Categoria: Letteratura

La stranezza che ho nella testa: Istanbul nelle vite degli ultimi arrivati

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La stranezza che ho nella testa: Istanbul nelle vite degli ultimi arrivati

Per le strade notturne di una città imprevedibile si aggira da decenni un venditore ambulante.

Se non è diventato ricco come i cugini forse è proprio perché non riesce a rinunciare a quelle passeggiate notturne in una città che sempre gli sfugge, alla ricerca di acquirenti dell’anacronistica boza e di risposte alla Stranezza che ha nella testa. Ma questo a Mevlut poco importa. Alla fine del romanzo riuscirà a dire alla città quello che ha sempre cercato di dire: una dichiarazione di amore e di accettazione del destino, che contrasta con la volitività di gran parte degli altri personaggi del romanzo.

Mevlut non ha la determinazione dei suoi cugini Korkut e Suleiman, non ha le convinzioni e l’orgoglio del suo amico Ferhat, non ha l’arroganza della bellissima Samiha, non ha di certo l’imprenditorialità di Hamit Vural e nemmeno l’intraprendenza della cognata Vediya. Dunque, almeno all’apparenza, quella di Mevlut è una storia di continui insuccessi ed equivoci, nello studio, in amore, nelle varie attività lavorative che intraprende. E anche quando realizza il sogno della giovinezza scopre troppo tardi che comunque esso non era fatto per lui. Eppure addentrandosi ogni sera nei viali e nelle viuzze di Istanbul, accolto con stupore e curiosità in tante case diverse come un personaggio emerso dal passato, il venditore di boza Mevlut riesce a non diventare uno sradicato come quasi tutta la sua famiglia allargata. La boza, la bevanda di grano fermentato, è una testimonianza di fedeltà alle origini, a suo padre venditore ambulante di yogurt, a una identità povera e rurale che chiunque arriva nella capitale cerca quanto prima di scrollarsi di dosso.

“Quando si rendeva conto che il figlio lo guardava come un sapiente che parla con la città usando una lingua misteriosa, e che era impaziente di conoscere i segreti di Istanbul, Mustafa Effendi (il padre di Mevlut) si inorgogliva e accellerava il passo” (pag.71)

Epopea minima e corale di semplici immigrati che si fanno strada per cercare il loro pezzo di benessere in una città che viene ferocemente trasformata dal loro arrivo, con il suo ultimo romanzo Pamuk cerca di leggere Istanbul dalla parte dei suoi nuovi abitanti, superando l’etichetta di scrittore della borghesia occidentalizzata.

Anche di recente sono apparsi in Italia vari testi intrisi di esotismo a buon mercato che raccontano la città dei romei o quella multietnica e multireligiosa dei sultani, ma la realtà della Istanbul di oggi è una città prevalentemente anatolica, dove negli ultimi quarant’anni si sono insediati non meno di dieci milioni di immigrati dalle regioni asiatiche della Turchia, una dilatazione urbanistica e sociale che non ha pari in Europa e in vicino Oriente e che l’ha trasformata in maniera radicale.

“Nessuno amava ricordarlo, né dirlo, ma un tempo Tarlabasi era un quartiere greco, armeno, ebreo e siriano. A Kurtulus, che era l’altro lato di una vallata percorsa da un ruscello che dalle spalle di Taksim scendeva verso il Corno d’oro e prendeva nomi diversi in ogni quartiere che attraversava – nomi ormai dimenticati da tutti perché ricoperti dal cemento e dall’asfalto – , sopra Ferokoy, sessant’anni prima negli anni Venti, ci vivevano greci e armeni” (pag. 303)

 

Se Istanbul è il racconto intimistico di una progressiva consapevolezza che si intreccia alla conoscenza e alla riflessione sulla propria città, in La Stranezza che ho nella testa Pamuk si sfida a raccontare un mondo quanto più distante socialmente, culturalmente e geograficamente dalla sua estrazione, il mondo di coloro che sostengono Erdogan come colui che li ha tratti fuori dalla povertà e dalla marginalità, che al contempo ha garantito loro l’accesso al consumismo occidentale e la promozione delle tradizioni religiose.

Il romanzo ha allusioni molto chiare alla situazione attuale turca: non credo sia un caso che il costruttore Hamit Vural provenga dalla città di Rize come la famiglia di Erdogan. Gli oltre quarant’anni di storia che attraversano le vite dei personaggi del romanzo sono dunque un’occasione per ricordare i traumi e gli abusi cui è abituata la Turchia e molto meno l’Occidente che la giudica: i colpi di Stato, le persecuzioni e le torture ai danni degli attivisti di sinistra, dei curdi e degli aleviti, la corruzione diffusa e la speculazione edilizia che sono componenti del potere dell’AK parti.

Il romanzo tuttavia non ha la complessità di impianto e di scrittura de Il libro nero o Il mio nome è rosso, ma il personaggio di Mevlut, descritto nel suo candore, nel suo ottimismo, nella sua integrità, fa sorridere e resta nella memoria. La storie degli altri personaggi scorrono facili alla lettura, con l’esplicito intento di raccontare una ordinarietà di vita e una certa semplicità di pensiero e sentimenti.

Accusato in patria di essere uno scrittore intellettualistico e orientato verso i lettori internazionali, Orhan Pamuk ha voluto sfidare a una certa critica e vincere una sfida anche con se stesso, per dimostrare di saper capire e raccontare i suoi recenti concittadini, cui guarda al contempo con sollecitudine e timore.

Orhan Pamuk La Stranezza che ho nella testa, Einaudi, 2015

Lo Scuru, un poema interiore

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Lo Scuru, un poema interiore

Nella sua analisi di “Storia dell’occhio” di Georges Bataille, Roland Barthes contrappone poema e romanzo: all’”immaginazione timida” del secondo, “che non osa dichiararsi se non sotto cauzione del reale”, il critico francese contrappone la potenza del poema, che dice “ciò che non potrebbe accadere in nessun caso, salvo che nella regione tenebrosa e ardente dei fantasmi, regione che, proprio per questo, esso è il solo a poter designare, (…) esplorazione esatta e completa di elementi virtuali”.

Leggere dunque Lo Scuru come un romanzo e non come un poema porta a incomprensioni gravi, che pure sono apparse in queste prime settimane dalla sua uscita. Valutare un testo, una scrittura, e volerlo per forza incasellare in quello che secondo un critico dovrebbe essere un romanzo (il cui successo nei secoli sta proprio nella sua natura multiforme) è meno un errore che un indizio di scarsa fiducia nella letteratura.

Poema interiore dunque, che evoca un mondo ctonio e la lotta di Razziddu Buscemi per affrancarsi da esso, pur essendone parte. Racconto di quel fondo magico che la religiosità barocca e controriformistica meridionale ha protetto dalla razionalizzazione nordica del sentimento religioso attuata dal Protestantesimo, la quale invece guardava verso l’alto per scrutare un dio tanto distante da risultare al fine inaccessibile. Il cattolicesimo mediterraneo è invece assediato dalle infinite manifestazioni di un abisso ancestrale, per difendersi dal quale ha prodotto per secoli muraglie di santini, cortine di devozioni, raccolte di effigi di antenati e di mostri, amuleti contro le potenze oscure che abitano l’anima del mondo e delle persone.

Il Signore dei Puci di Butera, con cui il giovane Razziddu ingaggia una lotta letale, è la statua di un Cristo trasformato in un mostro dalle energie ancestrali che attrae e diffonde. Solo il cattolicesimo barocco ha saputo intuire la coessenza in fenomeni religiosi arcaici di potenze al contempo salvifiche e infernali, e renderle manifeste in processioni oscure come quelle della Settimana Santa, quando il sacro ritorna buio e indistinguibile, inquietante e disperante. Una messinscena oscura, dove le statue sono illuminate da baluginii fiochi e diventano specchi mobili e allusivi di un orrore indicibile e senza fine, una oscurità tuttoavvolgente, dimensione priva di temporalità perché antecedente al tempo.

L’analessi narrativa introduce a una biografia antespettiva dell’autore verso una fuga vageggiata nei territori della propria ascendenza letteraria ideale, di una lotta interiore di Razziddu mai risolta nemmeno in punto di morte. È il legame salvifico con l’amata Rosa, la cui morte riapre l’abisso interiore del protagonista ormai anziano cui riemergono le antiche visioni, che lo spinge a proiettarsi con la fuga nella modernità nordamericana fondata sulla razionalità giuridica. Una razionalità agognata dal giovane Razziddu, lui “creatura di zolfo” per bocca della nonna, come soluzione e pacificazione dei conflitti che lo circondano, eppure dall’esito vano: “Così il ragazzo (…) decise di franare col tempo, osservare, e ancora frenare, tuculiare la macchina di legno e poi spicchiare la fisica provando a risorgere in un’altra epoca o secolo in cui la superstizione sarebbe stata debellata da Butera e un’emulsione di lucidità purissima, di giubilo, avrebbe ricreato i rapporti tra i paesano secondo una formula matematica” (pag.90); “ogni oggetto, dentro Butera, era dunque una particellare definizione del fallimento di un’evoluzione moderna” (pag.88).

L’analessi consente il racconto di un universo metamorfico dove la maga Minica invita Razziddu a non uccidere (“U cutieddu. Scappa. Non farlo”, pag. 44) e settanta pagine dopo si capirà che si tratta di una preghiera a non uccidere il suo doppio Nitto. Universo metamorfico prodotto altresì da una lingua che non è tocco di colore, ma è potenza espressiva di una personalità in fieri sospesa tra instintualità e razionalizzazione, tra fedeltà a terra e famiglia e necessario e inevitabile tradimento, tra urgenza espressiva e ordine sintattico. Dunque una lingua non folcloristica, certo di difficile comprensione, ma che traduce il magma non stabilizzato di un racconto fatto da forze violente, una lingua di cui seguire i suoni duri, estranei, come allusione di un mondo non ancora toccato da un ordine razionale della parola.

Una lingua in cui termini e costrutti in siciliano stretto rappresentano fratture della superficie linguistica tradizionale, della razionalità confortante ordinaria, geyser da dove far fuoriuscire la violenza di un conflitto interiore e e le pulsioni di un mondo arcaico, potente e spietato. Con la sua scrittura multiforme per linguaggi, registri e ascendenze letterarie, Orazio Labbate non si limita a narrare una storia, ma scava un fondo rimosso, raschia il banale dai significanti più adusati, piccona la linearità rassicurante di tanti romanzetti d’esordio.

Ecco, l’esordio. Poco ci si interroga su cosa spinga una persona a rompere la timorosità e a dire, e a dire in pubblico. Per me emulazione ed esplorazione sono le due dimensioni che sommuovono il vero talento. Se Razziddu pescatore è un fratello minore di Suttree di Cormac MrCarthy (evidenzio la passeggiata dopo il mercato delle pagine 65-66 e il deliquio delle pagine 30-31), la lingua che ha plasmato Orazio Labbate è strumento di esplorazione interiore e sociale, ardua perché il fondo che intende evocare precede la sintassi e il lessico che riordinano e nascondono gran parte del nostro io.

Lo Scuru è lotta, entusiasmo, passione, inquietudine, ricerca, fuga, delirio. Ma soprattutto ambizione di fare letteratura e di dire tramite essa una parola originale sul mondo e sull’esistenza.

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