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L’intellettuale twittarolo

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L’intellettuale twittarolo

Cosa implica vivere in un mondo twitterizzato?

Fino a un decennio fa il media di massa televisione era la distrazione e lo sfogo delle pulsioni dei meno colti. L’intellettuale non guardava la televisione, anzi, millantava addirittura di non avere il televisore in casa.

Oggi invece l’intellettuale al passo con i tempi è non solo sempre connesso ma cura anche con costanza le sue interazioni su facebook e soprattutto su Twitter. Un intellettuale che non è su Twitter è come un intellettuale che dieci anni fa non partecipava al dibattito pubblico dalle colonne di quotidiani e riviste o attraverso le relazioni ai convegni o gli incontri con gli studenti: ovvero irrilevante, pressoché inesistente.

Oggi devi esserci su Twitter. E per esserci devi twittare con costanza e quando non hai contenuti tuoi da diffondere devi ritwittare cose di altri, possibilmente sempre interessanti o almeno curiose, capaci di generare traffico. Eppure, un recente report di hubspot dimostra che molti di coloro che fanno retweet nemmeno leggono quello che vanno a diffondere: lo fanno per simpatia, per intuito, per ansia di visibilità, magari semplicemente perché scatta in automatico il ditoo indice sul telefonino, senza pensarci. E non mi stupirei di scoprire che a fine giornata pochi ricordano cosa hanno ritwittato, soprattutto tra coloro che sono “ritwittatori” seriali.

Il cervello umano, potenzialmente è capace di processare 400 miliardi di bits di informazione al secondo, si trova oggi al centro di flussi di informazione di cui potrebbe percepire solo la scansione senza comprenderne il valore.

Gli intellettuali al contrario hanno sempre lavorato sulla lunga durata cognitiva, sulla capacità, affinata in anni di studio, di sedimentare le informazioni e ricavarne sapere. La differenza storica tra un intellettuale e un giornalista risiedeva proprio in questa diversa velocità, che consentiva al primo di concedersi il lusso della riflessione e della contestualizzazione colta rispetto al secondo costretto a rincorrere il fatto bruto del momento.

Cosa succede se anche coloro che hanno strumenti di analisi raffinati che si sviluppano in tempi lunghi si fanno prendere dalla foga della visibilità del momento? Perché tanti presunti uomini di cultura non colgono i limiti dei media sociali quando si tratta di elaborare e presentare messaggi più complessi? Un mondo che si racconta in 140 caratteri è un mondo frammentato, in cui anche la cultura rischia di esserlo.Insomma, sta emergendo una nuova figura, l’intellettuale twittarolo, uno che compulsivamente agita le dita sul suo tablet o telefonino, ricercando il retweet, la citazione, l’accumulo di follower. Oramai sono aperte disfide all’ultimo click: come ironizzavo nel precedente post, il blogger come il giornalista di fama come l’intellettuale free lance (ovvero: un tanto al chilo e parlo di tutto) sono oramai attentissimi a pesarsi non in base alla qualità di quanto si scrive o dei contenuti che si sanno trovare e diffondere ma in base al numero di like e di follower, parametri parziali, meri numeri dei quali poco intuiamo le logiche e meno sappiamo cosa indicano (sull’argomento Stefano Besana ha scritto un ottimo post).  Dato che il personal branding è tutto, e senza di esso non si viene chiamati a nessun convegno, non si viene ingaggiati da nessun giornale e si vendono pochi libri, l’intellettuale twittarolo cura costantemente la sua visibilità online, il che implica distribuire tra i 5 e i 20 tweet al giorno. E in questa immensità di retweet s’annega il pensiero di un cervello che fino a cinque anni fa sarebbe stato impegnato in erudite ricerche di archivio e nella stesura di testi dalla scrittura solida.

Perché poi la domanda è banale quanto inevitabile: ma l’intellettuale twittarolo dove lo trova il tempo per leggere, sotto qualsiasi formato, qualche libro?

Il corpo digitale

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Il corpo digitale

Il corpo digitale è la rappresentazione digitalizzata e quindi trasformata in dati computabili, trasmissibili e analizzabili della nostra interezza psicofisica. Corpo digitale non siamo semplicemente noi mentre lasciamo su internet le scie del webtracking o le tracce della nostra fruizione dei media sociali, ma è la ricostruzione digitalizzata di tutte informazioni che produciamo in tutte le nostre interazioni digitali di qualsiasi tipo, costantemente aggiornate e archiviate nella loro totalità dalle differenti piattaforme che registrano.

Il corpo digitale (segnalo il testo collettivo curato da Antonio Marturano) non è una metafora fantascientifica ma una realtà, sulla base della quale vengono compiute scelte di marketing, piani di sviluppo aziendale, progetti di ricerca, azioni di controllo sociale e repressione della criminalità. Il corpo digitale può avere una consistenza e una profondità variabile, può ricomprendere informazioni biometriche, genetiche e sanitarie molto dettagliate, può rappresentare l’insieme della vita psichica e relazionale della persona reale così come si stampiglia sui media sociali che ella frequenta, racconta di pulsioni e anche di pervesioni che la persona reale nega a se stessa ma cui cerca sfogo nelle sue navigazioni internet, segue il corpo reale nei suoi spostamenti fisici, anticipa e prevede le scelte del nostro corpo fisico e sopravvive alla sua morte. Sorta di Doppleganger creato e alimentato dagli infiniti riverberi della digitalizzazione dell’esistenza, il corpo digitale ci segue e ci precede, a volte si sovrappone a noi, più spesso è capce di trasfigurare la nostra esistenza ordinaria.

Per questo tanto più valiamo quanto più denso, multidimensionale, aggiornato e dunque rappresentabile e prevedbile è il nostro corpo digitale. In tal senso il corpo fisico perde importanza economica, sociale e politica, poiché esso risulta essere solo il sostrato più antico di una identità che trova piena compiutezza, solvibilità e funzionalità al sistema sociale in cui è inserita quando essa è innervata nel sistema digitalizzato di relazioni, transazioni e mobilitazioni proprie della società digitale.

Il corpo digitale “vale” di più di un analogico corpo fisico, poiché è dal primo che si ricava valore, mettendo al lavoro tutte le informazioni che racchiude.

Siamo ben oltre la mera messa a valore del linguaggio (ecco il classico testo di Cristian Marazzi): il valore ora sta nell’interezza delle rappresentazioni e delle tracce digitali che produciamo quotidianamente, grazie alla possibilità di registrarle e analizzarle per ricavarne costantemente informazione.

La multidimensionalità del corpo digitale ricomprende anche tutte le informazioni sulla nostra fisicità che abbiamo lasciato durante le nostre transazioni online, dalle taglie dei vestiti al numero di scarpa, la nostra biometria commerciale, come anche i nostri gusti, gli stili del vestiario che preferiamo indossare e anche i desideri che non abbiamo ancora indossato. Anzi per gli osservatori e i tutori del nostro corpo digitale i desideri, le pulsioni, le fantasie e i progetti che testimoniamo con la nostra navigazione web, i nostri Like, i nostri pin, i nostri checkin, i nostri commenti sono gli aspetti psichici del nostro corpo digitale che consentono le attività di retargeting tanto importanti per qualsiasi strategia di web marketing. Ma anche il vissuto psichico che trasferiamo nel nostro corpo digitale, quando postiamo nei nostri blog o aggiorniamo i nostri status su facebook, quando twittiamo, quando commentiamo, quando sosteniamo quella campagna e inseriamo il nostro nominativo in quella petizione online, tutte queste azioni che caratterizzano il nostro corpo digitale diventano ancora più interessanti per chi si occupa di sorvegliarlo, incasellarlo, pedinarlo nelle sue frequentazioni e attività digitali al fine di prevenire o almeno prevedere i comportamenti del corpo fisico considerati devianti.

In questo senso il nostro corpo digitale è capace anche offrire previsioni in merito alle azioni del corpo fisico. Sono un sostenitore dei No Tav Torino-Lione? Bene, se mi trovo nelle vicinanze della val di Susa (facile saperlo, se ho prenotato trasporto e pernottamento online ma anche se ho un banale geotagging sullo smartphone), magari per innocenti motivi gastronomici, il mio corpo fisico potrebbe venire fermato e identificato dalle forze dell’ordine in prospettiva della manifestazione No tav che si svolgerà di lì a poco: il mio corpo digitale ci sarebbe voluto essere, magari seguirà lo stream dei tweet, ma il mio goloso corpo fisico ha preferito quella sagra a pochi chilometri eppure, nel dubbio, il corpo fisico verrà sottoposto a controlli giustificati sulla base dei miei comportamenti digitali.

Siamo più vicini a questi scenari di quanto molti preferirebbero credere.

Chi guadagna dal mio essere social?

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Chi guadagna dal mio essere social?

“Bisogna essere assolutamente moderni”, scrive Arthur Rimbaud nel 1873. “Bisogna essere assolutamente social”, dicono in tanti nel 2013, giusto 140 anni dopo. Ma che cosa implica “essere social”?

Nel 1979 Jean François Lyotard teorizzò, in un librettodestinato a grande fama, l’avvento dell’età post-moderna, la cui caratteristica principale era la fine delle “grandi narrazioni”, politiche, religiose, nazionali. Da allora il prefisso post è stato messo un po’ a tutto: fino a teorizzare i post-italiani e la post-nazione, di cui l’Italia attuale è (sarebbe, per gli ottimisti) un paradigmatico esempio.

Se risulta innegabile che le grandi narrrazioni politiche che hanno alimentato le opzioni sociali per gran parte del Novecento sono oggi affievolite o marginali (illuminismo, comunismo-socialismo, liberalismo), è pur vero che gli ultimi trent’anni la grande narrazione del mercato nella sua accezione neoliberista ha dominato e condizionato la scena politica e sociale. Sbagliava dunque Lyotard a ritenere che non sarebbero emerse altre idee totalizzanti, capaci di imporsi per alcuni addirittura come verità incontrovertibili. Quante persone, ad esempio, hanno rinunciato alle loro inclinazioni umanistiche e si sono adattate a crearsi una professione che rispondesse alle esigenze del mercato? Quanto la propaganda neoliberista veicolata dai mass media ha imposto certe logiche e certe retoriche ad organizzazioni come ad interi stati? Non è questa una grande manipolazione dei bisogni e delle aspirazioni simile a quella che impongono i regimi totalitari? Ancora oggi “il mercato” o “i mercati finanziari” sono usati per far accettare decisioni anche arbitrarie prese da chi queste entità, rappresentate quasi come ipostasi apofantiche, le muove in funzione dei propri interessi.

Oggi la nuova grande narrazione si chiama “social”. Siamo spinti a essere presenti sui media sociali e a interagirvi, a creare contenuti, a relazionarci con innumerevoli soggetti, il tutto per giustificare, confermare, rafforzare la nostra presenza, ovvero la nostra esistenza “social”. Come dice David Meerman Scott “on the web you are what you publish” e aggiunge: “if you publish nothing you are nothing”. Se produci contenuti interessanti creerai attorno a te interesse, reputazione e forse anche possibilità di sfruttare commercialmente tutto questo. Ma le modalità che i singoli hanno di estrarre valore dalla loro identità e dai loro comportamenti digitali sono infinitesime rispetto a quanto ottengono da essi le grandi piattaforme di comunicazione come Google, Facebook e tutti i media sociali. Per essi, questo “essere social” produce valore, anche monetario, poiché viene incanalato nei meccanismi di analisi dei Big Data. Il “valore social” di un fatto, di un contenuto, di una relazione finisce per essere pari alla possibilità di immetterlo nei processi di estrazione del valore, di metterlo in connessione con altri dati e di rendere questi dati immediatamente utilizzabili per azioni commerciali o politiche o di qualsiasi altro genere purché trovino un acquirente.

Le piattaforme social sono oggi lo strumento di sfruttamento biocapitalistico della naturale tendenza sociale delle persone. In realtà, non basta che Facebook prometta di essere per sempre gratuito: tutti i media sociali dovrebbero pagare gli utenti per ogni contenuto postato, sia pure pochi centesimi di dollaro, come fa Google AdSense.

Questa spinta a “essere social” è la grande narrazione dei nostri giorni e come ogni grande narrazione finisce per condizionare le scelte e le vite di decine di milioni di persone in tutto il mondo. Ci sono ambiti professionali in cui non si può scomparire dal proprio “mondo social” per più di qualche settimana se non si vuole rischiare di scomparire nella visibilità e quindi nella possibilità di essere ingaggiati come esperti.

L’ “essere social” è dunque la socialità attraverso i media sociali e il web, con regole sue proprie e non confondibile con la socievolezza personale: un timidone può essere un social influencer nel mondo digitale.

Soprattutto l’ “essere social” ha la caratteristica di essere monetizzabile, anche quando il messaggio postato sul media sociale sembra il più intimo e soggettivo possibile.

Prendiamo il caso di due amiche che si incontrano, staccano i cellulari e parlano fittamente di scelte legate alle loro esistenze. Esse producono molto meno “valore social” di due conoscenti che su facebook sviluppano un thread di politica anche fatto di insulti. Dalla secoda situazione si traggono dati utili a tracciare una tendenza e quindi a produrre analisi e dinamiche di comportamento elettorale. Nel primo caso il contenuto, essendo non tracciato, non ha “valore social” eppure può rappresentare un momento essenziale nel rapporto tra due persone.

Dunque, così come milioni di persone in tutto il mondo nei decenni passati sono stati spinti a applicare alle loro scelte e ai loro comportamenti una logica di “mercato”, oggi milioni di persone sono spinte a ragionare in termini “social”. È un bene o un male? Non esiste una risposta univoca. Che il mercato abbia aiutato milioni di persone ad uscire dalla povertà è un fatto come lo sono anche le condizioni di sfruttamento in cui ancora vivono tante altre decine di milioni di persone a causa delle “logiche di mercato”. Quando interagiamo in termini “social” dobbiamo essere consapevoli che stiamo producendo e regalando valore a chi utilizzerà quelle interazioni. Finquando riterremo che il vantaggio che ne otteniamo è maggiore di quanto regaliamo nessuno porrà dubbi. Il fatto divertente è che quasi nessuno di noi conosce il controvalore del nostro “essere social” e veniamo costantemente persuasi che “essere social” sia un valore di per sè. Pensate, per parallelo, a come le tematiche relative alla privacy abbiano perso vigore e urgenza all’interno del dibattito pubblico mentre al contempo i sistemi di tracciamento delle nostre vite diventavano sempre più raffinati. Il sistema Prism scava nelle vitedigitali degli europei, cosa vietata negli USA: avete sentito il Garante della Privacy o il Governo italiano inoltrare una pesante protesta all’amministrazione Obama? Non solo perché ci troviamo, noi itaiani, in una posizione di minorità economica politica, ma anche perché i cosiddetti “nativi digitali” under 30 sono in genere poco sensibili verso la tematica.

Ecco, torniamo al punto di partenza: la persuasione diffusa è che “bisogna essere assolutamente social” ma siamo sicuri di sapere cosa rischiamo di perdere attraveso il nostro ”essere social”?

I comunicatori dell’immediato, gli schiavi dell’istante

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I comunicatori dell’immediato, gli schiavi dell’istante

Al professionista di marketing, di comunicazione, di pr non si chiede più solo (tra le tante altre cose) di essere competente sugli strumenti e sugli obiettivi, di sapere trasferire un sapere reale e oggettivo al cliente, di essere capace di raggiungere risultati quantificabili. I media sociali hanno imposto un’ulteriore torsione alle vite stesse dei professionisti di questi ambiti: l’obbligo costante a essere vigili senza requie, a monitorare ogni occasione per garantire visibilità a se stessi o alla propria azienda nella conversazione globale, a intervenire con spunti non banali per destare l’attenzione,l’interesse, la stima di tutti gli altri soggetti che interagiscono sul web.

Come David Meerman Scott evidenzia in questo post il focus non è più solo sulla campagna e sui risultati da raggiungere ma sullo sviluppo di un “mindset”, di una forma mentis diremo noi latini, che richiede attenzione e reattività costanti, capaci di cogliere tatticamente le opportunità che possono crearsi o di individuare per tempo i focolai di potenziali crisi di immagine o di vendite grazie a un monitoraggio continuo dell’ambiente di mercato e comunicazionale in cui si opera.

La conoscenza è diventata sempre più una commodity (o almeno tende ad essere tale, ed è giusto che sia così) e non esistono quasi più ambiti di sapere recintati. Nessuno è depositario di competenze esclusive. Un esperto bravo non disponibile oggi può essere rapidamente sostituito da un altro contattato attraverso una ricerca su google: quel punto della rete che occupi tu può essere facilmente preso da qualcun altro, come i neuroni morti vengono sostituiti da altri, più o meno vicini, capaci di esplicare le stesse funzioni.

A due dimensioni tipiche della competenza, ovvero la profondità e l’ampiezza, si va ad aggiungere la tempestività, che non è solo pronta risposta a sollecitazioni varie ma implica dare continuità alla propria presenza digitale in maniera pregnante.

In termini di impatto sui tempi e la qualità della vita siamo ben oltre la tradizionale colonizzazione della vita privata. Oltrepassare i tradizionali orari di lavoro o essere reperibili quasi h24 erano già caratteristiche, spesso lautamente retribuite, di alcune storiche categorie professionali come medici o avvocati. Ora non si tratta tanto di mandare l’ultimo tweet dal letto, il più tardi possibile, ma di sviluppare un di più di attenzione attiva che porta ad analizzare i flussi di comunicazione provando sempre a cogliere da essi uno spunto innovativo, al minimo per alimentare la propria visibilità digitale fino a cogliere un’opportunità o sviluppare intuizioni sfuggite ad altri.

Non a caso all’inizio parlavo di torsione esistenziale: chi sceglie di lavorare negli ambiti del marketing, delle pr e della comunicazione sceglie oggi una professione totalizzante, in cui il carico di coinvolgimento emotivo, di passione, di entusiasmo deve essere tale da non far nemmeno sentire come lavoro quello che è un impegno senza soluzione di continuità.

In una fase di atomizzazione professionale, in cui contiamo se riusciamo a dare un qualche contributo a una conversazione globale che comunque ci trascende, i veri privilegiati saranno coloro che potranno permettersi tempi medio lunghi di riflessione e di risposta. Tutti gli altri professionisti saranno costretti a essere schiavi della comunicazione istantanea, dell’istante sempre rincorso.

La morte del SEO e gli esperti tra le mosche cavalline

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La morte del SEO e gli esperti tra le mosche cavalline

La morte del SEO: chi tra gli addetti ai lavori non leggerebbe un articolo con tale titolo, magari accompagnando la lettura da opportuni gesti apotropaici?

E infatti il testo di Ken Krogue ha scatenato una marea di commenti e, per dirla con linguaggio da addetti ai lavori, tanto, ma tanto buzz. Va bene, + popolarità= + interventi pubblici= + potenziali clienti: bravo Ken! Ma dove sarebbe la novità?

Sono anni che si parla di marketing attraverso i contenuti e Krogue ci ha ricordato che con il recente “Penguin release” Google ha migliorato il suo algoritmo per penalizzare le aziende che utilizzano vari trucchetti di Search Engine Optimization e dare più peso ai giudizi degli utenti sui contenuti in base ai Like, ai retweet, agli Share e via socializzando.

Per Krogue i contenuti sono questione di aggettivi: devono essere “valuable” oppure “great”. Chiaro no? Peccato che il web è pieno di ottime idee dimenticate e di stronzatine diventate celeberrime. E peccato anche che il buon Krogue si dimentica di spiegarci chi, come e quando qualcuno considera grande o valido un contenuto.

E invece, visto che ci sono tanti utenti che distribuiscono in giro Like e Share e Retweet con la stessa frequenza delle deiezioni di mosche cavalline in una stalla, forse aggrapparsi a un criterio quantitativo non ci può più aiutare granché. E’ vero che in democrazia ogni cittadino vale un voto ma nel web non è così e bisogna iniziare a puntare su quegli utenti i cui giudizi o segnalazioni, per prestigio, competenza, autorevolezza e seguito, valgono incommensurabimente più che un qualche altro utente che spara un Like prima ancora di leggere un titolo solo perché lo ha postato un amico (e alzi dalla tastiera il mignolo chi non lo ha mai fatto).

Allora non si tratta neanche, come fa Krogue nella seconda parte del suo intervento, di fare la solita lista (molto statunitense) delle cose da fare per creare contenuti interessanti: quella la troviamo da anni con qualche modifica in decine di post e di libri sull’argomento (segnalo, tra i tantissimi, Content rules e Inbound marketing) e sinceramente sappiamo tutti molto bene che una ricerca può diventare una presentazione in slides come anche una infografica, così come un intervento in un conferenza può diventare un podcast o un più tradizionale articolo di rivista. Il punto semplicemente non è questo.

A mio avviso il punto è capire oggi quale è, nel settore dove operiamo, la audience esperta, ovvero le persone capaci di lanciare un tema o indirizzare un dibattito perché altre persone esperte li considerano dei riferimenti.

Disseminare il web di contenuti come se fossero secreti dei succitati ditteri è una strategia che può forse consentire di raggiungere una discreta visibilità ma che non ci garantisce un’ottima reputazione se quei contenuti, oltre che essere originali ed efficaci, non sono anche approvati, garantiti e sostenuti da soggetti realmente competenti e dal seguito altrettanto reale. Domandiamoci anche se sappiamo cercare e trovare questi soggetti competenti e se sappiamo offrire loro contenuti non ordinari.

Se i contenuti sono spesso rappresentati come ami bisogna forse iniziare a passare dalla pesca a strascico a una più selettiva, capace forse anche di proteggere l’ecosistema del web da una montante iperclonazione di contenuti banali.

Dal web testuale al web visuale

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Dal web testuale al web visuale

La comunicazione passerà sempre più attraverso le immagini? Le tendenze degli ultimi mesi sembrano confermare questa intuizione. Il recente lancio di Axis da parte di Yahoo punta a costruire ricerche sul web più basate sull’intuizione visuale offerta dai thumbnails che sulle strategie testuali che caratterizzano i motori di ricerca classici. Sul fronte dei media sociali Pinterest è il media del momento, con ritmi di espansione come nessun altro. Tumblr cresce a ritmi superiori al 200% all’anno per utenti unici e si diffonde soprattutto tra i giovanissimi. Ad un anno e mezzo dal lancio Instagram ha raggiunto oltre 30 milioni di utenti.

La preponderante fruizione di internet attraverso gli smartphones e i tablet spinge a graficizzare le informazioni mentre i testi lunghi (20 righe?) diventano marginali. Emerge un’arte del commento (Tumblr), della didascalia (Pinterest), della titolazione del link (Twitter).

Cosa implicano queste tendenze per chi si occupa tecnicamente di comunicazione ma anche per chi studia la etologia del web? Davvero tutto quello che è intuitivo, breve, cromaticamente gradevole porterà a migliorare l’efficacia della comunicazione e delle interelazioni tra i soggetti?

Umberto Eco ricordava in un suo testo come una società, come quella medioevale, che comunicava essenzialmente attraverso le immagini (delle chiese) non poteva che essere autoritaria. Aggiungo da parte mia che la dittatura del kitsch e del conformismo passa sempre attraverso immagini “belle” e “rasserenanti”. La pubblicità dopotutto da sempre lavora con immagini che provano a imporsi da sé, apofanticamente. Si tratta dunque di un meccanismo mentale non nuovo: anche il brand punta a costruire associazioni di valori e di rimandi che non hanno altro legame se non la giustapposizione visuale di immagini metaforiche.

Ma poggiarsi sulla forza metaforica che ha in sé ogni immagine può essere a volte un’escamotage per rinunciare allo sforzo di un pensiero consecutivo e quindi smentibile.

I media sociali sono per loro natura “spreadable” come dice Henry Jenkins, ovvero “diffusivi”, si estendono e si trasformano inglobando componenti eteroclite ma modellano i contenuti sulla base delle loro logiche. Un predominio attuale o futuro di forme di comunicazione digitale visuali potrebbe portare a un arretramento, forse specie tra i più giovani, della capacità di condividere critiche e analisi che tanto atterrisce le classi dirigenti di tanti paesi quando pensano alla rete. Una strategia di comunicazione aziendale centrata sulle immagini si augura, implicitamente o no, di avere dei fan e non dei soggetti interessati a coinvolgersi in una conversazione che può a volte essere defatigante. Dopotutto chiunque sa che è difficile lasciare commenti lunghi se fruisci di un contenuto attraverso un dispositivo telefonico. Non si tratta di essere banalmente apocalittici ma di prendere atto che ogni habitat digitale definisce le condizioni e le logiche del successo e del predominio in esso. Però con una sostanziale differenza rispetto agli habitat naturali, la quale consiste nel fatto che l’habitat digitale è frutto della logica di partenza quanto anche delle infinite strategie di utilizzo del media dei suoi fruitori. A tal proposito segnalo il pinboard di Pinterest dedicato al libro Timira di Wu Ming2, dove la visualità del media viene inquadrata in un indirizzo interpretativo chiaro, al di là della sua condivisibilità.

Tra web testuale e web visuale continuo a preferire un utilizzo intelligente del web.

Il marketing del gratuito e la crisi dell’editoria

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Il marketing del gratuito e la crisi dell’editoria

I contenuti trionfano e l’editoria è in crisi: sembra questo il leit motiv di questi ultimi mesi.
Oramai tutti vogliono fare marketing attraverso i contenuti. I contenuti sono diventati la merce e l’esca con cui moltiplicare relazioni, costruire reputazioni, sviluppare transazioni economiche.
E d’altra parte i dati di vendita più recenti delle testate di informazione e quelli relativi ai libri mostrano che ci si sta avvicinando a un punto di non ritorno per il quale bisognerà ripensare del tutto i contenitori di contenuto a stampa.
Le recenti riflessioni dei Wu Ming mettono poi in discussione uno dei principi dell’economia della conoscenza: ovvero che la distribuzione gratuita di contenuti basti da sola a veicolare i fruitori verso forme a pagamento della fruizione (musica gratis per costruirsi un pubblico per i concerti a pagamento, libri in download gratuito per poi portare i nuovi fan a comprare le copie cartacee).
La contrazione del potere d’acquisto di tante persone, la diffusione di tablet e smartphones, la disponibilità online di copie crackate di libri e quotidiani, l’incremento del tempo destinato alla lettura su internet per leggere email, articoli, ebook, post e tweet a discapito della lettura cartacea classica sono tutti fenomeni non passeggeri che in poco tempo hanno cambiato lo scenario in cui poteva svilupparsi la catena del valore dei contenuti. Gli anelli di questa catena del valore oggi monetizzabili, e quindi capaci di garantire un reddito a chi li ha realizzati, sono sempre di meno e sempre meno pregiati. L’accesso universale alla conoscenza sostenuto dalle logiche del copyleft e dei creative commons comportano una cessione di valore e di monetizzabilità potenziale da parte dei creatori di contenuti verso i fruitori. In cambio abbiamo una diffusione e una fruibilità di contenuti mai vista nella storia dell’umanità. Lo scambio sembra a tutto vantaggio di chi fruisce passivamente dei contenuti ma fino a che punto questo scambio squilibrato potrà esistere? Siamo già giunti dentro un’epoca in cui i creativi e i produttori di contenuti anche complessi ed elaborati dovranno rinunciare a poter mantenersi con il loro lavoro creativo? In tanti dovranno sperare in premi e varie liberalità per poter sopravvivere? Trasformare le presentazioni dei libri in happening simili a performances o concerti dove lasciare un obolo (come propongono i Wu Ming) è una strada percorribile? E per chi?

La grande contraddizione dell’economia della conoscenza è che essa sembra funzionare bene in termini di monetizzabilità solo quando la conoscenza è resa scarsa, chiusa o non accessibile attraverso contenitori, norme, licenze o software proprietari oppure quando si creano delle piattaforme (come i media sociali ma anche EBay) in cui i contenuti sono ceduti gratis dagli utenti. 
Come unire gratuità, accesso alla conoscenza e giusta remunerazione dei creatori di contenuti?
Il contenitore libro e il contenitore quotidiano/rivista (contenitori per definizione chiusi), oramai in declino irreversibile, potranno essere sostituiti non dalle loro banali versioni digitali ma da modalità transmediali capaci di unire accesso e monetizzabilità attraversando vari media e coinvolgendo molteplici fruitori?
Si riuscirà a trovare una tecnologia che, forse attraverso una semplificazione dei micropagamenti, riuscirà a fare tutto questo? Si pensi solamente a tante testate locali online che promuovono anche il giornalismo partecipativo e che potrebbero trovare facilmente un equilibrio dei conti se ogni visualizzazione dei loro articoli venisse pagata appena un centesimo. Il sistema di pagamento potrebbe essere incorporato dentro il browser.
Idee e spunti in abbozzo certo. Ma chiunque ami la conoscenza e la cultura dovrà porsi il dilemma su come continuare ad alimentarle.

Gli equivoci dei media sociali

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Gli equivoci dei media sociali

Ogni epoca ha i suoi slogan equivocati. “Bisogna assolutamente essere moderni”, dichiarava Rimbaud, intendendo una discontinuità epocale e metafisica con i modelli di pensiero e di prassi del passato. E giù invece torme di adulatori del mero progresso tecnico, acritici esaltatori di una scienza illusoriamente considerata neutra e illimitata.

Oggi “bisogna essere assolutamente digitali” (Being digital, scriveva già nel 1995 Nicholas Negroponte) e ancora di più bisogna essere capaci di essere “social”. Sì, di sfuggita ci si è ricordati che gli esseri umani sono il frutto delle loro interazioni sociali e la società Grubwithus usa il web per organizzare cene tra sconosciuti che vogliono staccare gli occhi dai loro smartphones.

Ogni epoca, insomma, ha gli equivoci che si merita. Quindi tutti oggi sui social media, con la sommessa speranza di uscire poi da essi per vivere di nuovo nel mondo delle relazioni sociali reali.

In questa fiera degli equivoci non fanno eccezioni le imprese che vogliono essere “assolutamente social”. Ma cosa si aspettano le imprese quando investono sui media sociali?

Il committente di solito è un direttore della comunicazione o del marketing che pretende di trattare l’investimento nelle social media relations come un qualsiasi investimento pubblicitario. Deve dimostrare che, nell’arco di qualche trimestre o a volte di poche settimane, quella cifra x ha prodotto quei quantificabili risultati y, z e w. E di parametri numerici al riguardo oggi proprio non ne mancano: numeri e infografiche sono fornite dalla società di consulenza in quantità strabordanti per intimorire anche il consiglio direttivo più tignoso. Quindi alla fine tutti soddisfatti: siamo stati visti tot volte su internet, siamo stati innovativi perché social (o viceversa, così è se vi pare…), magari l’agenzia di comunicazione ha ricevuto qualche premio per quella campagna grazie all’amico in giuria. Budget incrementato per l’anno successivo, incarico rinnovato.

Ma possiamo valutare l’effetto della presenza sui social media sulla base di principi nati in campo pubblicitario come quelli di costo/contatto, visibilità, notorietà, persuasione o cambiamenti del comportamento d’acquisto all’interno di un periodo definito di tempo?

Ritengo al contrario che la comunicazione sui social media debba essere innanzitutto relazionale (dopotutto gli americani da anni parlano di conversation), per cui dimentica di un ritorno economico immediato e focalizzata invece ad accrescere la reputazione e la credibilità dell’impresa e a rafforzare la fiducia e lo scambio di informazioni tra essa e il suo pubblico.

Se si confrontano i termini usati nelle ultime 2 frasi si noterà che tra l’approccio pubblicitario e quello relazionale individuo differenze semantiche alquanto profonde: alla notorietà si potrebbe opporre la reputazione; alla persuasione la fiducia; al comportamento d’acquisto immediato lo scambio di informazioni (conversazione) prolungato nel tempo.

La filosofia con la quale tutti i direttori della comunicazione dovrebbero avvicinarsi ai media sociali dovrebbe essere più simile alle attività di relazione e accreditamento che sviluppano negli anni i professionisti, i quali investono tutti i giorni in relazioni personali, in credibilità, in riconoscimento pubblico coscienti che solo attraverso azioni progressive e cumulative, confermate dai risultati conseguiti quando vengono ingaggiati, possono costruire quella reputazione professionale che garantirà loro introiti stabili. Evidente che quest’approccio non può definire metriche e parametri univoci, così come un professionista non sa mai se quel pranzo o quell’articolo porteranno dei nuovi ingaggi e quando. Ma nessuno rinuncerebbe a sviluppare contatti potenzialmente utili per la carriera o per la professione solo perché non si ha certezza di un ritorno a breve.

La comunicazione digitale sociale, sintetica, multimediale, interattiva, “real time” richiede in realtà anni per produrre risultati stabili e duraturi. Riusciranno i manager della comunicazione e del marketing a non farsi irretire da chi promette risultati sfavillanti e immediati grazie ai media sociali?

Gli equivoci, dopotutto, sono spesso frutto di scorciatoie mentali.

Precari per sempre?

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Precari per sempre?

Come e quando definire qualcuno un precario se la sua diventa una condizione di massa? E cosa significa protestare contro la precarietà in una società precaria? Oltre all’indubbio successo di comunicazione non ho capito chi erano gli interlocutori delle manifestazioni di ieri e se esse erano di natura sindacale (vogliamo più soldi e più tutele per i nostri lavori) o di tipo politico.

Le organizzazioni sindacali classiche non riescono a far presa sulla molteplicità di un fenomeno che da poco iniziano a comprendere nelle sue dimensioni, i partiti politici italiani sono poco più che cordate di potere e sottopotere costruite attorno a un leader mediatico, il Parlamento è impegnato a legiferare per proteggere Berlusconi dalle sue stesse sconsideratezze: la solitudine in cui i giovani sono relegati che veniva ieri denunciata è l’altra faccia del vuoto di una società senza idee per il futuro.

A mio avviso la questione centrale è dunque quale forma di società e quali modalità di lavoro, soprattutto intellettuale, vogliamo nel nostro futuro.

Il 6 marzo scorso Paul Krugman si è chiesto si vi è ancora una relazione diretta tra titolo di studio e reddito. Si tratta appunto del sogno spezzato di tanta classe media anche italiana, che ha fatto sacrifici per mandare i figli all’università per poi vederli sottoccupati e dipendenti dall’aiuto familiare anche oltre i 30 anni. Krugman evidenzia che da circa un ventennio negli Stati Uniti diminuiscono i lavori a reddito medio e crescono significativamente le occupazioni a reddito basso o molto alto. Per semplificare si può dire che un computer riesce a sostituire le procedure routinarie d’ufficio ma non a fare da badante o il cardiochirurgo.

Mentre Daniel Indiviglio dalle colonne della rivista Atlantic ha argomentato sbrigativamente che l’università non è per tutti, che non vi è bisogno di laurearsi in criminologia per poi fare i poliziotti e che mentre si spendono soldi studiando si perdono tante profittevoli occasioni di lavoro e di reddito, argomentazioni riprese in Italia da Marina Valensise (con il tipico gusto Barnesiano per la semplificazione brutale che ha il gruppo de Il Foglio), la questione del riordino del sistema formativo dei paesi occidentali non può essere posta solo come un costo da ridurre per lo Stato e le famiglie. Krugman evidenzia dal canto suo che vi è il dramma collettivo della perdita del potere d’acquisto dei lavoratori medi e bassi e aggiunge che bisogna garantire diritti universali come quello all’assistenza sanitaria.

Mi permetto di aggiungere che vi è anche un altro problema: l’eccesso di offerta di lavoratori della conoscenza rispetto a quanto richiede il mercato. La precarietà in certi settori è almeno in parte conseguenza di questo squilibrio. A questo dobbiamo aggiungere una scarsa consapevolezza da parte di tanti giovani che pur di entrare nei settori lavorativi cui aspirano son disposti ad accettare qualsiasi negazione dei diritti di base di ogni lavoratore. Si tratta di veri e propri lumpen-cognitari, giovani che si perdono nell’illusione che fare per benino il compitino assegnato consentirà loro di trovare un vero lavoro e con le loro scelte finiscono per azzerare la capacità negoziale e la dignità professionale di intere categorie, soprattutto nei territori estesi e dagli instabili confini della comunicazione.

D’altra parte non mi sembra che il conformismo con cui schiere di giovani hanno accettato stage a ripetizione a pochi o zero euro li abbia salvati dal precariato e da condizioni di vita che sono di povertà relativa (che sfocerebbe in povertà assoluta senza l’aiuto della famiglia). Ma il lumpen cognitario vede con supponente diffidenza le esperienze di autorganizzazione di quanti sono consapevoli della loro condizione lavorativa. E quando dopo qualche anno questi si accorge che non potrà mai andare oltre i 1000 euro mensili a termine vi sono già schiere di stagisti pronti e capaci a fare le sue mansioni praticamente gratis.

Ma allora che fare? Non si può di certo immaginare che decine di migliaia di giovani, spesso fortemente spoliticizzati, possano prendere coscienza tutti insieme e iniziare ad avanzare domani le loro giuste rivendicazioni. Dunque non è con una sindacalizzazione di massa che si affronta il problema.

Il problema a mio avviso può essere affrontato facendo passare in tutti gli strati sociali l’idea che la conoscenza è un bene comune come l’acqua o l’aria. E come bene comune ogni Stato e ogni organizzazione sovranazionale deve mettere in campo azioni e iniziative per proteggerla, accrescerla e distribuirla. Se la Unione Europea avesse voluto diventare “la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010” come recitava nel 2000 la strategia di Lisbona avrebbe dovuto escludere dal computo del deficit degli Stati membri gli investimenti e le spese in ricerca, formazione ed educazione.

Così come Keynes ha dimostrato che il mercato da solo non raggiunge mai la piena occupazione, una società basata sulla conoscenza deve essere consapevole che il mercato non richiederà mai conoscenza nei settori e nelle quantità (per fortuna strabordanti) in cui essa viene oggi prodotta e per questo devono intervenire gli Stati e gli organismi sovranazionali per promuovere progetti e iniziative capaci di mettere a valore le intelligenze oggi precarie. In questo modo si drenerà la domanda in determinati settori incrementando il potere negoziale di chi è più qualificato: laureate in archeologia o filologia classica potranno finalmente sviluppare progetti di ricerca consoni ai loro studi e non donarsi alle agenzie di comunicazione in stage gratuiti senza futuro.

Se nei tempi passati l’istruzione significava promozione dei cittadini i quali al contempo investivano su se stessi e sulla propria capacità di generare reddito, oggi il livello di conoscenza diffusa è il valore latente di ogni ricchezza che può generare una società.

Si può lasciare decidere il futuro di questo valore ai calcoli di un commercialista di Sondrio?

La televisione dei social media

Il meglio del vecchio blog

La televisione dei social media

Metto in fila tre fatti.

Il 7 ottobre Stefano Bonilli annuncia il suo addio a Facebook, denunciando (non il primo) l’invasività del social media.

Il 15 gennaio 2009 la Burger King chiude la sua iniziativa Whopper Sacrifice, che regalava un Whopper a ogni utente Facebook che cancellava 10 suoi amici, a seguito di un successo imprevisto che aveva provocato quasi 234mila cancellazioni di “amici”.

Finora (le 23.20 di domenica 23 ottobre 2011) 1457 persone su Facebook hanno messo un Like al video che su Repubblica.it mostra le ultime torture a Gheddafi prima del colpo finale.

Facebook è un luogo virtuale dove creare e coltivare relazioni con le persone, si dice. Ma relazioni di che tipo? Si tratta di relazioni lasche, che quasi sempre possono essere cancellate senza rimpianti, di scambi fortuiti e distratti di qualche riga di chat, di profili che si sfiorano e si allontanano subito dopo, di Like distribuiti senza pensarci, un gesto virtuale ambiguo che può significare approvazione, attenzione, sostegno, ringraziamento, e tanto altro senza soffermarsi molto su cosa e sul come di quel contenuto.

Potrebbe sembrare un problema legato a certe particolari modalità di fruizione ma quando un social media è fruito da oltre 500 milioni di persone nel mondo, la sua pervasività finisce per imporre o almeno per insediare le sue modalità di comunicazione e i processi mentali  suoi propri nelle abitudini di chi ne fruisce. O almeno tra i fruitori più sguarniti.

Chi ha contenuti almeno parzialmente originali coltiva il suo blog o il suo twitter ( o anche meta-social media come Storify). Chi invece non ha altro che il suo privato da esporre e sul quale tentare di attrarre l’attenzione altrui finirà per utilizzare Facebook. Dunque, Facebook sta sempre più diventando la televisione dei social media: il suo enorme seguito ha banalizzato contenuti e relazioni che vi si possono trovare. E se in televisione il film erotico o soft-core ha sempre la sua audience la pornografia del proprio privato che tanti esibiscono su facebook non è da meno.

L’ho già evidenziato altrove: come in televisione puoi fare ottimi programmi ma sempre consapevoli delle caratteristiche del mezzo e del pubblico, così anche Facebook può consentire lo sviluppo di percorsi di comunicazione meno banalizzati. Ma non è questo il punto.

Bisogna semmai riflettere se la stragrande maggioranza degli utenti dei social media si avvierà a considerare normali dei livelli di relazione ridotti a poche convenzioni e poche frasi distratte, se l’abbassamento costante della capacità di attenzione porterà tanti ad accontentarsi di coriandoli di contenuto e di significato, se il flusso di informazioni e notifiche non implicherà una generale anestesia emozionale. Così, di fronte a un dolore privato o a uno strazio collettivo le reazioni si ridurranno a qualche emoticon triste o a un incomprensibile Like.

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