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My personal e-guru

Algoritmi Il mondo immateriale

My personal e-guru

Happify promette di migliorare la tua esistenza e di accompagnarti alla felicità. Ogni giorno, ad orari prestabiliti, la app ti inviterà a intraprendere azioni, letture e attività per farti diventare una persona migliore. Ogni due settimane procederà a una verifica del tuo punteggio di felicità, ponendoti domande su quante volte sei stato gioioso nell’ultimo mese, sulle cose che ti gratificano, sulla tua capacità di porti in maniera positiva nei confronti degli altri e dei fatti della vita.

Anna, un digital coach virtuale basato sull’intelligenza artificiale, affiancherà il tuo percorso, ponendoti costantemente domande sui tuoi stati d’animo, le tue aspirazioni, la qualità della tua esistenza. In base alla tua disponibilità a rispondere, si spingerà a chiedere anche informazioni sulle persone vicine a te, sui tuoi figli (anche se sono tuoi o no), sul tuo partner, sulla loro età, sulle loro caratteristiche, sui problemi o sulle malattie che stanno affrontando.

Inoltre, un lungo questionario consentirà alla app di valutare la tua personalità in base alla teoria dei 24 punti di forza. La app saprà così informazioni sulla tua personalità profonda, sulla tua autostima, sul tuo modo di vedere gli altri ed essere empatico, sulla tua sensibilità verso la natura o l’arte, se sei credente o no, sul tuo conformismo o sulle tue originalità, sul tuo senso di appagamento e sulle sfide cui ancora tieni, sui tuoi valori e amori, sulle tue abitudini e le tue curiosità, sulle tue paure e le tue passioni, sulle tue pigrizie e le tue perseveranze, sulla tua spiritualità e e i tuoi interessi materiali, sulla tua capacità di gestire le relazioni sociali e le tue insicurezze, sulle tue capacità di ascolto e le tue attese verso gli altri, sul tuo autocontrollo e le tue passioni irrinunciabili, sulla tua capacità di aiutare gli altri e i tuoi risentimenti, sul tuo autocontrollo e le tue indulgenze, sulla tua equanimità e la tua modestia, sul tuo umorismo e sulla tua capacità di perdonare, sulla tua razionalità e le passioni, sui tuoi entusiasmi e i tuoi dubbi, sulla tua assennatezza e le tue indulgenze, sulla tua capacità di manifestare e sentire amore. 

Al termine del test potrai leggere l’intero rapporto sulla tua persona abbonandoti alla versione premium della app per soli 149 dollari all’anno. 

Mentre Happify fa leva sulla tua curiosità verso te stesso, The Fabulous, un’altra celebre app, ti guarda dal futuro: il tuo io di qui a dieci anni si congratula con te/sé per aver scelto la app versando 43 euro anticipati annuali, garantendoti di essere diventato una persona in salute, in grande forma e senza preoccupazioni grazie alla decisione odierna di addebitare la tua carta di credito. 

Di lì in poi l’app ti indirizzerà verso tutta una serie di buone pratiche, quali bere un bicchiere d’acqua e fare esercizi di stretching la mattina appena sveglio, prepararsi una colazione nutriente, dedicare dieci minuti alla meditazione e così, abitudine dopo abitudine, disciplinare il tuo essere in funzione di quello che la app considera il tuo benessere. 

La app Make Me Better è più pratica (o meno ipocrita): offre una raccolta di testi per migliorarsi, inclusi titoli come “12 Psychological tricks to Manipulate People’s Mind”, “Live a Life Free of Compromises”, “How to Make Anyone Instantly Like You” “How to control Anger” “10 Little Things that Can Change Your Life”,  il tutto in articoli di non più di 2.000 caratteri. 

Molti potrebbero sorridere di fronte alla ingenua banalità di questi consigli. Ma il mercato delle app dedicati al benessere personale (tecnicamente mHealth Apps) è in pieno boom. Headspace, la più celebre app per la meditazione e la mindfulness, è stata scaricata da non meno di dieci milioni di persone. Fabulous è stata scaricata oltre 5 milioni di volte, GrowApp, Make Me Better e Deepstash oltre 1 milione, Happify registra oltre mezzo milione di download come anche HabitHub, Remente, My Affirmations e via via. 

Nel 2018 il mercato globale delle app mHealth era stimato valere 12,4 miliardi di dollari di cui un terzo sviluppato negli Stati Uniti, con una crescita composta futura (CAGR) del 44,7%: sulla base di questi dati nel 2020 il mercato ha raggiunto i 26 miliardi di dollari di valore. 

Si tratta di un mercato variegato, in cui rientrano le app per le attività fisiche e il benessere psicofisico, la cura dell’alimentazione e quella delle donne, la cura di malattie e la posologia di farmaci o la pianificazione di attività legate ad determinate malattie. È un mercato che non è sfuggito a big Pharma e tutte le multinazionali del settore hanno investito in centinaia di applications. 

Ma le app che ci interessano sono quelle del sottosegmento “LifeStyle Management”, che su scala mondiale rappresentano circa il 20% del mercato, dunque non meno di 5 miliardi di dollari all’anno che le persone in tutte le parti del globo investono per far seguire il loro benessere interiore da un app. 

Non voglio qui proporre un’analisi di mercato, dunque non mi soffermo sui termini monetari del fenomeno, quanto le sue implicazioni all’interno delle vite dei soggetti e della loro cognizione. Se l’ingenuo tecnomane si esalta nel promuovere l’ultima app che gli evita pure di ricordarsi di allacciarsi le scarpe, se l’economista e l’imprenditore lavora ai modelli di business per estrarre valore, ovvero dati, attraverso quella stessa app, noialtri vittoriani del digitale ci chiediamo se le app che promettono benessere e felicità non abbiano fatto entrare in una ulteriore fase i rapporti tra i soggetti e il comando digitale. 

Quale rapporto si sviluppa tra queste app e i loro fruitori? Quanto le vite di questi ultimi restano impigliate e condizionate dai consigli di questi e-guru portatili? Quanto il comando digitale indirizza la percezione di sé e le scelte dei soggetti? Queste nuove tecnologie digitali del sé cambieranno irreversibilmente quello che chiamiamo essere umano?

 

La cura dell’interiorità

La cura di se stessi è antica quanto l’uomo e “comporta il farsi carico della responsabilità nei confronti propria vita per tutto il corso della sua durata, il saper prendere un impegno nei confronti di se stessi, nel desiderio di modificarsi proprio in vista di questa salute dell’esistenza e del pensiero”, come sintetizza Sara Baranzoni. 

Il pensiero greco-romano ha sviluppato per primo in Occidente una serie di pratiche e di discipline interiori per raggiungere una salvezza intramondana, intesa come consapevolezza di se stessi e delle leggi della natura. “All’alba, quando ti svegli di malavoglia, scandaglia questo pensiero:Mi sveglio per compiere il mio compito di uomo; e ancora protesto per avviarmi a fare quello per cui sono nato e per cui sono stato introdotto nel cosmo? O forse sono stato fatto per restare a letto a scaldarmi sotto le coperte?”: non è una riflessione che trovate sull’app Headspace, ma nei Pensieri di Marco Aurelio.  

Negli ultimi anni della sua vita Michel Foucault spostò i suoi interessi verso l’antichità, trovandovi nelle pratiche di cura di sé elaborate dalla sapienza antica una serie di principi, di tecnologie del sé, che erano in qualche modo il punto di partenza per costruire una sorta di resistenza del soggetto rispetto alla diade potere-sapere. E, non vi poteva essere una reale e profonda cura di sé senza una preliminare autenticità nel voler scrutare il proprio io e raccontarlo senza remore. La parresìa, il parlar franco, su cui tanto si sofferma Foucault nelle sue ultime ricerche, è una dimensione che richiede il rischio della verità, verso se stessi prima ancora che verso gli altri. Non è un caso che Foucault abbia riflettuto assiduamente sul potere di soggettivizzazione di questa pratica di verità  e di autoanalisi che, assieme alla paideia e all’esempio del maestro riverito da tutta la collettività, era tra i principali percorsi di ricerca e costruzione del sé nell’età antica. 

In epoca moderna, la confessione e poi le guide e gli esercizi spirituali fanno parte di una tradizione cristiana che di certo non possiamo trattare in poche righe. Al percorso di coltivazione di una retta spiritualità e personalità si affiancavano anche i meccanismi di controllo esterno della Chiesa istituzione. Tribunali della coscienza, il classico libro di Adriano Prosperi, ha evidenziato le strategie e le tecniche di repressione, controllo e mobilitazione delle coscienze dei credenti attuate dalla Chiesa cattolica in età moderna attraverso, rispettivamente, il tribunale dell’Inquisizione, le tecniche di confessione e le missioni tra le classi popolari. Per quanto lo studio sia dedicato all’Italia, l’approccio è estensibile anche in altri paesi, a partire da quelli di lingua spagnola. In quell’epoca per la stragrande maggioranza della popolazione la propria vita interiore si sovrapponeva e si intrecciava con il vissuto religioso: interiorità e spiritualità sono due termini pressoché intercambiabili e la sorveglianza delle coscienze avviene tanto attraverso i riti collettivi (processioni e funzioni religiose cui tutta la cittadinanza era chiamata a partecipare pena il sospetto e l’ostracismo), tanto attraverso lo scrutinio non solo delle azioni compiute, ma anche delle pulsioni e dei pensieri. 

Lo psicoanalista che a inizio del secolo scorso iniziava a sostituirsi al confessore come guida alla ricerca di un equilibrio interiore, sostituendo la colpa con la pulsione, la repressione con il desiderio, forse non avrebbe mai immaginato gli sviluppi delle neuroscienze e il loro impatto sulla psicologia comportamentale. Iniziare a “vedere” il cervello in funzione ha consentito lo sviluppo di tecniche che hanno definitivamente messo in soffitta l’illusione della volontà per sostituirla con la creazione di pattern capaci di predire e modificare comportamenti e reazioni delle persone. 

 

Tecnologie digitali del sé

Per Foucault i processi di soggettivazione si basano su tecnologie del sé “che permettono agli individui di eseguire, coi propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima – dai pensieri, al comportamento, al modo di essere – e di realizzare in tal modo una trasformazione di se stessi allo scopo di raggiungere uno stato caratterizzato da felicità, purezza, saggezza, perfezione o immortalità

I tre momenti del rapporto dei soggetti con la loro interiorità che ho tratteggiato –  l’introspezione, la confessione e l’analisi – erano caratterizzati tutti da un rapporto con un maestro: rispettivamente il saggio, il sacerdote, lo psicanalista. Le nuove app di crescita personale introducono una variabile assolutamente inusitata nella storia dei percorsi di trasformazione di sé stessi: un attore digitale, basato sull’intelligenza artificiale, cui si delega l’ortopedia del soggetto nell’epoca digitale. La figura dello psicoanalista, che tanto ha caratterizzato non solo la società, ma anche le arti negli ultimi centocinquant’anni, forse è destinata a tramontare.

In questo senso siamo ben oltre il quantified self: gli apparati di rilevazione delle condizioni fisiche della persona (i wearables: orologi, bracciali, lo stesso smartphone e altri sensori) passano dall’essere giustapposti fino a diventare in qualche modo incorporati, così da poter rilevare costantemente i parametri oggetto di misurazione e controllo. Il quantified self alla fin fine sembra quasi inoffensivo nella sua intelligibilità: misuro i tuoi parametri vitali, li correggo o li curo (e li vendo a terzi). Raggiungiamo ancora in una dimensione in qualche modo esterna o almeno legata solo al corpo visto come una macchina che produce determinate prestazioni. 

Con le app dedicate al benessere ci troviamo invece in una dimensione del tutto interiore: non più la dataficazione di comportamenti dell’individuo e di eventi attorno ad esso, ma la costruzione della stessa personalità, l’indirizzamento dei pensieri, dei comportamenti, delle abitudini, dei valori. 

Per quanto certi consigli possano suscitare sicuramente ironia, le migliori app in circolazione nascono dall’unione tra l’analisi dei Big Data, l’Intelligenza Artificiale e le teorie psicologiche comportamentali più avanzate. Happify è basato sulle ricerche di Martin Seligman e Christopher Peterson, che nel loro classico testo Character Strengths and Virtues hanno classificato ventiquattro specifiche forze sotto sei ampie qualità che si ripetono nella storia e nelle diverse culture: saggezza, coraggio, umanità, giustizia, temperanza e trascendenza. Fabulous nasce invece in collaborazione con il laboratorio di economia comportamentale della Duke University guidato da Dan Ariely, il cui libro più celebre è Predictable Irrational. The Hidden Forces That Shape Our Decisions, che ha dimostrato quanto emozioni, aspettative, presupposti culturali e sociali incidono sulle decisioni “razionali” che prendiamo e come si possa anche prevedere l’irrazionalità alla base di tanti processi decisionali.  

I livelli di profilazione di queste app raggiungono un livello tale di granularità che consente un alto grado di attivazione della diade predittività/prescrittività. Nel mondo dei Big Data la capacità predittiva di uno strumento o di un ambiente è strettamente correlata alla sua capacità prescrittiva. Quante più informazioni vengono accumulate su una persona, tanto più si potranno prevedere i suoi comportamenti e le sue reazioni a determinate sollecitazioni. Le previsioni confermate aumentano la fiducia e la capacità prescrittiva di un sistema, anche di una semplice app. Prescrizione e predizione finiscono così per alimentarsi a vicenda, creando un ambiente in cui il soggetto viene quotidianamente guidato grazie alla comprensione dei suoi meccanismi profondi di scelta applicati a una massa di dati cui finora nessun neuroscienziato aveva potuto accedere. 

Il mio e-guru personale allora è ben più di uno strumento di automiglioramento. Va anche oltre il semplice controllo e la datificazione dei miei comportamenti, perché non si ferma più a rilevare il presente e a collegarlo al passato, ma pianifica e programma le scelte future. 

Se la figura classica del mentore era quella di un saggio che accompagnava il tuo percorso di soggettivizzazione, oggi non vi è più bisogno di presupporre un soggetto, perché la massa di dati accumulata verrà inquadrata nei pattern comportamentali definiti per prevedere e indirizzare le scelte della vita di quello che un tempo veniva  chiamato soggetto. 

Al mentore si sostituirà dunque l’e-guru tascabile, qualcosa, considerato come un qualcuno, che ti accompagna, ti assiste, ti fa evolvere, ti fa riflettere su te stesso, ti fa scoprire il tuo io che ha scoperto lui, ti spinge a fare delle scelte, te ne precluderà molte altre.  

 

Bibliografia

Dan Ariely, Predictably Irrational: The Hidden Forces That Shape Our Decisions, Harper Collins, 2008

Marco Aurelio, Pensieri. A se stesso, Garzanti, 1995

Sara Baranzoni, Foucault e la Filosofia Antica, Cura, esperienza e scrittura di sé, 2016

http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiaantica/baranzoni.pdf

Moreno Montanari, La filosofia antica come esercizio spirituale e cura di sé nelle interpretazioni di Pierre Hadot e Michel Foucault, 2013

Michel Foucault, Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1993

Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2003

Michel Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri (1983-1984), a cura di M. Galzigna ed F. Gros, Feltrinelli, Milano, 2011

Peterson, Christopher, Seligman, Martin E.P., Character strengths and virtues: A handbook and classification. Oxford University Press. 2004

Pablo Abend, Mathias Fuchs (eds.). Quantified Selves and Statistical Bodies in Digital Culture and Society, Vol. 2 2016 Issue 1, https://leseprobe.buch.de/images-adb/04/c9/04c9c5a8-ec19-49d0-bda2-2b2d343081e4.pdf

 

Socialità e influencers

Social minds

Socialità e influencers

E’ possibile ricostruire un senso del vivere sociale nell’epoca del capitalismo digitale? Ecco la domanda da cui parte Pablo Calzeroni nel suo denso saggio “Narcisismo digitale” edito da Mimesis Edizioni.

Come spesso accade a una certa sinistra che cerca di colmare con l’entusiasmo acritico i suoi limiti teorici, l’avvento della rete globale è stato interpretato come un grande movimento di liberazione degli individui. L’idea di intelligenza collettiva, elaborata da Pierre Levy, sembrava aprire spazi non solo per una nuova socialità digitale basata sulla condivisione e sulla collaborazione, ma addirittura consentire il superamento della crisi del soggetto: grazie alla rete si usciva definitivamente dalle aporie del rapporto soggetto-oggetto in cui si dibatte la post-modernità e si entrava in un’era in cui all’io si sostituiva un noi, un senso di appartenenza che da una parte offriva un senso all’esperienza del singolo individuo e dall’altro confermava il processo di desoggettivizzazione proprio della tecnica. Ma questo orizzonte si è rivelato altrettanto fallimentare, nient’altro che un’utopia che ha spesso legittimato gli usi e gli abusi della rete di cui oggi vi è un’amplissima pubblicistica: l’isolamento narcisistico degli individui alla base, a mio avviso, anche dell’odio online; lo sfruttamento degli utenti come meri produttori di dati; il degrado generalizzato delle capacità cognitive e dialettiche delle persone in un contesto online basato su titoli ad effetto e meme, immagini e non ragionamenti. La stessa idea di democrazia diretta digitale è la conseguenza di queste dinamiche, nel momento in cui la dimensione digitale riduce l’attitudine al confronto dialettico e sviluppa bolle cognitive autoreferenziali le quali portano a credere che il ragionamento complesso, profondo, argomentato, dai tempi di elaborazione lunghi e consapevole delle conseguenze a lungo termine sia quasi il frutto di un complotto dei poteri forti e non uno dei massimi risultati dell’evoluzione umana.

Attraverso il confronto con Lacan e Castoriadis, Deleuze e Guattari, Calzeroni dimostra che la scissione del soggetto non viene sanata dalla rete. Il soggetto, ricorda Lacan, è sempre scisso, alienato, privo di sostanza. Il soggetto è la maschera di queste lacerazioni, una spiegazione posticcia di esse e dunque “la fascinazione narcisistica può portare alla credenza che l’Io rappresenti davvero l’unità del proprio essere” (pag. 102) e il web consente, come ricorda il collettivo Ippolita, “una costruzione ossessiva del profilo pubblico” per tendere a una “pubblicità riuscita di se stesso” (pag.103).

Stupisce che Calzeroni non attinga al classico Simulacri e Simulazioni di Jean Baudrillard per approfondire questi ragionamenti. Cosa è un profilo Instagram di una “influencer” (ma anche di un qualsiasi utente) se non un flusso di simulacri? La rappresentazione/esibizione di sé esiste in quanto tale sulla piattaforma, non in rapporto a una qualche realtà. Solo gli ingenui si stupiranno nel non riconoscere dal vivo le fattezze della influencer di turno. Luci, camere, filtri, photoshop, concorrono a creare un simulacro che mentre prima era frutto dell’industria dei media (televisione o moda, per esempio), oggi è alla portata di chiunque voglia sfruttare le capacità della piattaforma e lo slittamento dell’audience verso la mera visione senza pensiero. Anche le immagini più spinte non producono spesso una pulsione sessuale maggiore di quella che produrrebbe una statua: il desiderio (altro tema fortemente investigato da Calzeroni sulla scorta di Lacan) è anestetizzato dal simulacro. Dunque il simulacro digitale non solo (per statuto, secondo Baudrillard) vela il vuoto del reale, ma ancor di più imbriglia il desiderio, che è sempre un desiderio di senso, una petizione affinché il reale esista. Ecco perché quello che viene anche definito narcisismo digitale si disinteressa della relazione con gli altri, i quali non sono che dei Like, anonimo pubblico, e al contempo, da un punto di vista politico, disinnesca il desiderio come tensione verso il reale, pretesa della sua esistenza, volontà di trasformazione.

Senza aver letto Debord o Baudrillard, gran parte degli influencer attuano un’agenda tranquillizzante, passivizzante, socialmente conformista. Con la differenza che mentre gli strali dei teorici francesi erano soprattutto indirizzati verso il mezzo televisivo e l’apparato di potere industriale e politico che lo governava, oggi le piattaforme consentono a chiunque di contribuire a rafforzare questa agenda conservatrice e individualistica di sviluppo di simulacri. Basta conoscere e accettare le logiche della piattaforma, che semmai vuole essa proporsi come una sorta di “reale”.

Bisognerebbe allora chiedersi quali siano i legami tra consumo di merci ed esibizione di simulacri di corpi e vite. Come l’io, che si riconosceva e si gratificava nel sistema degli oggetti (ancora Baudrillard), che rimaneva un altro da sé, oggi si costruisca, fingendo (da fingere, modellare) simulacri che rendono l’idea di sè ancora più solipsistica. Si tratta entrambe di risposte che la tecnica offre per rispondere al nichilismo del postmoderno ma con dinamiche estremamente diverse. Le merci piegano il desiderio a una dimensione triviale, eppure alimentandolo, lasciando aperta la porta per un’oltrepassamento di questo stesso desiderio. L’esibizione di sé unisce soggetto e oggetto, con il soggetto che si elabora come oggetto, che si fa simulacro per un’audience indistinta, globalizzata, priva di identità. In questo senso diventa più arduo se non inutile chiedersi se e cosa ci sia dietro. Non si scorge immediatamente un apparato politico di produzione, perché la produzione dei simulacri è curata da questi io che si strutturano proprio grazie ad essa.

Come sottolinea Calzeroni nelle righe finali del saggio, “la socialità nel senso più ampio del termine (e quindi non solo quella supportata dalla Rete) è la dimensione davvero mancante che dobbiamo ricostruire, pezzo per pezzo, in tutti gli ambiti della vita comune: nelle attività scolastiche, nell’assistenza socio-sanitaria, sul territorio, nei programmi di lotta, nelle esperienze affettive, e, per quanto possibile, nei luoghi di lavoro”.

Si tratta di un appello politico vero e proprio, che interroga il senso delle nostre vite nell’epoca digitale. Ma quale politica e quale socialità saranno possibili nel capitalismo digitale?

 

Bibliografia

Jean Baudrillard, Simulacri e impostura. Bestie Beaubourg, apparenze e altri oggetti, a cura di M.G. Brega, Pgreco, 2008 (edizione originale 1994)

Guy Debord, La società dello spettacolo, Bolsena (VT), Massari Editore, 2002. (testo online)

Evgeny Morozov, L’ingenuità della rete, Codice Edizioni, 2011

Giorgio Agamben, L’uso dei corpi. Homo sacer IV,2, Neri Pozza, 2014

Il corpo digitale

Algoritmi Il meglio del vecchio blog

Il corpo digitale

Il corpo digitale è la rappresentazione digitalizzata e quindi trasformata in dati computabili, trasmissibili e analizzabili della nostra interezza psicofisica. Corpo digitale non siamo semplicemente noi mentre lasciamo su internet le scie del webtracking o le tracce della nostra fruizione dei media sociali, ma è la ricostruzione digitalizzata di tutte informazioni che produciamo in tutte le nostre interazioni digitali di qualsiasi tipo, costantemente aggiornate e archiviate nella loro totalità dalle differenti piattaforme che registrano.

Il corpo digitale (segnalo il testo collettivo curato da Antonio Marturano) non è una metafora fantascientifica ma una realtà, sulla base della quale vengono compiute scelte di marketing, piani di sviluppo aziendale, progetti di ricerca, azioni di controllo sociale e repressione della criminalità. Il corpo digitale può avere una consistenza e una profondità variabile, può ricomprendere informazioni biometriche, genetiche e sanitarie molto dettagliate, può rappresentare l’insieme della vita psichica e relazionale della persona reale così come si stampiglia sui media sociali che ella frequenta, racconta di pulsioni e anche di pervesioni che la persona reale nega a se stessa ma cui cerca sfogo nelle sue navigazioni internet, segue il corpo reale nei suoi spostamenti fisici, anticipa e prevede le scelte del nostro corpo fisico e sopravvive alla sua morte. Sorta di Doppleganger creato e alimentato dagli infiniti riverberi della digitalizzazione dell’esistenza, il corpo digitale ci segue e ci precede, a volte si sovrappone a noi, più spesso è capce di trasfigurare la nostra esistenza ordinaria.

Per questo tanto più valiamo quanto più denso, multidimensionale, aggiornato e dunque rappresentabile e prevedbile è il nostro corpo digitale. In tal senso il corpo fisico perde importanza economica, sociale e politica, poiché esso risulta essere solo il sostrato più antico di una identità che trova piena compiutezza, solvibilità e funzionalità al sistema sociale in cui è inserita quando essa è innervata nel sistema digitalizzato di relazioni, transazioni e mobilitazioni proprie della società digitale.

Il corpo digitale “vale” di più di un analogico corpo fisico, poiché è dal primo che si ricava valore, mettendo al lavoro tutte le informazioni che racchiude.

Siamo ben oltre la mera messa a valore del linguaggio (ecco il classico testo di Cristian Marazzi): il valore ora sta nell’interezza delle rappresentazioni e delle tracce digitali che produciamo quotidianamente, grazie alla possibilità di registrarle e analizzarle per ricavarne costantemente informazione.

La multidimensionalità del corpo digitale ricomprende anche tutte le informazioni sulla nostra fisicità che abbiamo lasciato durante le nostre transazioni online, dalle taglie dei vestiti al numero di scarpa, la nostra biometria commerciale, come anche i nostri gusti, gli stili del vestiario che preferiamo indossare e anche i desideri che non abbiamo ancora indossato. Anzi per gli osservatori e i tutori del nostro corpo digitale i desideri, le pulsioni, le fantasie e i progetti che testimoniamo con la nostra navigazione web, i nostri Like, i nostri pin, i nostri checkin, i nostri commenti sono gli aspetti psichici del nostro corpo digitale che consentono le attività di retargeting tanto importanti per qualsiasi strategia di web marketing. Ma anche il vissuto psichico che trasferiamo nel nostro corpo digitale, quando postiamo nei nostri blog o aggiorniamo i nostri status su facebook, quando twittiamo, quando commentiamo, quando sosteniamo quella campagna e inseriamo il nostro nominativo in quella petizione online, tutte queste azioni che caratterizzano il nostro corpo digitale diventano ancora più interessanti per chi si occupa di sorvegliarlo, incasellarlo, pedinarlo nelle sue frequentazioni e attività digitali al fine di prevenire o almeno prevedere i comportamenti del corpo fisico considerati devianti.

In questo senso il nostro corpo digitale è capace anche offrire previsioni in merito alle azioni del corpo fisico. Sono un sostenitore dei No Tav Torino-Lione? Bene, se mi trovo nelle vicinanze della val di Susa (facile saperlo, se ho prenotato trasporto e pernottamento online ma anche se ho un banale geotagging sullo smartphone), magari per innocenti motivi gastronomici, il mio corpo fisico potrebbe venire fermato e identificato dalle forze dell’ordine in prospettiva della manifestazione No tav che si svolgerà di lì a poco: il mio corpo digitale ci sarebbe voluto essere, magari seguirà lo stream dei tweet, ma il mio goloso corpo fisico ha preferito quella sagra a pochi chilometri eppure, nel dubbio, il corpo fisico verrà sottoposto a controlli giustificati sulla base dei miei comportamenti digitali.

Siamo più vicini a questi scenari di quanto molti preferirebbero credere.

Il lavoro cognitivo

Il meglio del vecchio blog

Il lavoro cognitivo

Certo, dire che viviamo nella società e nell’economia della conoscenza è diventato uno slogan talmente triviale da essere usato persino dai politici italiani.
Eppure i contorni di questa definizione sfuggono anche agli studiosi più profondi. È questa l’impressione che si ricava dopo aver letto “Knowledge working”, il libro a cura di Butera, Bagnara, Cesaria, Di Guardo che prova a fare il punto su una galassia in continua dilatazione.
La definizione che dei lavoratori della conoscenza danno gli autori è la seguente: “(coloro) che operano su processi immateriali per i quali la conoscenza è il principale input e output di processi di lavori, che impiegano diversi tipi di conoscenza per svolgere il lavoro. Il loro processo di lavoro, cioè, ha per oggetto non materiai e informazioni, ma conoscenze (…)” Lascio correre l’italiano stentato dei docenti universitari e mi chiedo: premesso che oggi nessun mestiere è privo di una componente cognitiva (pensiamo all’operazioni di facchinaggio e trasloco che richiedono un certo know how nella manipolazione dei pezzi, oppure alle attività di pulizia urbana che richiedono coordinamento, progettazione e capacità dell’operatore di differenziare i diversi materiali, tanto per dirne due) così come pochi lavori hanno una compnente meramente speculativa, cosa significa che la conoscenza è il principale input e output di certi lavori? La definizione è talmente vasta che gli stessi autori fanno rientrare tra i lavori della conoscenza un elenco sterminato tra i quali: scienziati, ricercatori, insegnanti, professionisti, parlamentari e burocrati, imprenditori, dirigenti e quadri, professionals nei settori più disparati (informatica, marketing, comunicazione, finanza, tributaristi, ecc.), venditori qualificati (quali sarebbero i non qualificati?), artigiani, conduttori di impianti, operai e impiegati qualificati (ancora: chi definisce i non qualificati?). Gli stessi autori si chiedono se valga la pena identificare una categoria di lavoro così estesa e si rispondono indicando ancora una volta una pletora di caratteristiche comuni a questi lavoratori. Ma evidenziare delle comunanze di attributi non significa definire in automatico le caratteristiche essenziali di una nuova categoria: il fatto che l’uomo e la papera siano entrambi bipedi non ci porta a considerarli simili, così come il fatto che un animale è mammifero e l’altro è oviparo è di certo una demarcazione ma non la più importante tra le due specie.
In realtà economia della conoscenza o società della conoscenza sembrano oggi più dei termini-ombrello che fanno tanto tendenza, che definizioni capaci di farci leggere meglio le trasformazioni nel mondo del lavoro. Ma gli autori hanno voluto proseguire in questo modo, con un approccio a tentoni e qualche contributo di riepilogo veramente poco innovativo come quelli di Bagnara e Butera nella seconda parte, per proporci alla fine cinque esperienze del tutto eteroclite: un’azienda di soluzioni tecnologiche (Loccioni), una di microchip (ST Microelectornics), l’ambito scolastico in genere, la scuola di restauro della Venaria Reale, un team di medici di terapia intensiva.
Ok, tutte realtà che lavorano con la conoscenza ma la domanda è: se nella società e nell’economia della conoscenza tutto è (banalmente) conoscenza quale è la cassetta degli attrezzi che ci aiuta ad affrontare le sfide di questo nuovo contesto sociale e lavorativo? Gli autori non danno risposta.
Da parte mia propongo di cambiare del tutto approccio. I lavoratori della conoscenza non sono una categoria, per quanto vasta ed eteroclita, da studiare con gli strumenti tradizionali, un po’ come fecero con i lavoratori autonomi della seconda generazione Sergio Bologna e Andrea Fumagalli. Al contrario l’uso della conoscenza è la forma che assume il lavoro (a fortiori, tutti i lavoratori) all’interno della società della conoscenza. Quindi, non una categoria ma una forma, anzi la forma del lavoro che caratterizza la nostra epoca.

La dilatazione delle categorie proposte dagli autori del testo indica nient’altro che lo Charlot di Tempi Moderni (1936!), l’operaio-macchina ingranaggio dell’organizzazione taylorista, non esiste più da tempo. Gli stessi autori sembrano tralasciare volutamente tutte le innovazioni che nella stessa fabbrica sono state apportate dalle teorie ohniste-toyotiste. E anche la stessa Fiat di Melfi potrebbe dimostrare come la messa a valore del dispositivo cognitivo-linguistico degli stessi operai di base è un fatto assodato (e sull’argomento ha scritto parole fondamentali oltre dieci anni fa Cristian Marazzi). Eppure gli autori si ostinano a ragionare per categorie professionali, e, non riuscendo più a individuare una frontiera certa tra lavoro materiale e cognitivo (perché semplicemente non c’è più), finiscono per aggiungere all’infinito nuove categorie lavorative “cognitive”.
Ma definito questo punto si apre un altro ragionamento: se l’uso a vari livelli della conoscenza è la forma del lavoro contemporaneo, quale è la demarcazione tra le varie attività lavorative la quale riesce a identificare anche una strategia di definizione e di valorizzazione dei diversi lavori?
A tal riguardo l’intervento di Enzo Rullani è quello più illuminante. La distinzione tra innovazione e conoscenza ci aiuta a determinare meglio lo scenario in cui oggi si lavora.

Possiamo dunque affermare che tutti i lavori sono cognitivi. E questo non implica che se tutti lo sono, nessuno lo è davvero, perché ogni lavoro è inserito in una filiera cognitiva a intensità maggiore o minore. Ma la domanda da porsi diventa: chi sono i soggetti e i processi che producono maggiormente innovazione, ovvero valore? Enzo Rullani, nel saggio “L’economia della conoscenza e il lavoro che innova” sempre nel volume “Knowledge working” distingue tra conoscenza e innovazione. L’innovazione rompe un equilibrio (o stasi) cognitiva, la conoscenza alterna propagazione (l’insegnamento, ad esempio) e nuove conoscenze.

Come nasce e come si afferma un’innovazione? Ancora manca un saggio che provi a fare la biografia di alcune innovazioni, a capire come, dopo aver avuto l’intuizione giusta, i vari innovatori hanno difeso e diffuso le loro acquisizioni, e quali contesti sono stati più recettivi o più ostativi verso l’innovazione.

Come una società promuove modelli di innovazione? L’insieme di variabili è ampio: tra i quali di certo contano l’educazione diffusa, gli investimenti in ricerca pura ed applicata, l’anticonformismo (Richard Florida la chiama Tolleranza) inteso come capacità di accettare e sostenere percorsi e approcci eterodossi negli ambiti più vari. Rullani evidenzia la triade accesso-uso-moltiplicazione: non si innova se non c’è accesso diffuso alle conoscenze, capacità di utilizzarle e di moltiplicarne gli ambiti e le occasioni di applicazione. Ma nello scenario attuale l’Italia ha troppe imprese che hanno sfruttato il capitale sociale circostante senza investire in capitale intellettuale.

Vi sono dei meccanismi di innovazione riconosciuti e valorizzati da secoli, come i brevetti. Certo, non tutti i brevetti producono un valore capace di ripagare la lunga filiera cognitiva, relazionale e sociale che li ha resi possibili., Ma di certo all’incrementare del numero dei brevetti aumenta anche la probabilità che essi producano un valore significativo e prolungato nel tempo. Accanto ai brevetti vi sono tantissime altre innovazioni meno definite, più fluide che attraversano tutti gli ambiti professionali. L’innovazione di un idraulico può dargli un vantaggio competitivo sui suoi colleghi di zona per un periodo di tempo ma il contesto attorno riuscirà a garantirgli risorse economiche e competenze per meglio elaborare e magari sviluppare a livello industriale la sua intuizione? Oppure, come tante innovazioni isolate, rimarrà un vantaggio temporaneo, dal fiato corto e destinato a venire imitato da tutti?

I paesi e i territori vincenti nell’economia della conoscenza sono quelli capaci di sviluppare in maniera più frequente e intensa processi di innovazione.

Una politica per l’innovazione dovrebbe partire dalla detassazione di tutti gli investimenti in formazione, ricerca e sviluppo, sia a livello aziendale che a titolo personale. Investimenti detassati, sgravi sui contributi per tutte le assunzioni a tempo indeterminato di personale impiegato negli ambiti di ricerca e sviluppo di prodotto come in quelli legati alla comprensione dei mercati (analisi, comunicazione. distribuzione), riduzione dell’Iva al 4% per tutti i corsi di formazione. E l’elenco è talmente lungo che invito i lettori a integrarlo.

L’innovazione non è frutto di una botta di culo, ma di una strategia che non definisce a priori i risultati finali ma che sa creare in maniera efficace le condizioni di base affinché questa avvenga.

Ma la classe dirigente italiana da tempo ha perso la capacità di elaborare delle strategie di sistema.

Noi, le sinapsi del biocapitalismo

Il meglio del vecchio blog

Noi, le sinapsi del biocapitalismo

Come abbiamo detto già altre volte, l’economia della conoscenza può essere interpretata anche sotto l’aspetto della dematerializzazione del processo di produzione e di distribuzione dei beni scambiati. Se si lavora con beni immateriali non c’è più bisogno di concentrare macchine e lavoratori sotto lo stesso tetto, la fabbrica o l’ufficio, immobilizzando spesso enormi capitali. Si può lavorare in remoto, connessi alla rete e produrre on demand, solo quanto vi è domanda ed esattamente quanto richiesto dalla commessa. Ma questo concetto è diventato patrimonio comune e vado oltre.

Forse si coglie meno il fatto che tutti i soggetti inseriti in un contesto socio-economico dove predominano scambi di beni immateriali finiscono per diventare, in maniera cosciente o meno, meccanismi produttivi o almeno veicolatori di senso e di informazione, ovvero delle materie prime dell’economia della conoscenza. Come professionisti titolati o anche solo per pochi minuti al giorno, chiunque finisce per essere parte del ciclo continuo e sincrono di produzione-veicolazione-consumo di senso. In questo senso ognuno di noi è come se fosse una grande, unica sinapsi di un sistema che funziona da sempre in maniera naturale (la società e i suoi valori), da cui recentemente si estrapola valore monetario (economia della conoscenza) attraverso innanzitutto il sistema dei media, sia di massa che sociali, e del quale sempre più distintamentemente emergono raffinati modelli di sfruttamento (biocapitalismo).

Non si tratta dunque di rivangare la contrapposizione marxiana tra mondo della produzione e mondo della riproduzione e neanche di evidenziare le derive autoritarie insite nei media di massa su cui riflettevano i francofortesi. Oggi il vissuto e l’identità vengono messi a valore, e i media sono un sistema di produzione e induzione di senso che consente in molti casi (ma non sempre e non in automatico) di indirizzare il cervello sociale verso la produzione di valori e senso successivamente monetizzabili.

Le aziende vincenti oggi sono quelle che riescono a sfruttare il cervello sociale, ovvero quelle capaci di ottenere valore monetizzabile facendo lavorare per loro (quasi sempre in maniera inconscia) le sinapsi sociali che noi rappresentiamo. La forza dirompente del biocapitalismo non sta (solo) nel brevettare la materia vivente, ma propriamente nello sfruttare relazioni e vissuti che l’interazione tra le persone ha sempre prodotto spontaneamente.

Come gli scienziati da decenni possono produrre insulina di sintesi inducendo la produzione dell’ormone da parte del batterio Escherichia Coli attraverso la tecnica dei DNA ricombinante, così il biocapitalismo utilizza i media per indurre una certa produzione di senso nel cervello sociale.

Vedersi come sinapsi forse non gratifica molto, ma ci permette sempre di ricordarci che di fronte alla pluralità di sollecitazioni che riceviamo noi restiamo liberi di accenderci o spegnerci, al di là della forza dello stimolo ricevuto.

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