Nemesi è uno straordinario romanzo breve dell’ultimo Philip Roth che racconta di una epidemia di poliomelite nel 1944 e dei suoi terribili lasciti, soprattutto tra i bambini.
L’angoscia della quarantena, le tragedie di morti premature, le menomazioni a vita dei sopravvissuti e il senso di colpa che comunque li accompagnerà per il resto della vita sono raccontati con una scrittura piana e implacabile come un metronomo.
Il racconto lascia una sensazione di estrema amarezza, l’amarezza per una vita che sembrava destinata alla felicità dopo un avvio tragico e che non riesce a sfuggire al suo destino di sofferenza.
Il protagonista Eugene Cantor, detto Bucky, è un ventenne forte e rigoroso, pienamente compreso e orgoglioso della responsabilità di gestire il campo estivo che fa svagare ed educa i ragazzi ebrei di Newark.
Orfano di madre e con un padre dall’etica discutibile, si erano presi cura di lui i nonni materni. Il nonno gli aveva tramesso il rispetto delle regole e della parola data, più con l’esempio di una vita semplice e lineare che con le parole.Se dovessimo trovare un aggettivo per Bucky che non usa Roth nel testo è: solido, fisicamente e moralmente. Bucky ha un unico difetto: una pesante miopia non gli ha consentito di arruolarsi, nonostante il suo fisico. Certo una mortificazione, che all’inizio della storia lo fa un po’ vergognare per non condividere con i suoi coetanei i rischi e l’onore di servire la patria americana. Ma lui ha la missione di educare e proteggere dalla poliomielite i ragazzini del suo campo. Lo immagino come un armadio umano, un po’ tozzo e con occhiali a fondo di bottiglia, che incute rispetto, fiducia e senso di protezione nei bambini. Tutto il suo impegno, la sua meticolosità, la sua sensibilità non basteranno a evitare che l’epidemia si porti via tanti bambini e ad altri rovini per sempre l’esistenza. Anzi, Bucky sarà, in parte, proprio l’untore. Non se lo perdonerà mai, e rinuncerà all’amore per punirsi fino alla fine dei suoi giorni.
Il senso di colpa, la necessità di espiare la colpa rifiutando la felicità che gli prospetta l’amore incondizionato della sua ragazza non è solo una forma di autolesionismo. Forse riemergono così anche le tare che si porta il destino di Bucky (il padre ladro, la miopia elevata): un difetto, un peccato di origine da espiare, qualcosa di profondamente ebraico.
L’oblio delle epidemie
Dunque non un libro di evasione, ma un libro che ci aiuta ad accettare l’idea che le epidemie non sono uno sfortunato caso capitato alla nostra generazione, ma parte della storia umana che hanno sempre reclamato la loro quota di morti, e di invalidi e sfregiati permanenti. La fragilità emotiva (in termini di rifiuto, minimizzazione e successivo disorientamento) dimostrata da popolazioni e classi dirigenti in tutto il mondo non è altro che la conseguenza di questo oblio.
Eppure ricordo di aver visto fino a pochi anni fa anche nel mio piccolo paese signori storpi a causa della polio che si erano riusciti a costruire una loro vita professionale ed affettiva. Ma in appena due generazioni sono prevalsi una rassicurante dimenticanza o un ingenuo senso di onnipotenza che ci hanno fatto trovare psicologicamente sguarniti davanti al coronavirus.
Non accettando più nell’orizzonte del possibile la morte per un virus aereo (nel caso dell’AIDS ci eravamo tranquillizzati col pensare che solo drogati e omosessuali corressero dei rischi a causa di determinati comportamenti), abbiamo passivamente accettato qualsiasi provvedimento che ci prometteva la scomparsa a breve del virus e la salvaguardia nostra e dei nostri cari. Giorgio Agamben lo ha posto in maniera definitiva: “Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?” Agamben ricorda poi lo sfregio dei morti senza un funerale come un fatto unico nella storia della umanità dai tempi di Antigone. Per quanto non sia vero in assoluto, perché ad ogni epidemia ogni cittadina si dotava di una fossa comune dove buttare i morti dopo averli cosparsi di calce viva, il tema merita una riflessione. Come la seconda domanda: i nostri amici, i nostri affetti, evitati perché possibile fonte di contagio. E infine la questione più profonda: la scissione, attuata dalla scienza, tra vita biologica e vita psichica e sociale, per cui come un corpo può essere tenuto indefinitamente in stato vegetativo, così un provvedimento dei governi può rinchiudere agli arresti domiciliari centinaia di milioni di persone in tutto il mondo senza sostanziali proteste. Filosofi come Benjamin Bratton hanno violentemente contestato le idee di Agamben. Già il 15 marzo il filosofo del densissimo saggio “The Stack” (non ancora tradotto in italiano) su Twitter aveva lanciato il suo anatema: “No one should listen to Giorgio Agamben again about anything at all ever again. First line of the linked essay “Faced with the frenetic, irrational and entirely unfounded emergency measures adopted against an alleged epidemic of coronavirus, …”. “Giorgio Agamben is the embodiment of why critical theory is so unbareably broken” aveva commentato un suo follower, in un paese dove i “liberal” stanno combattendo una strenua battaglia contro le minimizzazioni di Trump e la sua ansia di proclamare il suo “tana liberi tutti”.
Il governo della vita diventa più importante della vita stessa
Il punto però non è la fondatezza epidemiologica del confinamento domestico o del distanziamento sociale. Anche in Nemesi, come per qualsiasi altra epidemia prima della scoperta dei vaccini, l’unica profilassi resta rinchiudersi in casa nonostante il caldo tropicale per proteggere specialmente i bambini (e inveendo contro gli italiani untori che avevano portato nel quartiere il virus). No, il punto non è questo. E non si tratta neanche di una anarcoide rivendicazione della libertà di far quel che ci pare. L’argomento più forte esposto da ogni leader politico a difesa del coprifuoco è stato la tutela del sistema sanitario nazionale.
Appena un secolo fa la questione non si sarebbe nemmeno posta: non esisteva neanche un sistema sanitario talmente efficiente e universalistico, orgoglio e privilegio degli stati economicamente e socialmente più avanzati.
Non si tratta allora di smentire l’esistenza o la virulenza del virus pur di denunciare la violenza del potere costituito sui nostri corpi, ma di comprendere che siamo oggi al contempo preda del virus e dell’apparato burocratico che si prende cura del cittadino, o, per meglio dire, della tecnica, che si manifesta come burocrazia dell’assistenza del welfare state, sotto forma di coercizioni degli stati autoritari, attraverso il comando predittivo della logica algoritmica. La tecnica, costruita o almeno difesa nella sua ragion d’essere come una tutela e un aiuto al cittadino, sopprime i diritti del cittadino pur di perpetuarsi e accrescere i suoi ambiti.
E’ qui che emergono tutte le contraddizioni del pensiero di sinistra in questa fase di emergenza: la tutela della sanità publica e universalistica passa attraverso la soppressione delle libertà del cittadino, a partire dalla sua libertà dal bisogno, con centinaia di migliaia di persone ridotte alla fame perché impossibilitate a lavorare. Per cui si arriva al paradosso che per tutelare la vita e i diritti dei cittadini (soprattutto di coloro che devono affidare la loro sopravvivenza alla sanità pubblica), sono stati sottratti ai cittadini più fragili le basi materiali della loro esistenza. Ecco perché, planando su esempi terranei, i proclami concentrazionari del governatore De Luca che suscitano tanta ilarità e condivisioni sul web, nascondono una logica profondamente autoritaria e destrorsa, se la Regione Campania non garantisce tre pasti al giorno alle famiglie oramai alla fame.
Porre dunque la questione nei termini di un conflitto tra diritto universale alla salute e il diritto alla sopravvivenza è addirittura sorpassato. Le prerogative della tecnica hanno chiaramente prevalso sulle necessità della vita biologica.
In questo ha ragione Agamben: oggi e ancor di più in futuro, la nuda vita sarà ancora più sguarnita rispetto alle forme di comando della tecnica.
La nemesi del coronavirus.
Bibliografia
Philip Roth, Le nemesi (Everyman, Indignazione, L’umiliazione, Nemesi), Einaudi, 2016.
Tanti sono i traumi che hanno destabilizzato le convinzioni della sinistra liberal/riformista, ma uno risulta più sconfortante perché originato dall’illusione più recente: che internet, i social media, la digitalizzazione in genere potessero inverare per via tecnologica tanti valori e ideali progressisti.
Il conseguente disorientamento emerge di frequente nelle pagine de L’epoca del Capitalismo della Sorveglianza di Shoshana Zuboff (pubblicato in Italia da Luiss University Press), libro dalle grandi ambizioni ma dai risultati alquanto modesti: in esso troverete citati studi, analisi, ricerche, come anche riflessioni, indignazioni, financo nostalgie e poesie, ma non una nuova chiave di lettura del processo di digitalizzazione e dataficazione della società, dell’economia e delle singole esistenze che stiamo attraversando.
Insomma, se ancora pensate che Google e Facebook siano organizzazioni filantropiche dedite a diffondere l’informazione e a creare relazioni tra le persone per un afflato umanitario, allora il libro della Zuboff potrebbe anche aprirvi gli occhi. Se invece seguite il dibattito sul capitalismo cognitivo che in Europa è iniziato almeno dalla pubblicazione de Il posto dei calzini di Christian Marazzi (1994) e da L’immateriale di Andrè Gorz (2003), vi domanderete se erano necessarie oltre 600 pagine per raccontare che Google e Facebook estraggono costantemente informazioni dalle vite dei loro utenti per prevederne e indirizzarne le scelte.
La Zuboff definisce questo “nuovo” capitalismo della sorveglianza come “la trasformazione dell’esperienza umana in un gratuito materiale grezzo da trasformare in dati comportamentali. (…) L’interesse dei capitalisti della sorveglianza è passato dall’usare processi automatici per conoscere i comportamenti umani a usare i processi automatici per modificare il nostro comportamento in funzione dei loro interessi (…) ovvero “dall’automatizzazione dei flussi di informazione su di te alla tua automatizzazione”. Chiunque faccia marketing è ben conscio che la tracciatura dei comportamenti dei consumatori consente di predire le loro scelte future, ma la giurista di Harvard è restata talmente sconvolta da questa scoperta da lanciare una “lotta per un futuro umano alla nuova frontiera dei poteri”, come recita il sottotitolo dell’edizione originale.
In maniera meno pomposa: che ne è della libertà umana in un mondo in cui l’automazione dei processi e delle scelte finirà per mettere le vite delle persone su un tapis roulant con la direzione e la velocità già decise dagli algoritmi?
Per affrontare questo ragionamento il testo propone un’analisi abbastanza dettagliata delle strategie generali di raccolta (abusiva) e processamento delle informazioni da parte di Google e Facebook secondo lo schema Incursion-Habituation-Adaption-Redirection, in sostanza l’attacco non autorizzato a un’area (fisica o no) di estrazione dell’informazione e la successiva strategia di adattamento sociale e giuridico, facendo passare quell’attività come innocua o naturale. Piaccia o no, si tratta dell’ordinaria amministrazione per qualsiasi impresa data-driven. Naturalmente anche il corpo è oggetto della mappatura digitale (su questo ho scritto qualche nota nel lontano 2013) e ovviamente come anche le città e le singole abitazioni “smart”. Quale ambito resta avulso alla pervasività del digitale? E cosa resta della capacità di scelta dell’individuo se l’ideale del marketing è l’anticipazione delle attese del cliente e oggi la digitalizzazione ha reso questa aspirazione non solo attuabile, ma addirittura indistinguibile dai desideri delle persone, per cui non si sa se i desideri sono stati anticipati oppure l’anticipazione ha fatto esplicitare il desiderio?
La posizione della liberal Shoshana Zuboff è una esaltazione dell’individualismo contro quello che definisce il “potere strumentale” che nasce dalla modelli di previsione, nell’impresa come nella società in generale, generati dalla raccolta dei dati e dal potere di computazione. Il grande obiettivo polemico è la social physics* di Alex Pentland, la proposta teorizzata nell’omonimo libro del 2015 di usare i big data per predire le scelte individuali e collettive e dunque l’evoluzione delle società. Inorridita da queste prospettive, la Zuboff le compara alle vecchie teorie comportamentaliste di Burrhus Skinner, dimenticando che studi molto più recenti hanno dimostrato la possibilità di modificare gli stessi circuiti neuronali e non solamente i comportamenti.
La conclusione angosciata della Zuboff suona così: “Le pretese del capitalismo della sorveglianza verso la libertà e la conoscenza, la sua strutturale indipendenza dalle persone, le sue ambizioni collettiviste, e la radicale indifferenza resa inevitabile, attivata e sostenuta da tutte e tre queste dimensioni ci spinge ora verso una società in cui il capitalismo non funziona come uno strumento per una economia inclusiva e per istituzioni politiche. Al contrario, il capitalismo della sorveglianza deve essere riconosciuto come una forza sociale profondamente antidemocratica”. Insomma, secondo la Zuboff avremmo vissuto finora una virtuosa intesa tra capitalismo di mercato e democrazia, anzi il primo garantiva la seconda; il cittadino elettore era libero, grazie a un quadro abbastanza chiaro di norme che lo tutelava, di fare le scelte che riteneva più opportune sul mercato elettorale come quando sceglieva i prodotti da consumatore; il mercato era uno spazio pubblico che non arrivava a violare il privato e la proprietà privata dei cittadini. Questo paradiso in terra di libertà creato dal buon vecchio capitalismo di mercato (in cui vivono, forse, solo gli amici affluenti e liberal della Zuboff), verrebbe ora divorato dal capitalismo della sorveglianza di cui sono alfieri Google e Facebook. Una ricostruzione talmente irrealistica del prima e dell’oggi che ci fa sospettare che anche le conclusioni tetre della Zuboff siano parziali perché basate su assunti infondati.
E tuttavia il testo può essere interpretato come parte di una presa di coscienza che un’area politica culturale, che definiamo liberal/riformista, inizia a sviluppare verso gli esiti più inquietanti del capitalismo attuale. La comprensione che certe illusioni sulla digitalizzazione sono venute meno e al contempo il rischio opposto di cadere in una visione distopica, frutto soprattutto di una sguarnitezza intellettuale per capire le dinamiche tecniche della digitalizzazione.
Dal messianismo tecnologico al pensiero magico digitale
Gli strali della Zuboff, privi di una qualsiasi piattaforma politica di contrasto al capitalismo della sorveglianza, suscitano domande più ampie dell’ambito di questo testo:
Perché la sinistra liberal/riformista ha subìto per anni in maniera talmente acritica l’avvento della digitalizzazione?
Perché la sinistra liberal/riformista non ha colto, se non con estremo ritardo e spesso in forma parziale, l’impatto negativo sul lavoro, sul controllo degli individui, sui rapporti sociali in genere, soprattutto il legame stretto delle modalità di digitalizzazione del mondo con l’ideologia della globalizzazione neoliberista?
Quale è l’insieme di idee, valori e retoriche con le quali la digitalizzazione ha giustificato anche a sinistra la sua inevitabilità, nelle modalità con cui essa è avvenuta, ovvero oltre la logica statuale, nella forma datacentrica e artatamente gratuita?
La Zuboff sottolinea l’aspetto più immediato di questa fascinazione di cui i liberal sono stati vittime, ovvero il fatto che la digitalizzazione si rappresenta come un grande diffusore di empowerment degli individui, termine centrale nell’ideologia liberal, definito proprio dal dizionario di Google come “the process of becoming stronger and more confident, expecially in controlling one’s life and claiming one’s rights”. Internet e la digitalizzazione sono ovviamente capaci di dare agli individui più controllo e diritti sulle loro vite, di consentire l’accesso a un sapere sterminato, di rendere gli individui più connessi e così arricchirne il loro mondo interiore, di creare nuovi lavori, di consentire a soggetti fuori dal mainstream di far conoscere le loro qualità. Ma si tratta di una visione parziale, frutto di una storica tendenza della sinistra a vedere in ogni nuova tecnologia un’alleata per realizzare la sua agenda politica. Lo stesso messianismo tecnologico che faceva credere al Marx del 1853 che la diffusione dell’industria moderna tramite le reti ferroviarie avrebbe dissolto il sistema delle caste in India. Per la Zuboff non esiste tutta una serie di testi che da tempo hanno messo in questione con dati e analisi l’ottimismo ingenuo dei cantori di internet e dei social media come nuova alba dell’umanità. Quando evoca inorridita un nuovo collettivismo sostenuto dai social media non cita “Digital Maoism: The Hazards of the New Online Collectivism“ di Jaron Lanier risalente al lontano 2006. Quando evidenzia il potere di Google non rimanda alla Google Doctrine come Evgeny Morozov la descriveva nel 2011 in The Net Delusion. Quando si interroga sui deleteri effetti sull’agone politico dei social media non si degna di fare alcun riferimento al recente e meglio documentato Antisocial Media di Siva Vaidhyanathan. Spocchia accademica o scarso approfondimento?
Vi può essere anche una terza interpretazione, che è quella che attribuisco alla sinistra liberal/riformista: lo scandalo Cambridge Analytica e l’elezione di Donald Trump hanno provocato un effetto stordente tra i liberal, una presa angosciata di consapevolezza, un’urgenza di reazione tra gli intellettuali di quell’area politica, gli stessi che fino ad allora aveva considerato le riflessioni critiche della digitalizzazione come troppo radicali oppure inficiate da luddismo digitale. La Zuboff citagli studi di Kosinski, Stillwell e altri che dal 2011 lavorano alla predizione dei tratti di personalità degli individui usando come proxy i loro profili Twitter e Facebook. Si tratta degli studi alla base del modello di business di Cambridge Analytica, il cui celebre “scandalo” è stato per tanti intellettuali liberal/riformisti una sveglia rispetto alle loro ingenue rappresentazioni della trasformazione digitale. Per quanto non vi sia alcuna dimostrazione scientifica che il gioco “This is your digital life” sviluppato da Cambridge Analytica per profilare in profondità circa 260000 utenti di Facebook abbia avuto un impatto decisivo sull’elezione di Trump, questo shock ha fatto uscire la sinistra liberal dalla fascinazione acritica verso il digitale in cui i successi di Barack Obama, fortemente sostenuti da Google, l’avevano rinchiusa tra il 2009 e il 2017. Obama ha usato tecniche di profilazione estremamente profonde e invasive, ma al contrario di Trump ha ricevuto elogi e articoli accademici. Per quanto la politica di Trump si caratterizzi per un uso spregiudicato di fake news, le strategie elettorali di Obama sono state quanto di più prossimo agli esiti del capitalismo della sorveglianza paventati dalla Zuboff.
Ma non basta un esito politico a spiegare le persuasioni e le scelte di decine di migliaia di intellettuali e politici liberal in tutto il mondo. Il messianismo tecnologico di una certa sinistra ha fatto sembrare molte imprese per quel che non erano, oppure non ha fatto cogliere la loro radicale trasformazione verso la data extraction. Google al suo apparire è sembrata la faccia benigna e altruista del web. Non solo un’efficienza inusitata, ma la gratuità, la filosofia vagamente umanista dello slogan “don’t be evil”, l’origine californiana e i brillanti colori arcobaleno, il rapido successo, la giovinezza e la genialità dei suoi creatori: un enorme patrimonio di reputazione da sfruttare per poter poi anche accedere liberamente alle email e ai documenti di decine di milioni di persone nel mondo. Facebook e il suo mondo di amici sembrava poter allargare la rete di relazioni in un’ambiente dove tutti erano amici e si gratificavano con un Like. La forte componente narcisistica del social media (come Instagram, come Twitter, come TikTok, come tutti essi) è stata interpretata (solo) come una grande opportunità di far esprimere liberamente le persone, non cogliendo che questa libertà avrebbe significato (anche) una marea di contenuti insignificanti, fasulli o conflittuali. Non cogliendo soprattutto che la logica delle reti prescinde dalla qualità dei contenuti e ha come unico obiettivo la crescita dei nodi mediante omofilia: che un nodo della rete cresca grazie ai gattini, alle tette al vento, l’hate speech o le fake news per la rete è indifferente.
Il disorientamento liberal ha una motivazione anche di ordine squisitamente politico: caduto il muro di Berlino, i riformisti si sono trovati con una piattaforma politica fragile e a volte quasi indistinguibile da quella dei liberali. L’avvento della digitalizzazione ha rappresentato per essi l’illusione che la tecnologia potesse incrementare il benessere degli individui senza porre più la questione della redistribuzione in una fase di crescita lenta e di crisi fiscale degli Stati. Ecco perché questo entusiasmo acritico, almeno in una prima fase, per la digitalizzazione e internet: ancora una volta il messianesimo tecnologico per superare i limiti della visione e dell’azione politica. Quando poi lo strapotere degli Big 5 Tech (Google Amazon, Facebook, Microsoft e Apple) è diventato senso comune e la data extraction il nuovo paradigma del valore aziendale, la formazione umanistica di tanti intellettuali riformisti non ha permesso loro di comprendere gli aspetti tecnici del coding, del deep machine learning o, in generale, le logiche insite degli algoritmi e si è preferito polemizzare in maniera ideologica contro l’Algoritmo, traslando su questa astrazione tutte le contraddizioni della trasformazione digitale così come negli anni Settanta ogni nefandezza era attribuita al Capitale, senza spesso andare oltre gli slogan e senza studiare i processi concreti di sfruttamento. Si è arrivati così a quel che chiamo pensiero magico digitale: un’astrazione generica che spiega tutto, ma non consente di capire nessun processo concreto della trasformazione digitale.
Il capitalismo della sorveglianza è un nuovo capitalismo?
La Zuboff annuncia di aver scoperto un nuovo tipo di capitalismo che si distanzia radicalmente dal capitalismo di mercato “garante” della democrazia,ma non si accorge che è proprio il naturale esito del capitalismo di mercato a mettere in crisi la democrazia liberale. Se ieri la battaglia era contro la tendenza “totalitaria” di ogni impresa a essere monopolista nel suo settore, oggi a questa tendenza “naturale” dell’impresa si aggiunge il volume enorme di informazione sulle vite di ciascuno. Ma anche questo è un esito proprio della competizione di mercato: meglio si conosceranno i propri clienti, utenti o elettori, meglio performerà l’organizzazione.
Insomma: dall’economia dei beni a quella dei servizi per arrivare oggi a quella dei dati, l’approccio totalitario verso le fonti del suo valore (siano essi dati o materie prime fisiche) non è che l’attitudine naturale dell’impresa capitalistica verso il suo mercato.
L’evoluzione del capitalismo in base a una nuova definizione del valore e alla capacità di estrarlo grazie alla potenza di calcolo, la datificazione del mondo, computabilità e predizione come assi di interpretazione dei fenomeni, sono di certo un salto concettuale radicale ma lungo l’asse usuale del capitalismo. Ogni forma di capitalismo si basa sulla sua capacità di astrazione e di estrazione di valore. L’operaio fordista rappresentato per autonomasia da Charlot non era tenuto a sapere per cosa stesse avvitando bulloni, al contrario del modello toyotista elaborato cinquant’anni dopo.
La differenza tra un artigiano che ripara scarpe o crea liuti e un operaio è che l’operaio da solo non saprebbe realizzare un frigorifero o una pressa industriale.
Un industria mineraria, quanto di più materiale si può forse immaginare, non è fatta di raccoglitori di pepite, ma di un apparato di saperi scientifici, di tecnologie e di macchinari appositi per scoprire ed estrarre quello che ad occhio nudo non si vede. E questo vale per ogni modello capitalistico. Senza la logica di astrazione/estrazione non si avrebbe l’idea stessa di capitalismo. Un geologo vede litio e milioni di dollari dove io vedo solo montagne e pietre. Le imprese del capitalismo informazionale, biocognitivo, relazionale vedono dati dove noi vediamo pagine web e milioni di dollari dove noi vediamo soloallenamenti registrati da Fitbit. Cambia l’apparato di estrazione, non la logica capitalistica.
La giurista di Harward non coglie la sostanziale continuità delle forme del capitalismo che si sono storicamente succedute. Certo, che il capitalismo dei dati o della sorveglianza o cognitivo abbia caratteristiche uniche grazie alla potenza di calcolo e alla datificazione e alla riduzione dei fenomeni sociali ed esistenziali a computabilità e predittività è pacifico per tutti gli studiosi. L’errore della Zuboff sta nell’idealizzare un’epoca capitalistica che semplicemente non è mai esistita: se pure nel Novecento ci sono state legislazioni antitrust e a tutela dei consumatori più efficaci, esse venivano dopo decenni di tentativi falliti, quando l’apparato giuridico non si era ancora dotato di concetti capaci di cogliere gli effetti del quel capitalismo. L’accelerazione capitalistica dovuta alla digitalizzazione pone enormi problemi, di certo più grandi ma in qualche modo simili a quelli che a inizio Novecento affliggevano chi contestava lo strapotere dei robber barons.
Il capitalismo della sorveglianza non è dunque una nuova forma o un tradimento del capitalismo di mercato, ma non è che l’aspetto più evoluto della logica capitalistica.
La sfida alle piattaforme è politica
La trattazione della Zuboff è tutta incentrata sul conflitto tra i diritti dei singoli individui e la invasività delle grandi piattaforme del capitalismo dei dati. E l’esito non può che risultare inane e frustrante. Manca del tutto la dimensione collettiva, di persone che usano la rete per fare rete e per sviluppare e diffondere messaggi e modelli alternativi a quelli indotti dagli algoritmi delle piattaforme. Manca la dimensione politica, dove persone si aggregano per rivendicare i loro diritti non ciascuno per conto suo, ma in funzione di valori e possibilità più ampi dell’orizzonte dei singoli.La politica come possibilità e non come mera amministrazione del presente. E l’angoscia che manifesta la Zuboff per i rischi che corre la libertà dei singoli nasce proprio dal non comprendere che algoritmi e piattaforme ci capiscono in base ai nostri comportamenti passati e non in base alle nostre future possibilità, come dice Ramesh Srinivasan in Beyond the Valley. Così come la studiosa americana non capisce che solo la politica può tentare di sfidare la riduzione delle esistenze a dato predicibile e monetizzabile. Certo, idealizzare una sorta di buon capitalismo pre-digitale è di certo più semplice che inoltrarsi nella critica politica della digitalizzazione. Ma questa è la vera sfida intellettuale e politica dei nostri tempi.
Bibliografia di base
Ramesh Srinivasan, Beyond the Valley, MIT Press, 2019
Cathy O’Neil, Weapons of Math Destructions, Crown, 2016
Alex Pentland, Social Physics, Penguin Books, 2014
Evgeny Morozov, The Net Delusion, Public Affairs, 2011
Siva Vaidhyanathan, Antisocial Media, Oxford University Press, 2018
Cristian Marazzi, Il posto dei calzini, Boringhieri, 1993
Andrè Gorz, L’immateriale, Boringhieri, 2003
Dominique Cardon, Che cosa sognano gli algoritmi, Mondadori, 2018
Max Neufeind, Jacqueline O’Reilly, Florian Ranft, Work in the Digital Age, Rowman&Littlefield, 2018
Michal Kosinski, David Stillwell, Thore Graepel, private traits and attributes are predictable from digital record of human behavior, https://www.pnas.org/content/110/15/5802
How Obama used big data to rally voters, Technology Review, 16 Dec 2012, https://www.technologyreview.com/s/508836/how-obama-used-big-data-to-rally-voters-part-1/
How Obama wrangled data to win his second term, Technology Review, 17 Dec 2012, https://www.technologyreview.com/s/508851/how-obama-wrangled-data-to-win-his-second-term/
Obama, the big data president, Washington Post, June 14, 2013, https://www.washingtonpost.com/opinions/obama-the-big-data-president/2013/06/14/1d71fe2e-d391-11e2-b05f-3ea3f0e7bb5a_story.html
* Social Physics is a quantitative social science that describes relaible, matematical connections between information and idea flow on the one hand and people’s behavior on the other
In Italia “Capitalismo senza capitale” è meno un titolo ad effetto che una costatazione.
Ma nel libro di Jonathan Haskel e Stian Westlake non si parla di capitalisti di relazione nostrani, abili a scalare e sbranare a debito le imprese, quanto di valore degli intangibili. Tema non nuovo, perché sono almeno venti anni che si parla di quantificazione dei beni immateriali di imprese e organizzazioni, eppure la lettura del libro mostra come ancora oggi l’intero ambito resta sfumato, indistinto, pur esplorato ma con esiti sfuggenti, per quanto tutti si rendano conto che il successo di qualsiasi organizzazione non passa attraverso capannoni o tecnologie all’avanguardia se non vi sono del personale e un’organizzazione capace di trarre valore da essi.
La materia oscura dell’economia contemporanea
Quando la stragrande maggioranza delle persone fa un’acquisto o una scelta (anche elettorale) non possiede le informazioni e le competenze tecniche sufficienti per giudicare fattualmente il prodotto.
Da una valigia a un cellulare, da un paio di scarpe a un computer, sappiamo oramai bene che quello che guida l’acquisto sono elementi non tangibili, quali la reputazione del marchio, il suo stile visivo, il sistema di associazioni che attiva, al limite l’elemento quantificatorio del prezzo, che pure è un vettore simbolico. In una società dalla manualità perduta, dove tanti giovani non hanno mai conosciuto un calzolaio, anche quando valutiamo una scarpa dal tipo di suola o un pc o un telefonino dal suo processore o dalla sua fotocamera di certo non sapremmo spiegare le effettive componenti tecniche e le implicazioni di parametri fattuali che usiamo.
In realtà siamo immersi non più nel sistema degli oggetti di cui parlava Baudrillard, ma in un ecosistema cognitivo che reinterpreta costantemente i significanti oggettuali. Tutta questa produzione di idee, messaggi e contestualizzazioni è a sua volta prodotta e diffusa da milioni di lavoratori dell’intangibile distribuiti in tutto il mondo, che vanno dai consulenti di qualsiasi ambito ai designer, dagli studiosi ai programmatori fino alle figure di cura del benessere delle persone. Figure professionali che sviluppano i settori economici della comunicazione, della creatività e della conoscenza che Robert Reich definì simbolic analysts, affermando stentoreo che “In decades to come, nations with the highest percentages of their working populations able to do symbolic-analytic tasks will have the highest standard of living and be the most competitive internationally”.
I fatti stanno smentendo l’autore di “Saving Capitalism” e le economie basate su queste catene del valore simboliche non garantiscono per nulla, come qualche irredento ottimista potrebbe supporre, condizioni di vita migliori e stipendi più alti alla maggioranza di questi lavoratori, anche perché le piattaforme della gig economy consentono di affidare tante mansioni intangibili a persone residenti nei paesi dove esse costano molto poco. Come da sempre ricorda Sergio Bologna, viviamo il paradosso di una tanto decantata economia della conoscenza fondata su una estesa precarizzazione dei suoi operatori.
La vecchia catena del valore che poneva quasi a valle del processo produttivo le funzioni simboliche della comunicazione e del marketing va del tutto ripensata e dovrebbe essere scissa e analizzata in parallelo nelle sue due macrocomponenti, evidenziando come ogni fase della produzione materiale sussumi in sè molte funzioni di ordine immateriale. In anticipo rispetto alla catena del valore tangibile delle imprese, da tempo uscita dalle mura aziendali e oggi distribuite a livello globale con decine se non centinaia di subfornitori di tante nazionalità, ancor di più la catena del valore intangibile è stata da sempre in un rapporto reticolare e precario con l’impresa o con l’organizzazione servita, con contratti che legavano più o meno stabilmente questi lavoratori simbolici alle varie committenze. E tuttavia questa componente intangibile non viene quasi mai valorizzata, quantificata e messa a bilancio per il suo reale impatto. Come la materia oscura che l’astrofisica ha dimostrato avvolgere quanto dell’universo riusciamo oggi a rilevare, costituendone forse il 90%, così questa materia oscura dell’intangibile avvolge ogni processo economico contemporaneo senza che se ne riesca a definire esattamente gli effetti e il peso economico.
Una parte di questa conoscenza non viene fatturata e non entra nei registri statistici nazionali, vuoi perché tanti lavoratori della conoscenza non hanno un potere contrattuale tale da farsi pagare adeguatamente il loro contributo simbolico, vuoi perché una parte di questo sapere è di tipo implicito e storicamente non considerato fatturabile: pensiamo, solo come esempio immediato, a un concetto tanto attuale quanto sfuggente quale è la reputazione.
Come si evidenzia nel libro di Haskel e Westlake, se uno Stato costruisce un nuovo museo questa spesa va nel PIL; se lo stesso Stato compra un Tiziano per metterlo nel museo (e magari garantirne la fruizione gratuita) questa transazione non viene registrata nella ricchezza nazionale: valutiamo la società della conoscenza con gli strumenti della società del vapore e delle ferriere.
In termini finanziari si resta dunque al vecchio interrogativo: come finanziare e valutare qualcosa che non è liquidabile?
Le quattro caratteristiche dei beni intangibili che gli autori individuano sono esattamente gli elementi che nessun addetto al credito prenderebbe in considerazione per valutare un finanziamento:
Sunkness, ovvero irrecuperabilità dei costi di sviluppo e mantenimento di questi beni
Synergy, ovvero collaboratività e interoperabilità di servizi e prodotti intangibili
Spillover, intesa come condivisibilità (semi) libera di questi beni al fine di diffonderne l’adozione
Scalable, intesa come replicabilità a costo marginale zero
Conoscenza, sviluppo, disuguglianze
Si tratta di quattro aspetti che consentono di inquadrare prismaticamente alcuni attributi dei beni intangibili, ma che lasciano elusa la questione centrale del libro: dove è andato e come rilevare l’incremento esponenziale di produttività e di ricchezza prodotto negli ultimi decenni dalla messa a lavoro di conoscenza, relazioni e relazionalità?
Il premio Nobel 2018 a Paul Romer (nella foto) e a William Nordhaus indica l’urgenza di mettere in pratica modelli di crescita capaci di far dialogare l’economia della conoscenza e la sua sostenibilità sociale e ambientale.
A fronte della cosiddetta stagnazione secolare gli autori evidenziano l’esempio dei risultati del PIL statunitense negli ultimi decenni, non entusiasmanti se comparati con l’esplosione dei profitti delle imprese USA nello stesso periodo. La risposta che danno gli autori vede nella crescita degli intangibili e delle economie fondate su di essi la spiegazione di questo paradosso, citando gli studi di Paul Romer e la sua New Growth Theory e ponendo una questione urgente per tanti paesi ad economia matura: quale è la fonte della crescita economica? Bastano nuove fabbriche aperte con investimenti diretti esteri e nuove autostrade a garantire una crescita sostenibile? Secondo alcuni studiosi il capitale fisico non spiega che un terzo delle variazioni del reddito pro-capite nei paesi. Gli altri due terzi vengono spiegati da un concetto ancora alquanto indistinto quale il Total Factor Productivity. La New Growth Theory evidenzia la possibilità di prevedere e sostenere la crescita economica attraverso i cambiamenti tecnologici endogeni, intesi anche come ideatività e creatività prodotte da coloro che lavorano con la conoscenza. Ovviamente questo ecosistema di conoscenza si basa su internet, di cui è banale evidenziare l’impatto sulla produttività di singoli e imprese. Ma vi è un’effetto indiretto del potere abilitante di internet: quanto più saperi un tempo esclusiva di piccoli gruppi diventano alla portata di tutti (spillovers), tanto più le attività di quei gruppi di professionisti perdono valore, anche proprio dal punto di vista monetario. Attività intellettuali un tempo prestigiose come la traduzione oggi sono oggettivamente meno faticose e più, genericamente, accessibili, grazie all’arrivo di Google Traslate, Wordreference o Bab.la, come anche alla diffusione di piattaforme di gig economy come Upwork che consentono l’accesso ai mercati ricchi di migliaia di traduttori (e di tanti altri lavoratori della conoscenza) abitanti in paesi poveri. Questo comporta un abbassamento degli onorari, e dunque il paradosso, già rilevato, dell’economia della conoscenza che aumenta la precarietà e dunque spesso la povertà dei suoi operatori, incrementando le disuguaglianze sociali.
Nell’economia della conoscenza basata sulle piattaforme pochi stravincono e a quasi tutti gli altri restano i Like e i Retweet di consolazione.
In una società sempre più polarizzata la questione politica che si apre non riguarda l’indubbio incremento della produttività dovuta agli spillovers dei beni intangibili o alla non-rivalità delle idee, ma l’appropriazione di questo valore prodotto e diffuso nella società in maniera spesso inconsapevole e di certo quasi mai valorizzata non solo sul lato contabile, ma anche su quella della ripartizione sociale del lavoro collettivo immateriale. È il tema di cui tratta anche il recentissimo testo di Marianna Mazzucato The Value of Everything, ma sarà oggetto di una riflessione a parte.
L’Italia intangibile (quasi impalpabile)
Ora ci si potrebbe chiedere dove si trova l’Italia in questo scenario. Come è facile prevedere si trova male. A pagina 108 Haskel and Westlake mostrano, tra l’altro, come dopo la crisi del 2008 l’Italia, assieme alla Finlandia, registri i peggiori risultati in termini di crescita della produttività multifattoriale e crescita dei servizi capitali intangibili. Altri grafici a pagina 33 e 34 del testo mostrano la scarsa performance del nostro paese in termini di investimenti in beni intangibili tra il 1999 e il 2013, seguita solo dalla Spagna. Ancora: a pagina 106 si evidenzia come l’Italia sia stata tra il 2001 e il 2007, quindi prima della crisi, all’ultimo posto per quota di investimenti intangibili sul totale degli investimenti nella manifattura. Dopo la crisi del 2008 le imprese italiane hanno tagliato drasticamente gli investimenti in intangibili, perdendo ancora di più in competitività.
In realtà non esiste una equazione lineare tra produzione intangibile, crescita economica e riequilibrio sociale. L’Italia semmai vive inoltre più di altri paesi un problema di squilibrio tra offerta di competenze cognitive ed effettiva domanda del sistema produttivo nazionale. Come sottolinea Giuseppe Berta siamo di fronte a “uno scarto grave e crescente fra l’intelligenza collettiva presente nel lavoro giovanile e le possibilità d’impiego che esso può trovare. Si tratta di una questione che è presente in tutta la società occidentale e che riguarda lo spreco di risorse attuato dai modi di organizzazione dell’economia.”
Che cosa è un bene intangibile
Gli autori di Capitalism without Capital individuano tre categorie generali di beni intangibili: l’informazione computerizzata, i beni innovativi, le competenze economiche. Mentre le prime due categorie sono tanto tutelate legalmente quanto registrate nelle contabilità aziendali, nel terzo ambito, quello delle competenze, ritroviamo ambiti come la formazione, le ricerche di mercato e il branding, la riorganizzazione dei processi aziendali (consulenza) che non sono tenute in considerazione nella stesura dei bilanci. Quanto vale un’impresa dopo un percorso di formazione interna? Quanto essa vale dopo una riorganizzazione interna che ne migliora produttività e magari anche il clima? A questi quesiti oggi è impossibile rispondere partendo dai bilanci.
Pensare che l’unica forma di bene intangibile siano i marchi e i brevetti (tra l’altro chiaramente rappresentati nei bilanci aziendali sotto la voce di asset non materiali) significa non comprende che la grande crescita dell’intangibile ha riguardato il mondo delle tecnologie sociali, ovvero la capacità di introdurre innovazioni organizzative nei gruppi sociali che ne incrementano la produttività sotto varie forme. In questo senso il modello produttivo kanban è una tecnologia, capace di “mettere al lavoro” il linguaggio e il sapere implicito all’interno all’interno di un gruppo di lavoratori. Come già ricordava nel 1999 Christian Marazzi ne Il posto dei calzini, la conoscenza tacita, competenze interiorizzate e implicite, quasi mai riconosciute e quantificate, fanno spesso l’efficienza di un’organizzazione o di una impresa e dunque la sua identità intangibile e il suo valore effettivo, ben oltre i numeri di un bilancio. Queste tecnologie organizzative, basate a volte su un sapere implicito e sociale introiettato dalle persone, consente di ridurre di molto i costi di coordinamento e di mettere al lavoro le attitudini personali anche per la soluzione di problemi. Si tratta del segreto della crescita nei decenni scorsi di tante imprese familiari italiane che grazie a fiducia, comunicazione e processi informali sono riuscite a competere anche in assenza di capitali e di investimenti significativi in beni capitali.
Il patrimonio culturale e relazionale delle persone, appreso all’esterno all’interno dell’organizzazione da cui traggono di che vivere, è eminentemente un costo irrecuperabile. La persona che entra in un’organizzazione la arricchisce di questo suo patrimonio e quando la abbandona si porta con sè tutto quanto ha imparato, non solo in termini di competenze tecniche e pratiche, ma anche in termini di appropriatezza sociale, efficacia relazionale e organizzativa, cultura aziendale in genere e molto altro.
Tutti questi asset mobili e in carne ed ossa non vengono registrati contabilmente né in ingresso né in uscita. Solo a livello di alta direzione si può sapere quando la perdita di quel manager costa o costerebbbe al datore di lavoro, magari come perdita di valore di borsa in caso di addio o decesso.
In Italia la Brembo resta da quasi 20 anni se non l’unico di certo il miglior riferimento sul tema del Bilancio del capitale intellettuale.
Il valore delle relazioni
Entriamo nello specifico di un caso precipuo di bene intangibile, le attività di relazioni pubbliche e di comunicazione. Esse sono sempre sunk, irrecuperabili in termini di costi, basate su inevitabili spillovers e sulla ricerca costante di sinergie. Le relazioni personali però non sono facilmente scalabili. Le relazioni e le competenze effettive soggettive non sono fungibili né cumulabili e dunque si tratta di un ambito labor-intensive.
Ad esempio: che valore ha, nell’epoca della interconnessione continua e pervasiva delle persone, vantare tremila o quattromila contatti su Facebook o LinkedIn? Quante centinaia di biglietti da visita accumuliamo ogni anno? I nostri smartphones hanno oggi rubriche pressoché illimitate: quanti sono davvero pregnanti e quanti di questi contatti sono pronti ad ascoltarci con interesse?
Il 2018 in Italia potrebbe essere ricordato anche come l’anno della apoteosi (e forse dell’inizio del declino) della influencer più celebre, la donna-brand Chiara Ferragni. Ma farsi trascinare in questa sfida quantitativa per un professionista della comunicazione finirebbe per risultare fuorviante quanto frustrante. L’influencer è un broadcaster dei social media, non un soggetto che vuole costruire relazioni durature, reciproche e pregnanti. Il relatore pubblico è per definizione l’esatto contrario di un broadcaster che accumula o compra follower e fan da propinare al media planner in cerca di nuove audience. E, secondo chi scrive, un buon relatore pubblico non vuole solo “connecting the dots”, ma anche sviluppare sapere e idee capaci di dare un nuovo senso alle relazioni. In generale, non sei un buon PR se non arricchisci le relazioni che intendi sviluppare o rilanciare. Se non lasci un valore aggiunto, in termini di contenuti, di conoscenze, di idee, di cambiamento di atteggiamento, non hai fatto bene il tuo mestiere.
Eppure a quasi un secolo dalla nascita, tale professione resta ancora in un limbo per quanto riguarda il suo valore e la sua monetizzabilità. Nel corso dell’ultima edizione del simposio di Bled Toni Muzi Falconi ha presentato un ricerca dal tema “How Big is PR (and why it matters)”. Attraverso un’analisi conservativa dei fatturati e degli onorari di tutti i professionisti che si occupano del settore a livello globale, Muzi Falconi ha stimato l’impatto economico e non delle attività di PR in tra i 250 e i 575 miliardi di dollari su scala globale.
Alla luce degli spunti precedenti mi permetto di suggerire a Toni di essere più ambizioso e di domandarsi quanto è grande la massa oscura o il Total Factor Productivity delle PR.
Come sa bene anche Toni, Il valore delle PR non può essere ridotto al fatturato del settore e degli addetti diretti e indiretti, perché l’impatto delle PR è ben più ampio del fatturato del settore. Quali sono gli effetti non monetizzabili o differiti? Oggi vi sono nuovi strumenti di data analytics per inferire e stimare il contributo di diverse variabil e delle diverse attività di comunicazione sul processo di persuasione all’acquisto o al voto, sulla valutazione di un marchio o anche sul valore di borsa di un’impresa.
Storicamente una serie di voci già possono essere poste a bilancio, quali il valore del marchio, l’avviamento, le vendite a margini incrementati rispetto alla media del settore. D’altra parte le conseguenze di PR negative possono manifestarsi a bilancio attraverso un incremento delle spese legali dovute a errori di comunicazione e/o il calo delle vendite. Ma oggi, grazie a modelli di analisi multivariata estremamente complessi, si potrebbe davvero iniziare a cogliere almeno una parte di questa “massa oscura” che storicamente tanto impatta nelle attività di PR. Un percorso di ricerca potrebbe partire da piccoli progetti per studiarne l’impatto non più in termini di mera conta delle uscite media o di sondaggi prima e dopo, ma per valutarne tutte le correlazioni tra le variabili (in una relazione anche il relatore è condizionato dal contesto e cambia nel tempo il suo approccio) e le propagazioni delle singole relazioni sviluppate. Il Total Factor Productivity delle PR potrebbe essere un orizzonte di ricerca ricco di scoperte e sorprese.
Chi finanza la società del valore intangibile?
L’ultimo capitolo del libro individua nello Stato l’unico soggetto che può rispondere a una serie di questioni aperte, quali la proprietà dei beni intangibili comuni, il finanziamento delle imprese e dei percorsi di ricerca che creano beni intangibili non liquidabili, la tutela della non-rivalità delle idee, la lotta alle ineguaglianze che i beni intangibili finiscono per incrementare.
Riprendendo alcune argomentazioni da Lo Stato Imprenditore di Marianna Mazzucato, gli autori ricordano che in Inghilterra non meno di un terzo degli investimenti in ricerca e sviluppo dipende dallo Stato perché sono attività troppo rischiose per le imprese, che preferiscono poi fruire poi delle soluzioni che si dimostrano vincenti. Un credito sulle imposte per investimenti capitali in imprese che sviluppano beni intangibili è la proposta che viene avanzata per incentivare gli investimenti privati. Anche le esperienze di Singapore con la Productivity e Innovation Tax Credit vengono citate, come anche la possibilità per lo Stato di acquisire beni intangibili non ancora testati sul mercato al fine di finanziarne le fasi di sviluppo e di adozione.
Una modesta proposta potrebbe partire da un approfondimento della definizione delle due filiere del valore parallele che abbiamo descritto all’inizio, ipotizzando di destinare una parte dell’imposta sul valore aggiunto relativa a ognuna delle fasi intangibili del processo produttivo a finanziare investimenti nel campo dei beni intangibili e del sostegno a quelle che il libro chiama le soft infrastructures alla base del loro sviluppo, ovvero le norme, i valori e principi civici, il capitale sociale del territorio o del paese che consente alle imprese che operano in questo scenario di condividere, collaborare, sviluppare alleanze e strategie congiunte senza particolari formalismi ma in base a una corretta relazione reciproca. Una specie di IVA di scopo, indirizzata a finanziare lo sviluppo dei beni intangibili sia in termini di ricerca di base, sia in termini di capitale sociale.
Che tanti studiosi, in un’epoca di capitalismo cognitivo transnazionale, di smaterializzazione dell’esperienza, di sovranismo corporativo e di frammentazione dei percorsi di vita e di lavoro, vedano nel tanto vituperato Stato, magari ancora tanto analogico, l’unica àncora per evitare che i beni intangibili diventino un ulteriore elemento di polarizzazione della società, la dice lunga sui limiti di tutte le altre soluzioni finora proposte per superare tale concetto, forse il più importante elaborato dalla modernità assieme a quello di soggetto.
Tassare (meglio) l’intangibile per meglio svilupparlo e ridurre le ineguaglianze prodotte dal digitale potrebbe essere un punto programmatico per una politica sociale consapevole del mondo in cui vive.
Un mondo nuovo, al contempo remoto e usuale, sta emergendo attraverso le infinite declinazioni del codice e le applicazioni del digitale. Un mondo dove nulla è già dato perché il dato cambia e si ricombina incessantemente. Un mondo dove cambierà la condizione umana, dal momento che non solo esperiremo sempre più il mondo come dati e interfacce, ma soprattutto saranno sempre più algoritmi e codici a guidare le scelte di miliardi di persone connesse.
Come dice Alex Pentland citato da Cosimo Accoto: “usiamo concetti analogici in un mondo digitale”. Ecco dunque che la filosofia digitale non è lo studio delle manifestazioni del digitale, come la sociologia lo è dei fenomeni sociali e la etnologia delle popolazioni, ma si pone l’obiettivo di sviluppare nuovi concetti capaci di cogliere, spiegare e, possibilmente, incidere sul processo di digitalizzazione del mondo.
Siamo dunque in una fase in cui i concetti tradizionali dimostrano i loro limiti a fronte di una trasformazione dello stesso loro orizzonte di applicazione, nuovi concetti stentano a venire definiti, anche perché non si conosce l’esito degli svariati indirizzi della digitalizzazione e perché vi è, anche, un problema dromologico, ovvero tale è la velocità della trasformazione che le poche menti finora impegnate nella sua analisi non riescono a stare al passo. Ma quella di cui oggi si sente l’urgenza è proprio una riflessione critica. Una delle istanze di partenza del denso “Il mondo dato” di Cosimo Accoto è la volontà di “capire la struttura filosofica del capitalismo informazionale”. Per quanto siano oramai molti i testi di critica degli effetti sulle persone e sulla società della digitalizzazione, un approccio analitico e speculativo al codice, inteso sia nella comprensione della sua ontologia e delle sue possibili teleologie, è appena agli esordi del suo percorso.
Di fronte a questo scenario mi soffermo su alcune alcune questioni che pone Accoto, evidenziando come la trasformazione digitale tenda ad erodere i presupposti e la utilizzabilità di alcuni concetti classici della tradizione filosofica occidentale.
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Il labirinto dei dati
“ (…) questo grandissimo libro, che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’Universo) (…) è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto.” (Il Saggiatore, 1623)
Se Galileo Galilei vedeva il mondo come matematica e geometria, oggi noi conosciamo e prevediamo il mondo sotto forma di dati e codici. Alla scoperta scientifica delle leggi della natura considerate immutabili subentra la costruzione di una realtà basata su diversi software che possono utilizzare dati diversi e interpretarli diversamente: “un software può trasformare una stanza da letto in una unità ospedaliera personalizzata”, evidenzia Accoto, e un software può anche costruire infinite bolle informative e di intrattenimento calibrate sull’analisi delle scelte pregresse e imminenti del suo fruitore. Per certi versi si realizza nel mondo ordinario lo stesso mutamento radicale che nella fisica si è prodotto quando si è passati dall’ordinato mondo newtoniano al principio di indeteminazione alla base della fisica quantistica.
Il dato dunque non è solo un elemento statico, finito, ma è anche in contemporanea un processo perché sempre nuovi possono essere le modalità per rilevarlo, per rappresentarlo, per analizzarlo, per utilizzarlo. Se i dati vengono spesso proposti in interfacce “user-friedly”, essi comportano sempre una opacità perché restano quasi sempre opache le modalità di acquisizione e di processamento. Di noi stessi oggi non sappiamo quanti dati esistono, come essi vengono prodotti e per cosa vengono utilizzati. Il nostro corpo digitaleproduce dati diversi a seconda dei codici, dei campi, degli algoritmi da cui viene attraversato.
L’ideologia predominante del capitalismo informazionale propone i dati e gli algoritmi come neutrali e oggettivi, quando invece essi sono sempre frutto di un processo tecnico e sociale, che impatta sulle vite delle persone e determina le loro scelte. In questo senso dato e algoritmo diventano centrali anche nella vita politica, o meglio nella biopolitica, perché essi incidono costantemente non solo sulle scelte strumentali, ma sul vissuto della persona e sulla sua percezione di sé. La coscienza personale e sociale è costruita oggi tanto socialmente quanto informazionalmente, a maggior ragione quando una parte dell’umanità vive una fetta consistente della sua socialità attraverso ambienti relazionali digitali. Se storicamente la questione filosofica verteva sull’interpretazione del mondo, nel momento in cui il mondo dei dati e degli algoritmi è gestibile da determinate entità commerciali si pone una nuova questione: chi può verificare in ultima istanza dati e algoritmi che rappresentano il mondo e sulla base di quali principi.
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Il velo di Maya digitale
L’interpretazione tradizionale del mondo ha visto distinti e spesso contrapposti un soggetto e un oggetto. Non vi è spazio per ripercorrere tutte le modalità in cui si è presentata questa diade alla base del pensiero filosofico occidentale ma dalle forme più ingenue di realismo alle forme più scaltre di idealismo (inarrivabile l’incipit del Die Welt: “Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch’egli non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra; che il mondo da cui è circondato non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso”) vi è sempre stato qualcosa di opposto o proiettato dal soggetto al suo esterno, un Gegenstaend in tedesco, dove “l’oggetto” è appunto “l’opposto”: il mondo si dà nella sua alterità rispetto al soggetto. Al contrario nel digitale non viviamo più solo un’esperienza meramente oppositiva o dialettica con il mondo, ma anche immersiva, capace di oltrepassare questa classica diade. In questo flusso costante di dati di cui siamo produttori e fruitori veniamo rilevati da sensori non umani, i quali spesso ci chiedono di inter(re)agire. I video a realtà virtuale e immersivi a 360° con le relative apparecchiature come Oculus rift già presentano una nuova modalità di intrattenimento che presto si diffonderà anche agli ambiti professionali. Questa dimensione immersiva, in cui, per la prima volta volta, le persone sono oggetto di rilevazione, valutazione e giudizio da parte di macchine algoritmiche, costituisce una novità nella storia umana.
Si potrebbe dire che le interfacce tendono a levigare il mondo, a semplificarne e a eliminarne la complessità, la contraddittorietà, la conflittualità. Gli algoritmi tendono a tessere un“velo di Maya” digitale: un mondo immateriale, dove le problematiche connesse alla materialità del prodotto (l’usura di un disco musicale, lo smarrimento di un biglietto aereo o ferroviario, la fatica e le condizioni reali di produttori o distributori) tendono a sparire o a essere tralasciate.
Un mondo meno materiale può diventare un mondo meno conflittuale e dunque più omologato e conformista?
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La coscienza dell’algoritmo
In un articolo fondamentale del 1974 Thomas Nagel si chiedeva “Che cosa si prova a essere un pipistrello?” Contro i riduzionisti Nagel poneva la questione della coscienza come problema insormontabile come anche quello dell’impossibilità di conoscere cosa prova un essere dotato di apparati sensori radicalmente diversi dai nostri o privi del nostro sistema simbolico.
Se chiedersi cosa si prova ad essere una macchina algoritmica è un’analogia forzata, non credo lo sia porsi il problema dell’interazione con un mondo che sarà popolato sempre più da codici e processi che simuleranno una coscienza. Una macchina semplice come una chatbot può già oggi, nelle versioni più evolute, simulare offesa, sollecitudine, insofferenza, pazienza, ecc.
Vero è che domandarsi se un sottomarino sa nuotare è una domanda malposta, ma noi non interagiamo con i sottomarini, mentre sempre più spesso interagiremo con macchine algoritmiche che simuleranno una coscienza e queste relazioni avverranno sempre più in età prescolare. Ecco: chiedersi se e come cambierà la consapevolezza delle persone e le loro abilità relazionali in un mondo dove interagiranno sempre più con agenti non umani non è una domanda peregrina.
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Il superamento del soggetto?
Nelle società moderne liberali, la costruzione sociale della soggettività si basa sull’assunto dell’individualità e su un presupposto di libertà che guida le sue azioni.
In un mondo costruito su quella che Antoniette Rouvroy chiama la governamentalità algoritmica, questi due classici concetti dell’età moderna tendono a indebolirsi se non a svanire. La scissione del concetto classico di individuo in corpo e mente digitali, consente di dimenticare nell’analisi la coscienza del soggetto, definisce la dividualità come un produttrice di profili digitalizzabili composti da migliaia di dati raccolti con modalità e sensori diversi temporaneamente assembleati e riassemblati in base alle necessità di analisi, archiviabili e riutilizzabili indefinitivamente e senza controlli.
La libertà delle scelte sarà sempre più prevista in percorsi predefiniti. Oggi la frontiera del marketing è la customer analytics, analisi predittive fondate su un data behaviourism, come lo chiama la Rouvroy, orientato ad anticipare, formattare e selezionare il futuro potenziale dei nostri corpi e delle nostre menti, almeno come essi vengono rappresentati digitalmente: “l’estrazione di dati e le tecniche di profilaggio seducono le industrie e le istituzioni governative con la promessa del tempo reale e del rilevamento automatico, dunque presumibilmente “oggettivo”, nonché dell’ordinamento e della valutazione a lungo termine degli invisibili rischi e opportunità portati dagli individui”, ha detto la Rouvroy nella conferenza “Transmediale – All Watched Over by Algorithms”. Il processo di codifica digitale della vita sociale rischia a scindere gli individui in dividualità, necessarie alla produzione incessante di dati che alimentano l’economia e la riproduzione socio-culturale, e al controllo attraverso le tecniche di analisi dei Big Data.
Qualche web marketing guru pronto a proporre la sua ricetta iperpragmatica potrebbe tacciare queste riflessioni come mere ruminazioni teoriche. Ma proprio oggi la copertina dell’Economist dimostra che quel che fino a ieri era un ristretto dibattito accademico oggi diventa oggetto di dibattito pubblico globale. Perché, come diceva Hegel citato da Accoto “”La filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero” e per comprendere consapevolemente il proprio tempo non esiste (ancora?) alcun algoritmo cui affidarsi.
In un mondo sempre più composto da elementi immateriali (servizi, funzioni, ) come si trasforma il rapporto tra merce e denaro? Il denaro per sua natura è un’astrazione parzialmente rappresentata dalle monete che sono apparse nella storia dell’umanità (dalle conchiglie al solidus da 4,5 grammi d’oro, dalle banconote alle transazioni NFC), che serviva a rappresentare un sistema di scambi tra le persone che quasi sempre prendeva la forma di una merce materiale (un’automobile, un utensile) o di un valore computabile (l’ora di lavoro pagata un tot).
Al contrario, oggi siamo entrati in una fase in cui non solo la moneta, ma gran parte dei beni di cui fruiamo o cui diamo maggior importanza per la nostra esistenza o per il nostro percorso futuro è rappresentato da elementi immateriali, quali un servizio di comunicazione, un software o un app, il cui costo viene deciso da chi lo eroga in maniera spesso del tutto scollegata dai costi materiali storici di produzione ed eventualmente erogato gratuitamente in funzione dell’appropriazione di altri beni, estratti dagli utenti sotto forma di dati computabili, o di valorizzazioni finanziarie future non legate ai metodi tradizionali di valutazione delle merci fisiche.
In questo senso si crea una situazione speculare tra un capitalismo che valorizza la capacità di produrre valore da astrazioni (i dati) di scelte, comportamenti o attributi delle persone, e un capitalismo finanziarizzato che produce valore da denaro in gran parte dematerializzato. L’avvento delle monete deterritorializzate basate su blockchains estremizza il processo già in corso con la finanza globale e tende a costruire dei territori virtuali, digitali, di cui queste monete garantiranno la cittadinanza solo ai loro possessori.
Il processo di astrazione della moneta e delle vite è tra i temi al centro delle riflessioni dell’ultimo libro di Christian Marazzi Che cos’è il plusvalore?(Casagrande Ed., Bellinzona), di cui ripubblico un passaggio ripreso da cheFare, che ringrazio. (B.C.)
Felix Martin, storico del denaro, ha scritto un libro stupendo (Denaro. La storia vera: quello che il capitalismo non ha capito, Utet, Torino, 2014) in cui parla della scoperta della comunità sull’isola di Yap nel Pacifico da parte di un antropologo, William H. Furness, che all’inizio del Novecento ne studiò usi e costumi, fondamentali per il pensiero di John M. Keynes e persino dell’ultimo Milton Friedman. Questa comunità, mai colonizzata nonostante i vari tentativi di missionari e britannici – i quali morirono nell’impresa – disponeva soltanto di tre beni presenti sull’isola: il merluzzo, il cocco e il cetriolo di mare. È una classica comunità nella quale si poteva ipotizzare il baratto, con poche persone che si scambiano solo tre merci.
Per le strade notturne di una città imprevedibile si aggira da decenni un venditore ambulante.
Se non è diventato ricco come i cugini forse è proprio perché non riesce a rinunciare a quelle passeggiate notturne in una città che sempre gli sfugge, alla ricerca di acquirenti dell’anacronistica boza e di risposte alla Stranezza che ha nella testa. Ma questo a Mevlut poco importa. Alla fine del romanzo riuscirà a dire alla città quello che ha sempre cercato di dire: una dichiarazione di amore e di accettazione del destino, che contrasta con la volitività di gran parte degli altri personaggi del romanzo.
Mevlut non ha la determinazione dei suoi cugini Korkut e Suleiman, non ha le convinzioni e l’orgoglio del suo amico Ferhat, non ha l’arroganza della bellissima Samiha, non ha di certo l’imprenditorialità di Hamit Vural e nemmeno l’intraprendenza della cognata Vediya. Dunque, almeno all’apparenza, quella di Mevlut è una storia di continui insuccessi ed equivoci, nello studio, in amore, nelle varie attività lavorative che intraprende. E anche quando realizza il sogno della giovinezza scopre troppo tardi che comunque esso non era fatto per lui. Eppure addentrandosi ogni sera nei viali e nelle viuzze di Istanbul, accolto con stupore e curiosità in tante case diverse come un personaggio emerso dal passato, il venditore di boza Mevlut riesce a non diventare uno sradicato come quasi tutta la sua famiglia allargata. La boza, la bevanda di grano fermentato, è una testimonianza di fedeltà alle origini, a suo padre venditore ambulante di yogurt, a una identità povera e rurale che chiunque arriva nella capitale cerca quanto prima di scrollarsi di dosso.
“Quando si rendeva conto che il figlio lo guardava come un sapiente che parla con la città usando una lingua misteriosa, e che era impaziente di conoscere i segreti di Istanbul, Mustafa Effendi (il padre di Mevlut) si inorgogliva e accellerava il passo” (pag.71)
Epopea minima e corale di semplici immigrati che si fanno strada per cercare il loro pezzo di benessere in una città che viene ferocemente trasformata dal loro arrivo, con il suo ultimo romanzo Pamuk cerca di leggere Istanbul dalla parte dei suoi nuovi abitanti, superando l’etichetta di scrittore della borghesia occidentalizzata.
Anche di recente sono apparsi in Italia vari testi intrisi di esotismo a buon mercato che raccontano la città dei romei o quella multietnica e multireligiosa dei sultani, ma la realtà della Istanbul di oggi è una città prevalentemente anatolica, dove negli ultimi quarant’anni si sono insediati non meno di dieci milioni di immigrati dalle regioni asiatiche della Turchia, una dilatazione urbanistica e sociale che non ha pari in Europa e in vicino Oriente e che l’ha trasformata in maniera radicale.
“Nessuno amava ricordarlo, né dirlo, ma un tempo Tarlabasi era un quartiere greco, armeno, ebreo e siriano. A Kurtulus, che era l’altro lato di una vallata percorsa da un ruscello che dalle spalle di Taksim scendeva verso il Corno d’oro e prendeva nomi diversi in ogni quartiere che attraversava – nomi ormai dimenticati da tutti perché ricoperti dal cemento e dall’asfalto – , sopra Ferokoy, sessant’anni prima negli anni Venti, ci vivevano greci e armeni” (pag. 303)
Se Istanbulè il racconto intimistico di una progressiva consapevolezza che si intreccia alla conoscenza e alla riflessione sulla propria città, in La Stranezza che ho nella testa Pamuk si sfida a raccontare un mondo quanto più distante socialmente, culturalmente e geograficamente dalla sua estrazione, il mondo di coloro che sostengono Erdogan come colui che li ha tratti fuori dalla povertà e dalla marginalità, che al contempo ha garantito loro l’accesso al consumismo occidentale e la promozione delle tradizioni religiose.
Il romanzo ha allusioni molto chiare alla situazione attuale turca: non credo sia un caso che il costruttore Hamit Vural provenga dalla città di Rize come la famiglia di Erdogan. Gli oltre quarant’anni di storia che attraversano le vite dei personaggi del romanzo sono dunque un’occasione per ricordare i traumi e gli abusi cui è abituata la Turchia e molto meno l’Occidente che la giudica: i colpi di Stato, le persecuzioni e le torture ai danni degli attivisti di sinistra, dei curdi e degli aleviti, la corruzione diffusa e la speculazione edilizia che sono componenti del potere dell’AK parti.
Il romanzo tuttavia non ha la complessità di impianto e di scrittura de Il libro nero o Il mio nome è rosso, ma il personaggio di Mevlut, descritto nel suo candore, nel suo ottimismo, nella sua integrità, fa sorridere e resta nella memoria. La storie degli altri personaggi scorrono facili alla lettura, con l’esplicito intento di raccontare una ordinarietà di vita e una certa semplicità di pensiero e sentimenti.
Accusato in patria di essere uno scrittore intellettualistico e orientato verso i lettori internazionali, Orhan Pamuk ha voluto sfidare a una certa critica e vincere una sfida anche con se stesso, per dimostrare di saper capire e raccontare i suoi recenti concittadini, cui guarda al contempo con sollecitudine e timore.
Orhan Pamuk La Stranezza che ho nella testa, Einaudi, 2015
Nella sua analisi di “Storia dell’occhio” di Georges Bataille, Roland Barthes contrappone poema e romanzo: all’”immaginazione timida” del secondo, “che non osa dichiararsi se non sotto cauzione del reale”, il critico francese contrappone la potenza del poema, che dice “ciò che non potrebbe accadere in nessun caso, salvo che nella regione tenebrosa e ardente dei fantasmi, regione che, proprio per questo, esso è il solo a poter designare, (…) esplorazione esatta e completa di elementi virtuali”.
Leggere dunque Lo Scuru come un romanzo e non come un poema porta a incomprensioni gravi, che pure sono apparse in queste prime settimane dalla sua uscita. Valutare un testo, una scrittura, e volerlo per forza incasellare in quello che secondo un critico dovrebbe essere un romanzo (il cui successo nei secoli sta proprio nella sua natura multiforme) è meno un errore che un indizio di scarsa fiducia nella letteratura.
Poema interiore dunque, che evoca un mondo ctonio e la lotta di Razziddu Buscemi per affrancarsi da esso, pur essendone parte. Racconto di quel fondo magico che la religiosità barocca e controriformistica meridionale ha protetto dalla razionalizzazione nordica del sentimento religioso attuata dal Protestantesimo, la quale invece guardava verso l’alto per scrutare un dio tanto distante da risultare al fine inaccessibile. Il cattolicesimo mediterraneo è invece assediato dalle infinite manifestazioni di un abisso ancestrale, per difendersi dal quale ha prodotto per secoli muraglie di santini, cortine di devozioni, raccolte di effigi di antenati e di mostri, amuleti contro le potenze oscure che abitano l’anima del mondo e delle persone.
Il Signore dei Puci di Butera, con cui il giovane Razziddu ingaggia una lotta letale, è la statua di un Cristo trasformato in un mostro dalle energie ancestrali che attrae e diffonde. Solo il cattolicesimo barocco ha saputo intuire la coessenza in fenomeni religiosi arcaici di potenze al contempo salvifiche e infernali, e renderle manifeste in processioni oscure come quelle della Settimana Santa, quando il sacro ritorna buio e indistinguibile, inquietante e disperante. Una messinscena oscura, dove le statue sono illuminate da baluginii fiochi e diventano specchi mobili e allusivi di un orrore indicibile e senza fine, una oscurità tuttoavvolgente, dimensione priva di temporalità perché antecedente al tempo.
L’analessi narrativa introduce a una biografia antespettiva dell’autore verso una fuga vageggiata nei territori della propria ascendenza letteraria ideale, di una lotta interiore di Razziddu mai risolta nemmeno in punto di morte. È il legame salvifico con l’amata Rosa, la cui morte riapre l’abisso interiore del protagonista ormai anziano cui riemergono le antiche visioni, che lo spinge a proiettarsi con la fuga nella modernità nordamericana fondata sulla razionalità giuridica. Una razionalità agognata dal giovane Razziddu, lui “creatura di zolfo” per bocca della nonna, come soluzione e pacificazione dei conflitti che lo circondano, eppure dall’esito vano: “Così il ragazzo (…) decise di franare col tempo, osservare, e ancora frenare, tuculiare la macchina di legno e poi spicchiare la fisica provando a risorgere in un’altra epoca o secolo in cui la superstizione sarebbe stata debellata da Butera e un’emulsione di lucidità purissima, di giubilo, avrebbe ricreato i rapporti tra i paesano secondo una formula matematica” (pag.90); “ogni oggetto, dentro Butera, era dunque una particellare definizione del fallimento di un’evoluzione moderna” (pag.88).
L’analessi consente il racconto di un universo metamorfico dove la maga Minica invita Razziddu a non uccidere (“U cutieddu. Scappa. Non farlo”, pag. 44) e settanta pagine dopo si capirà che si tratta di una preghiera a non uccidere il suo doppio Nitto. Universo metamorfico prodotto altresì da una lingua che non è tocco di colore, ma è potenza espressiva di una personalità in fieri sospesa tra instintualità e razionalizzazione, tra fedeltà a terra e famiglia e necessario e inevitabile tradimento, tra urgenza espressiva e ordine sintattico. Dunque una lingua non folcloristica, certo di difficile comprensione, ma che traduce il magma non stabilizzato di un racconto fatto da forze violente, una lingua di cui seguire i suoni duri, estranei, come allusione di un mondo non ancora toccato da un ordine razionale della parola.
Una lingua in cui termini e costrutti in siciliano stretto rappresentano fratture della superficie linguistica tradizionale, della razionalità confortante ordinaria, geyser da dove far fuoriuscire la violenza di un conflitto interiore e e le pulsioni di un mondo arcaico, potente e spietato. Con la sua scrittura multiforme per linguaggi, registri e ascendenze letterarie, Orazio Labbate non si limita a narrare una storia, ma scava un fondo rimosso, raschia il banale dai significanti più adusati, piccona la linearità rassicurante di tanti romanzetti d’esordio.
Ecco, l’esordio. Poco ci si interroga su cosa spinga una persona a rompere la timorosità e a dire, e a dire in pubblico. Per me emulazione ed esplorazione sono le due dimensioni che sommuovono il vero talento. Se Razziddu pescatore è un fratello minore di Suttree di Cormac MrCarthy (evidenzio la passeggiata dopo il mercato delle pagine 65-66 e il deliquio delle pagine 30-31), la lingua che ha plasmato Orazio Labbate è strumento di esplorazione interiore e sociale, ardua perché il fondo che intende evocare precede la sintassi e il lessico che riordinano e nascondono gran parte del nostro io.
Lo Scuru è lotta, entusiasmo, passione, inquietudine, ricerca, fuga, delirio. Ma soprattutto ambizione di fare letteratura e di dire tramite essa una parola originale sul mondo e sull’esistenza.
Quando trovo il tempo o ne ho da perdere do un’occhiata ai feed rss cui mi sono registrato sul mio cellulare. Nel flusso di micronotizie che mi inonda devo sempre confrontarmi con due questioni: quanto mi interessa la notizia e quanta attenzione (in termini di secondi, minuti) posso dedicarle.
Le due domande sono le stesse al centro della crisi dei quotidiani. Per la prima volta al mondo la quantità di contenuti disponibili sopravanza enormemente il tempo che le persone hanno per assorbirli. Ma ancor di più la forma-quotidiano dei contenuti si ritrova anche a confrontarsi con la contestualità delle notizie offerte: tra centinaia di notizie scritte su decine di pagine quante davvero interessano il mondo, i valori, le scelte di varia natura dei singoli lettori?
Se gli stessi feed rss, una delle forme più personalizzate di contenuto oggi disponibili, finiscono spessissimo per cadere nella insignificanza per gli stessi fruitori che hanno scelto di riceverli, cosa ne è di una serie di fogli di carta stampati (con immagini che raramente raramente oltrepassano la didascalicità) che provano a coprire decine di argomenti e storie con rari approfondimenti e ancor più rara qualità di scrittura?
A Enrico Pedemonte va il merito di aver pensato in maniera sistematica la grande trasformazione che i contenuti digitali, distribuiti, gratuiti e autoprodotti hanno generato nel mondo dei media a stampa. Il suo testo “Morte e resurrezione dei giornali. Chi li uccide e chi li salverà” uscito poco più di un mese fa per Bompiani mi ha attratto come un buon giallo. Tutti vogliamo sapere chi salverà i giornali. Un mio amico storico inviato di guerra ha detto: “so già il nome dell’assassino, voglio conoscere il nome del reparto di rianimazione che li salverà”. Alla fine del libro questa domanda rimane sostanzialmente inevasa.
Certo, Pedemonte cita (anche in maniera frettolosa direi) nell’ultimo capitolo alcune ricerche e analisi americani come The reconstruction of American journalism della Columbia School of Journalism, il rapporto Digital Britain del governo di Gordon Brown o alcuni dati di Pew Research (di cui segnalo questi recentissimi dati sui consumi di news negli USA) per trarre da esse alcune indicazioni su come trovare nuovi percorsi di sopravvivenza per i quotidiani. Per chi come me tratta il tema in alcuni master non vi è nulla di nuovo. Semmai stupisce la scarsa attenzione data agli studi e le idee che l’INMA (International Newsmedia Marketing Association) ha sviluppato e proposto negli ultimi anni. Proprio il capitolo che doveva dare delle risposte o almeno delle risposte meno generiche di quelle solite è quello che delude di più.
Il libro non si sofferma sugli esperimenti italiani di giornalismo partecipativo, non analizza i risultati di esperienze come Blitz Quotidiano o come Il Post, non ragiona del grande successo in continua crescita delle testate dell’ANSO.
Non ipotizza neanche un modello organizzativo nuovo per le redazioni, non individua un nuovo status della professione giornalistica, non indaga sulle formule che iniziano ad emergere come il Daily che Rupert Murdoch offrirà solo agli utenti dell’iPad, primo di una serie di nuovi contenitori impaginati per i lettori digitali multimediali.
Lo stesso ricordare il peso dell’azione di Berlusconi nel mancato sviluppo delle reti televisive locali sembra veramente essere l’extrema ratio di una certa sinistra che quando non riesce ad arrivare con l’analisi e con le proposte oltre una certa soglia si rifugia “in una certa narrazione sconfittista” (cito l’intervista che i Wu Ming hanno dato oggi al Fatto Quotidiano) in cui Berlusconi è nient’altro che lo specchio distorcente dei propri limiti e fallimenti. Può essere anche vero, ma non aiuta a capire e ad agire.
È vero invece, come rimarca Pedemonte, che su un’operazione che ha comportato centinaia di prepensionamenti di una parte del miglior giornalismo italiano è calata una coltre di silenzio che si può chiamare censura o omertà, se i milioni elargiti agli editori dallo Stato attraverso il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta hanno trovato un equilibrio in qualche scambio di favori in cui di mezzo ci è andato il diritto dei cittadini a essere informare e il dovere dei giornalisti a scoprire certe notizie e a dar loro la giusta rilevanza. In un tale contesto la moltiplicazione di realtà di giornalismo digitale, autoprodotto, svincolato da poteri e potentati e legato davvero alle esigenze di un territorio, non è solo la inevitabile conseguenza di trasformazioni tecnologiche ma ancor di più del deficit di notizie che caratterizza da sempre il giornalismo italiano
A epigrafe dell’ultimo capitolo Pedemonte mette questa frase di Clay Shirky: “La società non ha bisogno di giornali. Ha bisogno di giornalismo”. Gli utenti del web lo sanno molto bene. Lo dovrebbero capire anche gli editori italiani se vogliono avere una possibilità di sopravvivenza che punti su innovazione e creatività e non passi solo attraverso il costante ricorso agli aiuti di Stato.