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Il low cost, causa dimenticata del populismo

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Il low cost, causa dimenticata del populismo

Cosa c’entra un mobile di compensato con Berlusconi, Salvini, Renzi e Grillo? Molto più di quanto si creda e di seguito cerco di spiegarlo. 

Il low cost e l’eclisse del futuro

In un mondo dove prima o poi quasi tutto sarà in offerta speciale, in saldo, in sconto, in promozione o al prezzo di lancio o di svendita, il low-cost è molto di più che il suo prezzo. Semmai esso rappresenta un’estetica e un’ideologia, al contempo aspirazione e rifugio dell’esistenza, che oggi appaiono prossime ad esaurire la loro carica persuasiva: il basso costo non riesce più a nascondere i suoi costi nascosti, materiali e sociali; l’abbassamento degli stili di vita non è più mascherato da consumi accessibili; le scelte che dieci anni fa sembravano scaltre ora appaiono per quel che sono: compromessi, con i quali si è deciso di rinunciare a qualche certezza nel futuro in cambio di un presente meno frustrante.

Cosa (non) è il low cost

Passiamo a definire meglio il tema.

Il low cost non è l’acquisto al mercato rionale dove si fruga tra roba taroccata, rubata o di seconda mano, ben consapevoli dei limiti della propria condizione economica.

Il low cost non è la svendita o la promozione speciale, quando per un periodo limitato si può comprare un prodotto della medesima qualità usuale.

Il low-cost non è nemmeno la bassa qualità, quando il rivenditore non fa nulla per mascherarla.

Il low-cost non è sobrietà. Al contrario è la rivendicazione da parte del consumatore impoverito a pretendere svaghi e beni simili a quelli che possono permettersi i benestanti globali.

Il low-cost non è solo uno slogan e una tecnica di marketing, ma definisce anche un habitus sociale che va ben al d là delle scelte strettamente economiche di chi ne fruisce

Il low-cost si è presentato come uno stile di vita capace di incarnare un nuovo compromesso sociale, tipico delle società post-industriali europee, in cui le generazioni di mezzo si adeguano alla contrazione dei loro redditi rispetto alla generazione precedente, accettano l’impossibilità di accumulare risparmio e rinunciano, inconsciamente o meno, alle tutele sul futuro che garantiva lo Stato in cambio di un potere di acquisto immediato e alquanto diversificato di beni e servizi mimetici dei consumi affluenti, ma il cui prezzo media tra le loro aspirazioni e la loro condizione economica.

La rap-presentazione del low cost

Il prodotto low cost non si propone a prima vista come povero o economico, almeno per quanto riguarda la comunicazione. Il low cost non si racconta come un compromesso o una rinuncia, ma come una scelta consapevole di cui non vergognarsi perché dei beni e i prodotti low cost si evidenzia la loro ampia diffusione, cercando così di renderli non solo accettabili, ma fattore per essere socialmente accettati. Il low cost viene comunicato con stili e modalità a volte più raffinati di quelli dei prodotti equivalenti di qualità superiore, lo stile è tranquillizzante, oppure entusiasta ma anansiogeno, in alcuni casi addirittura scanzonato e (auto)ironico.

Il catalogo IKEA è un classico caso di studio. La qualità delle composizioni, degli ambienti, della luce nelle immagini del catalogo potrebbe reggere il confronto con le riviste di architettura più prestigiose. Ma questa scenografia serve a presentare prodotti in truciolare, pannellature e plastica prodotti nei paesi più poveri al mondo.

Non si tratta solo della classica confezione più prestigiosa o più costosa del contenuto. Il catalogo interloquisce con le attese e le aspirazioni del compratore. Certo, ogni acquirente è ben consapevole che se si trova in un IKEA è perché, di solito, vive in un appartamento piccolo e vuole risparmiare, ma quel che l’acquirente inconsciamente cerca e vorrebbe ritrovare quando entra in un megastore IKEA sono gli ambienti e le atmosfere del catalogo. Il catalogo è l’utopia possibile, di un appartamento piccolo ma confortevole, economico ma accogliente, in cui esprimere i propri variegati interessi calibrandoli sul proprio reddito. Coerente con le conclusioni di queste riflessioni anche lo slogan del catalogo italiano IKEA 2018: “Facciamo spazio alla tua voglia di cambiare”.

Le didascalie del catalogo alludono spesso al confine, chiaro ma implicito, tra vincoli materiali (spazio, disponibilità economiche) e aspirazioni.

Ascesa e declino del low cost 

Son passati poco più che dieci anni da quando il testo di Massimo Gaggi ed Eduardo Narduzzi “La fine del ceto medio e la nascita della società low cost” si spingeva a ipotizzare un modello low cost per tanta parte delle attività economiche e sociali. Si andava ben oltre l’acquisto di un biglietto aereo a pochi euro o un mobile in truciolato per qualche decina. Si ipotizzava un mondo dove la produzione e l’erogazione di servizi tradizionalmente in capo allo Stato, la giustizia, la sanità, la pubblica amministrazione, le pensioni, venivano ripensati in logica low cost e dentro l’idea di uno Stato minimo. Molto più di una moda o di uno stile di vita, il low cost veniva proposto come uno strumento, culturale, prima ancora che economico, per riprogettare la società sulle basi non di una frugalità voluta, ma di modello sociale imposto dall’addio al welfare state e dal declino dei redditi personali.

Una generazione intera ha così visto nei consumi compulsivi e low cost una soluzione alle grandi aspirazioni cui era stata educata. La “generazione low cost” e la per tanti versi sovrapponibile “generazione Erasmus” sono due facce della stessa medaglia: una generazione occidentale transnazionale, che ha fruito solo indirettamente dei benefici e le tutele sociali dei loro genitori, accomunata da principi politici in sostanza moderati e da una bassa conflittualità sociale anche grazie all’accesso a beni che per i loro padri erano un lusso, come ad esempio i frequenti viaggi in aereo. Una generazione precaria e senza alcuna sicurezza per i suoi anni tardi che non sente acutamente il disagio della sua condizione grazie all’accesso a beni e servizi a basso costo.

Al di là di motivazioni strettamente culturali e politiche, bisognerebbe anche indagare quanto la facilità di accesso a beni e servizi ha consentito di disinnescare la conflittualità potenziale di una intera generazione. Internet e il low cost hanno rappresentato due grandi valvole di sfogo delle inquietudini e dei desideri giovanili, per cui mai come oggi, nonostante scontri sporadici, la gioventù europea è tanto poco politicizzata e tanto conformista. Se di per sé internet ha ancora una carica liberatoria e libertaria (disintermediazione del sapere, della politica, dei rapporti sociali: messa in discussione dei “poteri”), i social media, che tanta parte parte rappresentano dell’internet, sono al contrario un meccanismo conformista perché tendono a spingere le persone a ricercare il consenso su quanto affermato, rafforzando gli stereotipi delle grandi filter bubbles in cui le varie tribù digitali vivono. Il low cost ha trasformato il desiderio in un processo pulsionale e ricorsivo di accumulazione quantitativa, rimandando la pretesa per la qualità (degli oggetti, come anche della stessa esistenza) a un orizzonte lontano, “quando ce lo potremo permettere”.

A questa platea di consumatori si aggiunge una parte consistente dei loro genitori, privati spesso delle tutele e dei servizi sociali che fruivano all’inizio del loro percorso lavorativo, che oggi si trovano a far fronte a questo declino della loro condizione ricorrendo a servizi e beni low cost. Da un punto di vista globale queste due generazioni si trovano soprattutto in Europa, affastellati attorno al valore minimo della oramai classica curva di Branko Milanovic.

In fondo alla proboscide dell’elefante di Milanovic si sono dunque ritrovati milioni di giovani europei che prima hanno pensato che le scelte low-cost fossero solo legate alla fase iniziale del loro percorso lavorativo per poi capire di essere ingabbiati in una dimensione permanente.

In un mondo dove poi l’esibizionismo digitale di desideri, esauditi o meno, crea forti pressioni esistenziali, il low cost si propone come una strategia di gestione all’impoverimento delle prospettive di almeno due generazioni.

Ma questo modello, che poteva essere accettato come un rifugio temporaneo, è diventato per molti  la trappola in cui son richiuse le loro aspirazioni.

Dalla sicurezza ai consumi: il low cost come ricerca di senso

La modernità può essere raccontata anche come l’eclisse dall’orizzonte umano di una idea di senso trascendente e inattingibile nella storia dei singoli e delle collettività. L’idea di un destino che presiedeva le vite di tutti, rendeva le tragedie più accettabili e comprensibili (“dio dà e dio toglie”). L’ideologia della razionalità che inizia a farsi strada a partire dall’età moderna sostituisce un destino accettato come inevitabile con la volontà di prevedere il futuro, la coscienza di poter controllare il percorso delle vite umane e delle stesse società.

Con Bismark, in pieno positivismo, viene teorizzata e messa in pratica l’idea che la coesione sociale e lo spirito nazionale vanno rafforzati attraverso l’impegno dello Stato a garantire a tutti un possibile futuro (scuola pubblica aperta a tutti), la cura dalla malattia (ospedali pubblici) e soprattutto la vecchiaia. Lo Stato garante del futuro attraverso le pensioni è il massimo esempio di predittività sociale: le assicurazioni calcolano matematicamente quanti lavoratori servono per mantenere un pensionato e quanti anni in media potrà quest’ultimo godersi la pensione (al netto di abusi).

Il passaggio dal modello a ripartizione al modello contributivo è già un primo colpo a una idea di coesione sociale attraverso la garanzia di tutela comuni e inclusive. Il principio contributivo per cui chi più versa più avrà cambia totalmente il quadro. Viene meno l’idea che era un diritto e diventa una componente di un piano di investimento in base alla capacità individuale gestito dallo Stato.

Il compromesso socialdemocratico europeo di una vita confortevole basata su lavoro, pensioni, sanità e istruzione era il patto fondante tra cittadino e Stato, in cui quest’ultimo si faceva garante del futuro dei propri cittadini che in cambio ne riconoscevano la piena legittimità.

Ogni senso dell’esistenza parte dall’idea di futuro che ci facciamo o che ci viene proposta. Se lo Stato viene meno con gli impegni che aveva iniziato a prendere oltre un secolo fa che senso ha più la mia cittadinanza? Ecco dunque che nella tarda società consumistica avviene il decoupling, il disaccoppiamento tra consumatore e cittadino: lo Stato con le sue elites si allontana dalle masse, mentre si minimizza e si ritira da tanti ambiti, lasciando il cittadino orfano di legami politici e concentrato solo nel suo ruolo di consumatore a basso costo, con l’obiettivo di massimizzare le sue gratificazioni materiali.

Il destino personale in una società atomizzata si riduce a nient’altro a una collazione di gratificazioni consumistiche a basso costo e a se stanti, senza più una visione che dia l’idea di un percorso o di un senso all’esistenza. Al massimo, si richiede un consenso temporaneo alle proprie esperienze pietendo un Like su Facebook o un cuoricino su Instagram.

Il processo di produzione-consumo del low cost

L’abbassamento dei costi di produzione non è solamente il frutto delle efficienze dovute alla digitalizzazione dei processo produttivi e distributivi. Il prosumer, il produttore-consumatore, è un soggetto centrale perché senza la sua diretta collaborazione non si potrebbero ottenere ulteriori riduzioni di costi, ad egli, talvolta, parzialmente restituiti.

Il Low cost addebita al cliente una serie di costi non monetari o non immediatamente monetizzabili: il montaggio con le proprie mani o a proprie spese di beni fisici, il self service in tanti ristoranti a basso costo, il processo di registrazione e accettazione del passeggero, la necessità di acquisire competenze un tempo appannaggio solo dei bancari, la breve durata dei capi di abbigliamento che implica costi di sostituzione significativi.

Il consumatore è costretto alla collaborazione se non vuol pagare costi aggiuntivi che spesso fanno svanire i vantaggi del prezzo basso. Richiedere il trasporto e il montaggio a casa di un mobile o dimenticarsi di completare da sé il check-in costa molto salato.

Non si tratta solo di costi a valle. Sappiamo bene che il processo d’acquisto di un volo low cost può tradursi in una snervante gimcana tra caselle da cliccare e offerte da declinare per riuscire davvero a raggiungere l’agognato prezzo speciale. Così come il prezzo di altri beni low cost appare davvero super conveniente solo con ulteriori sconti, mentre prodotti simili sono spesso più convenienti in altri esercenti.

Iniziamo ad essere sempre più consapevoli che la produzione del low cost ha un pesante impatto ecologico e sociale. e a volte non è nemmeno tanto conveniente sotto l’aspetto strettamente economico. La produzione globale delocalizzata punta non solo a inseguire il costo del lavoro più basso, ma anche il quadro normativo meno stringente per quanto riguarda il rispetto della sicurezza ambientale e sul lavoro. Le nostre case low cost sono piene di capi di abbigliamento made in Bangladesh o di mobili made in Serbia o  in Romania, ma queste nostre stesse case sono abitate da assistenti di volo di compagnie low cost, commesse di negozi low cost, sviluppatori software sottopagati per progetti low cost.

Il low cost, essendo un processo assolutamente deterritorializante, indifferente al territorio e alle sue regole, tende a imporre la stessa logica lungo tutta la sua filiera, non conta se parti di essa si trovino in Marocco o in Germania. L’assistente di volo della compagnia low cost si può affidare solo al low cost per poter mangiare, poter arredare il proprio monolocale, per potersi vestire, per poter telefonare e per gran parte delle sue attività.

Il low cost, che è apparso nelle nostre vite come idea geniale per avere di più dai nostri salari sfruttando le opportunità delle disuguaglianze globali, ha piegato le nostre vite e i nostri diritti alle sue logiche.

Low cost e populismo industriale

Il low cost, come ideologia di controllo sociale proposta dalle elites, finisce per sfociare nel populismo, come rottura della fiducia tra governanti e governati a seguito della rinuncia dello Stato a offrire un orizzonte di senso e di futuro ai suoi cittadini.

Lo Stato viene identificato del tutto con le sue élite perché non riesce più a rappresentarsi come un organismo coeso. Il superamento degli Stati-nazione è andato di pari passo con il ritiro dello Stato dagli impegni del compromesso socialdemocratico del secondo Dopoguerra. Privati di molte garanzie che si aspettavano dallo Stato, disorientati da uno Stato multiculturale che spesso non sa gestire la trasformazione dovuta ai flussi migratori, le classi meno agiate hanno trovato un rifugio consolatorio nel low cost e un rifugio politico nel populismo, pur pienamente consapevoli che si tratta di soluzioni di ripiego in entrambi i piani.

Il low cost rappresenta una delle massime esperienze del Populismo industriale, per usare il termine di Bernard Stiegler. La fruizione compulsiva di beni di poco valore e dal basso costo alla fine banalizza l’esigenza degli stessi consumatori di individualizzarsi, di caratterizzarsi attraverso il consumo. Se sei consumatore low cost, sarai anche un cittadino low value?

L’ideologia di controllo sociale attraverso il low cost dell’ultimo quindicennio implicava una depoliticizzazazione delle masse e il loro rifugio in orizzonti di senso del tutto individuali, basati su gratificazioni materiali continue ma di breve durata e di ridotte ambizioni. Questo downsizing materiale, questa resilienza esistenziale, mostrano ogni giorno dei punti di rottura di fronte alle pressioni di una società orfana di visioni capaci di governarla nel complesso e dare un senso alle singole esistenze. Così, all’interno del classico pendolo tra dimensione pubblica e dimensione privata di Albert O. Hirshman, gli individui tornano alla politica, ma a una politica di stampo populista, in cui si ritrovano accomunati da accuse più o meno generiche alle èlites che, esplicitamente o meno, hanno gestito il processo di impoverimento di milioni di persone nelle nazioni più industrializzate.Il disvelamento dei limiti del compromesso low cost porta questa forma di individualismo frustrato a sfociare in politica, in una politica che si può essere definita, senza accezioni di giudizio, populista.

In tutti i programmi politici populisti vi è un forte accento su un nuovo protagonismo dello Stato, che deve essere chiamato non solo a proteggere i cittadini dagli effetti della globalizzazione (si manifesti essa come immigrazione o come impoverimento della classe media), ma dovrebbe ricostruire un orizzonte di senso attraverso un nuovo senso di appartenenza e di coesione collettiva.

Ecco perché il low cost, che pure resterà come offerta commerciale, ha fallito come ideologia a sostegno dell’idea di uno Stato minimo: essa ha mancato totalmente l’obiettivo di creare una generazione soddisfatta della propria condizione grazie all’accesso diffuso a beni di scarsa qualità e oggi questa generazione (assieme agli strati sociali più poveri che più hanno sofferto …) entra in politica attraverso la porta del populismo, senza essersi però mai addestrata alla capacità politica di risoluzione dei problemi.

Il low cost rientra nei ranghi come mera strategia aziendale e lascia il campo a un’epoca in cui il contrasto tra le attese degli individui e le possibilità della politica diventerà ancora più stridente e rischioso per la tenuta della stessa società.

(l’immagine di copertina è tratta dal Catalogo Ikea Italia 2017)

Bibliografia: 

Branko Milanovic, “Worlds apart: Measuring international and global inequality” Princeton University Press, 2005

Massimo Gaggi, Eduardo Narduzzi, La fine del ceto medio e la nascita della società low cost, Einaudi, 2006

Bernard Stiegler, Reincantare il mondo. Il valore spirito contro il populismo industriale, Orthotes, Napoli 2012

Bernard Stiegler, State of Shock. Stupidity and knowledge in XXI century, Polity Press, 2015

Albert O. Hirshman, Felicità privata e felicità pubblica, Feltrinelli, 1983

 

Linkografia:

Ideología del loro cost, El Paìs, 7 decembre 2006 https://elpais.com/diario/2006/12/07/sociedad/1165446009_850215.html

La generatiòn low cost, El Mundo, 11/01/2015 http://www.elmundo.es/economia/2015/01/11/54afd7cc22601d31158b457e.html “No hay muebles de carpintería, sino estanterías Billy de Ikea, símbolo de la existencia low cost de la mayoría de estos jóvenes.”

No more low cost: East Europe goes up in the world, July 25th 2017, Reuters, https://www.reuters.com/article/us-easteurope-economy-analysis/no-more-low-cost-east-europe-goes-up-in-the-world-idUSKBN1AA1RE “We are not just cheaper-labor economy but also a low-cost economy,”

When cheap is not so cheap, The Economist, Sept 2nd 2014,  https://www.economist.com/news/business-and-finance/21614076-rethinking-low-cost-and-high-cost-manufacturing-locations-when-cheap-not-so-cheap

Non lasciamo internet solo ai marketers!

Algoritmi

Non lasciamo internet solo ai marketers!

Più pervasivi dei virus, più roboanti dei clickbait, più clamorosi delle fakenews, tra le tante calamità che affliggono il web registriamo una figura sempre più diffusa: il web marketing guru.

Se nel Simposio di Platone eros è frutto dell’incontro di Poros, abbondanza, e Penia, scarsità, il webmarketing guru è diretta conseguenza dell’abbondanza di egotismo e della scarsità di clienti affidabili e liquidi. Così il web marketing guru è costretto ad aggiornare furiosamente il suo blog, twitta nel flusso dell’ashtag del momento, posta video alle sei del mattino dei suoi primi piani stralunati o irridenti, trolla su Facebook peggio di un ubriaco attaccabrighe (per farsi notare sui media sociale non c’è niente di meglio che trollare), con un unico obiettivo: conquistare visibilità, essere riconosciuto come un esperto e infine acquisire nuovi clienti pronti ad abbeverarsi alla fonte delle sue competenze e della sua saggezza. Un hype totalizzante avvolge ogni performance del web marketing guru, perché il punto è lì: gran parte di essi fa personal branding e non ricerca, non studia ma riciccia o traduce analisi e idee altrui (anche quando pubblica interi libri), propone la vetrina del suo opinabile successo come un modello di vita che è più un’aspirazione da vendere a qualche potenziale cliente, sotto sotto considerato un beota.

Fatti salvi gli esperti veri, che lavorano e studiano sodo e per questo hanno poco tempo per esibire il loro superego digitale, ci sarebbe da derubricare il fenomeno dei web marketing guru a una sorta di folclorismo digitale se essi non condizionassero parecchio la percezione che si ha di internet nel senso comune, tra semplificazionismo tecnocentrico, motivazionismo d’accatto, esibizionismo inautentico.

Ma che tipo di idea di internet viene proposta?

Gran parte dei web marketing guru nostrani partono dall’assunto che le tecnologie digitali sono neutrali e non il frutto di processi sociali ed economici in cui soggetti molto potenti impongono i loro valori e i loro principi attraverso lo sviluppo dei codici. Si confonde a volte internet con le piattaforme oggi predominanti, dando questa predominanza per scontata e immodificabile. Un po’ come quei liberisti ingenui che credono che il cosiddetto libero mercato sia un fatto di natura da non mettere in discussione, i web marketing guru di casa nostra finiscono per proporre una visione di internet meramente tecnica, ludica, strumentale o commerciale, in genere pressoché acritica rispetto alle implicazioni e alle conseguenze dello sviluppo di internet, della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale. Specchio di questo riduttivismo è lo stesso panorama politico nazionale, che si divide tra esaltazioni e allarmismi, crociate per le buone intenzioni e scaltrezza nell’uso delle tecniche di web marketing.

Ma si possono individuare almeno altre tre modalità di pensare internet e la digitalizzazione.

Il digitale come leva strategica

La seconda modalità è quella delle grandi società di consulenza e delle grandi realtà del digitale, che studiano davvero la trasformazione in corso, sia pure per trarne benefici economici. A differenza delle figure raccontate sopra, in questo caso vi sono studi e analisi originali e anche la possibilità di confrontarsi con le problematiche dei grandi operatori globali dei vari settori che hanno le risorse per testare lo sviluppo di soluzioni effettivamente innovative. Nei contributi teorici e negli studi dei grandi robber barons dell’epoca digitale come delle società di consulenza il tema dell’impatto delle tecnologie digitali su società, economia, cultura e politica viene posto in termini tutt’altro che ingenui, semmai con l’intenzione di condizionare comportamenti, attitudini e scelte delle persone in modo permanente.

La digital disruption o digital transformation sono oggi il principale motore di creazione del valore e la principale selling proposition delle società di consulenza globali. Ma naturalmente le componenti di analisi e di riflessione sono sempre finalizzate a incrementare l’efficienza, commerciale od organizzativa, dei clienti. Dunque, un internet analizzato in maniera spesso profonda ma presentato per lo più nel suo aspetto strumentale.

In queste due prime modalità cosa resta dell’Internet idealizzato per tre decenni da tutta una corrente libertaria e utopica? Questa idea di internet sembra perdere spazi, pressata com’è dall’ambizione dei grandi operatori, dal pragmatismo delle società di consulenza e dall’indifferenza dei supposti guru. La pervasività commerciale dei grandi operatori, l’estrazione dei dati dagli utenti e la messa a valore dei loro contenuti e dei loro comportamenti, il modellamento delle realtà informative di singoli e intere comunità, la trasformazione dei rapporti sociali dovuta alla scomparsa di intere categorie professionali, lo sviluppo di agenti artificiali che incideranno sempre di più nell’ecosistema digitale, la progressiva atrofia di certe funzioni cerebrali esonerate dall’attivarsi grazie alle funzioni di un comune smartphone sono temi che i supposti “guru” non toccano e le grandi società evitano.

Le distopie del digitale

In questo senso il recente intervento di Tim Berners-Lee evidenzia come la grande prospettiva di un web egualitario e promotore di un pensiero libero di accedere a un massa sterminata di informazioni si stia stemperando in un ambiente in cui l’utente è sottoposto a controlli invasivi da parte di Stati o di imprese private, a contenuti che creano una post-realtà senza significato, a sollecitazioni commerciali meglio definibili come manipolazioni, a uno sfruttamento inconsapevole della sua produzione cognitiva.

Il populismo di fasce sociali sempre più emarginate da dinamiche sociali reali di cui tante volte si accusa il web di alimentare non è che una conseguenza dello smantellamento delle filiere produttive e relazionali tradizionali operato dalla tanto celebrata digital disruption.

La terza modalità è proprio quella di un pensiero che si pone criticamente rispetto alle conseguenze della digitalizzazione. Si tratta di un’ampia lista di autori che ci hanno offerto in questi anni una visione sanamente problematica e profonda di internet e del digitale è lunga e vanno almeno citati (non per importanza) Jaron Lanier, Nicholas Carr, Evgeni Morozov, Eli Pariser, Manfred Spitzer, Andrew Keen.

Rispetto all’ottimismo di maniera di tanti web marketing guru ci troviamo qui nel mondo del dubbio, dell’inquietudine, della distopia. Ma ritengo che proprio un eccesso di idee ottimistiche abbia creato alcuni dei problemi di cui oggi si dibatte. L’idea che una trasformazione epocale di ogni ambito dell’umano potesse essere gestita come l’ingresso di un nuovo media nel mercato della comunicazione (per nulla libero, tra l’altro). L’idea che le libertà degli individui siano tutte uguali. L’idea che la digitalizzazione fosse un salto tecnologico capace di creare nuovi posti di lavoro in numero equivalente a quanti ne distrugge. L’idea del messianesimo tecnologico capace di risolvere le disfunzionalità degli esseri umani.

A chi accusa gli autori che raggruppo in questo approccio di essere degli apocalittici digitali, rammento che vi era molta più insofferenza verso il monopolio del software, pieno di bachi, di Microsoft negli anni Novanta che oggi rispetto al monopolio della conoscenza e della consapevolezza che alcuni grandi attori della rete hanno, almeno in parte, già insediato.

I tempi della trasformazione sono talmente rapidi e la trasformazione stessa così radicale che credere che la società globale riesca a trovare un nuovo equilibrio da sola come ha fatto di fronte ad altri salti tecnologici (in secoli di adattamenti e spesso attraverso vere tragedie) è meno ingenuo che pavido dal punto di vista intellettuale e politico.

Pensare il senso e le possibilità del digitale

Erasmo da Rotterdam era entusiasta della tipografia del suo amico Aldo Manunzio e di certo non intendeva negoziare il processo di produzione in serie dei suoi libri. Allo stesso modo quando è stata introdotta l’elettricità nessuno pensò che bisognava fondare una filosofia dell’energia elettrica. Internet non è (solo) una tecnologia, da accettare, rifiutare o da negoziare. Internet, inteso come vettore del processo di digitalizzazione del mondo, è l’epitome del nuovo mondo in cui vivrà l’umanità essa stessa trasformata da tale processo. E allora la domanda da porsi è: quando profondamente si è finora riflettuto su internet e sul digitale?

Si entra in un campo in cui gli strumenti tradizionali della riflessione filosofica aiutano ma non sono esaustivi. Una certa competenza tecnica, ovvero la conoscenza di come funzionano codici, algoritmi, programmi eseguibili e applicazioni, è essenziale per poterne comprenderne l’estensione, l’impatto e gli effetti. È vero che spesso non è l’ingegnere che comprende l’impatto sulla società di una tecnologia di sua competenza, ma la complessità di tale impatto non può essere compresa pienamente se non si acquisiscono almeno parte delle competenze tecniche dell’ingegnere. Una tecnologia può essere indirizzata quando si riescono a capire le categorie concettuali che essa impone e le sue implicazioni.

Tra chi ha compreso che internet non è un tubo possiamo annoverare Pedro Domingos, Benjamin B. Bratton, Ramesh Srinivasan, Luciano Floridi, Byung-Chul Han, Lawrence Scott, Jerry Kaplan, Cosimo Accoto.

Dunque la riflessione generale sulle categorie di pensiero, le trasformazioni sociali e la stessa consapevolezza di sè che introducono e a volte impongono internet e il digitale non è qualcosa di astratto, speculazione teorica guardata con sufficienza dagli idraulici del web, che dovrebbero sapere come il benessere economico degli idraulici sia il risultato indiretto anche degli studi di chi si è impegnato nella comprensione della fisica dell’acqua.

L’attuale crisi della politica è frutto di un deficit di comprensione delle implicazioni della trasformazione digitale. Come evidenzia Jerry Kaplan nel suo Humans need no apply: “Al momento il dibattito pubblico manca di concetti e di esempi che descrivano adeguatamente cosa sta succedendo a causa dell’accelerazione del progresso tecnologico, e dunque tanto meno può guidarci a soluzioni ragionevoli”. La politica quindi non offre soluzioni perché spesso non riesce nemmeno a definire chiaramente i problemi dell’epoca digitale: il populismo identitario e il tecnocraticismo elitista sono materiali di risulta emergenti dalla demolizione delle proposte politiche novecentesche nel nuovo scenario creato dalla diade globalizzazione-digitalizzazione.

Questa quadruplice ripartizione delle modalità di comprendere e usare il digitale vuole dunque essere meno una graduatoria di qualità quanto un modesto appello: stiamo rischiando di entrare troppo rapidamente in un mondo per il quale non abbiamo ancora costruito i concetti e le parole adatte a comprenderlo e a viverlo.

A differenza di quanto proclama qualche assertivo web marketing guru, rischiamo di perdere ben altro che qualche succoso cliente o la svolta della carriera: quel che credevamo di sapere su noi stessi.

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Riferimenti bibliografici:

Ramesh Srinivasan, Whose Global Village: Rethinking How Technology Shapes Our World, New York University Press, 2017

Benjamin B. Bratton, The Stack, The MIT Press, 2016

Luciano Floridi, The Fourth Revolution How the Infosphere Is Reshaping Human Reality. Oxford University Press, 2016.

Lawrence Scott, The four-dimensional human, Windmill books, 2015

Alex Pentland, Social Physics: How Good Ideas Spread, Penguin Books, 2014

Pedro Domingos, The Master Algorithm: How the Quest for the Ultimate Learning Machine Will Remake Our World, Basic Books, 2015

Jerry Kaplan, Humans Need no Apply: A Guide to Wealth and Work in the Age of Artificial Intelligence, Yale University Press, 2015

Jaron Lanier, Who owns the future?, Simon & Schuster, 2013

Nicholas Carr, The Shallows: what Internet is doing to our brains, W W Norton & Company, 2010

Evgeni Morozov, To Save Everything, Click Here: The Folly of Technological Solutionism, Public Affairs Books, 2014

Eli Pariser, The Filter Bubble: How the New Personalized Web Is Changing What We Read and How We Think, The Penguin Press, 2011

Manfred Spitzer, Cyberkrank! Wie das digitalisierte Leben unsere Gesundheit ruiniert, Droemer Verlag, 2015

Andrew Keen, The Internet is Not the Answer, Atlantic Monthly Press, 2014

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