello di politica

Algoritmi

Il Manifesto di Mark Zuckerberg: Facebook come nuovo modello di politica

In principio fu Face Mash, niente più che una versione di Hot or Not per gli studenti di Harvard. Ma sin dall’inizio Mark Zuckerberg ha voluto dilatare gli ambiti del suo progetto a dimensioni esistenziali sempre più ampie, prima con thefacebook per le università e poi con Facebook per tutti. E da qui in poi è storia.

Dunque chi considera il manifesto “Building Global Community” un indizio della volontà di Zuckerberg di darsi alla politica attiva, magari in funzione anti Trump, semplicemente ne sottovaluta le ambizioni.

Il documento è totalmente politico, ma in un senso ancora più radicale, e pone implicitamente delle domande su cosa ne sarà della politica nell’epoca del superamento dei partiti di massa novecenteschi, dell’indebolimento degli stati-nazione, della digitalizzazione, dell’intelligenza artificiale e dell’automatizzazione delle funzioni cognitive.

I cinque obiettivi ideali di sviluppo delle communities che propone Zuckerberg (supportive, safe, informed, civically-engaged, inclusive) intendono proporre il social network come una metacomunità, al tempo stesso sovraordinata e coordinata con le altre comunità che, idealmente, dovrebbe sostenere e alimentare. Questi obiettivi sono eminentemente politici, e alcuni risultati di coinvolgimento politico ed elettorale raggiunti in varie parti del mondo vengono esplicitamente citati. Nel Manifesto, Facebook si propone dunque non come un elemento corrosivo delle istituzioni pubbliche tradizionali ma come un loro puntello. Ma qui emerge la prima contraddizione, ovvero come un’ambiente relazionale digitale, i cui algoritmi puntano a massimizzare il coinvolgimento degli utenti e a gratificarli per il tempo speso in esso, possa spingere verso l’impegno civico diretto nel mondo reale, che richiede tempo, attenzione e continuità di impegno a quegli stessi utenti cui chiede spasmodicamente attenzione per ricavarne il suo fatturato.

Si torna dunque a chiedersi che cosa è Facebook. Il successo di Facebook sta proprio nella sua estrema plasticità, che ha posto a tanti il problema della sua definizione, se fosse la società una media company, o una tech company o una entertainment company o una utility. Facebook può proporsi e può essere fruito per informare e disinformare, per offrire e cercare collaborazione, per autopromuoversi e vendere, per divertirsi e fare nuove amicizie, per raccontarsi e cercare conforto, per dibattere e litigare, per ritrovare o indugiare in vite altrui e lascio ai lettori allungare l’elenco. Di fronte a questa estrema variegatezza di opzioni, Zuckerberg per 14 volte chiama la sua creatura “infrastruttura sociale”, senza definire in dettaglio cosa con questo intenda e semmai rifugiandosi in una definizione riduttiva, che lo esonera dal prendere una posizione chiara rispetto a tutta una serie di problematiche, dalle fake news alle filter bubbles, che pure tocca nel testo. Infrastruttura è un termine che in prima battuta potrebbe sembrare neutro e che rimanda a servizi che in italiano definiremmo di pubblica utilità, quali autostrade, energia elettrica, acqua e banda larga. Ma la decisione su allacciare o no una comunità o un singolo a questi servizi è puramente politica, come politica fu la scelta di far passare l’autostrada del Sole da Arezzo o di nazionalizzare l’energia elettrica per poterla garantire a tutti a prescindere dal ritorno economico. Così come garantire l’acqua potabile tramite condotta o tramite autobotti non è la stessa cosa. Questa scelta di rifugiarsi nel corner delle utilities consente a Zuckerberg di proporsi al contempo come la neutra infrastruttura relazionale di base del nostro tempo e di sostenere la information diversity come principio guida di molte scelte presenti e soprattutto future di content curation. Tuttavia come questa strategia di information diversity vorrà plasmare, o almeno modificare, la dieta informativa di quasi due miliardi di persone? Se io ho idee di sinistra (per quel che possa significare oggi), finiranno per apparirmi in Home notizie e opinioni neoliberiste o addirittura esplicitamente di destra per promuovere il common understanding? Si useranno gli interessi comuni, lo sport, per spingere persone diverse a incrociarsi? Lo stesso Zuckerberg sembra temere un’ulteriore polarizzazione delle posizioni. Ma poi perché io, con le mie convinzioni, giuste o meno che siano ma costruite in decenni di letture, studio ed esperienze, devo essere disciplinato al “common understanding” come lo ha in testa Zuckerberg? Ecco dunque un’altra contraddizione: i Community Standards, lungi dall’essere mera netiquette e buona fede nelle relazioni che si instaurano, finiscono per diventare i principi ideologici da accettare tout court per fruire di una rete di quasi due miliardi di persone.

In una stesura precedente del testo alcune scelte fondamentali in tema di individuazione e analisi di post controversi o signals di pericoli venivano devolute ai sistemi di intelligenza artificiale: “The long term promise of AI is that in addition to identifying risks more quickly and accurately than would have already happened, it may also identify risks that nobody would have flagged at all — including terrorists planning attacks using private channels, people bullying someone too afraid to report it themselves, and other issues both local and global. It will take many years to develop these systems.”. La versione finale invece è molto più vaga e meno inquietante: “Looking ahead, one of our greatest opportunities to keep people safe is building artificial intelligence to understand more quickly and accurately what is happening across our community,“. Già prima che scoppiasse il tormentone delle fake news, Facebook aveva già provato a scaricare sugli algoritmi la questione dell’arbitrarietà della selezione delle notizie, ma di certo negli ultimi mesi anche un pubblico meno esperto inizia a essere consapevole che gli algoritmi sono un prodotto di programmatori umani e come tale soggetto a scelte arbitrarie ed errori di natura umana. Tuttavia quando ambisci a proporti come l’infrastruttura globale di base per produrre e alimentare comunità, ovvero senso di appartenenza, il ricorso all’intelligenza artificiale per indirizzare o censurare dei flussi di comunicazione suscita inquietudine, perché si tende a rendere le responsabilità opache e meno verificabili.

Preferisco da sempre definire Facebook un ambiente relazionale proprio perché ambiente è un termine molto più complesso, plastico e dinamico di infrastruttura e perché il social network mette a valore i processi cognitivi e relazionali dei suoi utenti.

In questo contesto discutibile per quanto riguarda la tutela e il riconoscimento del lavoro cognitivo di un ambiente tutto basato sugli users’ generated contents, il Manifesto di Zuckerberg prova ad evocare alcune tematiche dell’etica comunicativa di Jurgen Habermas quando definisce Facebook una “source of news and public discourse” con l’obiettivo di “creating a large-scale democratic process to determine standards with AI to help enforce them (the Community Standards). In certi passaggi Zuckerberg sembra immaginare una comunità dialogica e razionale (qualcosa di molto distante dalle risse digitali cui assistiamo quasi tutti i giorni, specialmente su temi politici), un processo dunque intersoggettivo dove, in assenza di orientamenti espliciti dei singoli, prevarrà la maggioranza dei rispondenti nel contesto di riferimento del singolo utente “like a referendum”, scrive esplicitamente il co-fondatore. Eppure questo meccanismo potrebbe aggravare le filter bubbles, perché, ad esempio, se io, irritato per le scelte del momento di un partito o di un’associazione o di una persona, decido di disattivare le notifiche relative ad essi, rischio di vederli sparire per sempre dal mio orizzonte informativo, data l’improbabilità che ogni qualche mese io i metta a rivedere le impostazioni del mio profilo. Quanti saranno i rispondenti a questi simil-referendum? E questi rispondenti saranno i più saggi e olimpici tra gli utenti? E se alla fine i risultati di qualche simil-referendum contrastassero i Community Standards cosa prevarrà, in una community che aspira a promuovere un processo democratico su larga scala (senza definirne forme e contenuti, per ora)? E infine, quale idea di democrazia digitale ha in testa Facebook, quando si propone su scala globale tanto in paesi dalla cultura democratica e dal confronto civico avanzatissimi quanto in paesi dove vige solo un principio di autorità che si diffonde verticalmente dal capo del governo al villaggio? Da quanto si intuisce l’approccio sarà glocale, una visione globale che a livello di singoli paesi o regioni interverrà sempre di più per promuovere campagne, idee e orientamenti definiti dal vertice della società. Che ruolo e che peso andranno ad avere le culture, e i poteri locali, eletti o riconosciuti come legittimi dalla maggioranza della popolazione di un dato paese, di fronte alle possibili interferenze o a candidati sostenuti da Facebook?

Di fronte alle ambizioni di Facebook e Google di inglobare e indirizzare il mondo delle informazioni e quello delle relazioni grazie ai loro algoritmi, sembra riemergere, in versione digitale, il classico conflitto dell’epoca moderna tra totalità e libertà. L’uomo moderno borghese come lo conosciamo nel suo individualismo è il risultato della rottura della totalità che si fondava su un principio ultramondano. I traumi soggettivi e i conflitti sociali che attraversano la modernità sono la conseguenza e la nostalgia di quella totalità. Ma Google e Facebook sembrano puntare a promuovere una nuova totalità (o almeno destinata alla totalità dei soggetti connessi), assorbendo e omogeneizzando ogni differenza nell’irenico “common understanding”, in cui si dissolve l’alterità e l’idea di pensare diversamente dai “Community Standards”. Si può davvero escludere che queste tendenze dei due giganti del web relazionale non implichino delle tendenze totalitarie, almeno rispetto a certi ambiti per essi essenziali come il controllo delle informazioni e delle relazioni, ovvero gran parte del web come lo conosciamo oggi?

In questo orizzonte cosa resterà della libertà degli individui? Una politica dominata da Facebook e Google sarà ancora capace di pensare categorie radicalmente diverse e alternative al presente?

Alcuni riferimenti:

Building Global Community, https://www.facebook.com/notes/mark-zuckerberg/building-global-community/10154544292806634/

The Guardian, 2016: the year Facebook became the bad guy, https://www.theguardian.com/technology/2016/dec/12/facebook-2016-problems-fake-news-censorship

Will Oremus, FutureTense, Facebook’s New “Manifesto” Is Political. Mark Zuckerberg Just Won’t Admit It. http://www.slate.com/blogs/future_tense/2017/02/17/the_problem_with_mark_zuckerberg_s_new_facebook_manifesto_it_isn_t_political.html

Annalee Newitz, Ars Techica, Op-ed: Mark Zuckerberg’s manifesto is a political trainwreck, https://arstechnica.com/staff/2017/02/op-ed-mark-zuckerbergs-manifesto-is-a-political-trainwreck/

Andrew Griffin, The Indipendent, Facebook is developing tools to read through people’s private messages, Mark Zuckerberg manifesto suggests, http://www.independent.co.uk/life-style/gadgets-and-tech/news/facebook-mark-zuckerberg-globalisation-manifesto-read-artificial-intelligence-robot-terrorist-a7586166.html

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