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Il Terzo Scudetto e il Mito Maradona

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Il Terzo Scudetto e il Mito Maradona

Arriva a Napoli il terzo scudetto, e a trentatre anni di distanza l’immagine più diffusa in città resta quella di un ragazzo riccioluto e corrucciato, allora adorato, oggi trasfigurato: simbolo, icona, eroe, dio di un popolo che vive il calcio come redenzione e riscatto. Perché Diego Armando Maradona non è stato un giocatore o un giocoliere. Nelle sue giocate, nelle sue vittorie e nelle sue sconfitte, fuori e dentro il rettangolo di gioco, si sono rispecchiati milioni di persone, non solo persone “comuni”, ma per lo più i plebei, i marginali, i maleducati, gli ignoranti, quelli ai quali non è concessa una seconda opportunità perché spesso non hanno avuto neanche la prima. Questa categoria, che conta centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, e di cui Napoli, città nobilissima e plebeissima, è ben fornita, ha visto in Diego Armando Maradona un proprio figlio, un proprio fratello, con tutte le debolezze e le meschinità della propria condizione, eppure toccato dal genio, qualcosa di ineffabile che gli consentiva di essere il più forte senza allenarsi, senza disciplinarsi, senza seguire le regole che tanto non sopporta questa categoria di persone. E Maradona, anche da ricco, famoso e influente, non ha mai disconosciuto le sue origini, ha sempre capito che lui rappresentava il riscatto nelle vittorie e lo specchio delle miserie per milioni di vite.
E quando nel film di Kusturica Diego ascolta Manu Chao cantare “Se io fossi Maradona vivrei come lui” non piange per esigenze di copione: piange perché sa che la sua vita è stata e sarà una tombola, niente di prevedibile, di pulito, fors’anche di morale. Come la vita di chi nasce senza reti di protezione.

Per queste ragioni la vittoria della squadra di calcio del Napoli nel campionato italiano scatena una gioia che non ha pari nel mondo, e questo non per relative ragioni di rarità dell’evento, ma perché il popolo napoletano ha investito il calcio di significati molto più intensi che altrove, fino a sviluppare questa profonda identificazione tra il suo spirito e la vita di Diego Armando Maradona, da cui è scaturita la mitologia che oggi accompagna, promuove e identifica i suoi tifosi.Un mito inaspettato, elaborato in una città dell’Occidente in un’epoca in cui il senso del divino si è da tempo accomiatato dal mondo. Mitologia e non culto, perché al di là delle manifestazioni esteriori, delle edicole votive per le strade di Napoli, delle statuine come quelle dei santi, dei santini con l’aureola attorno alla selva di ricci di gioventù, inevitabile iconografia cattolica di un popolo che ha subìto i rigori della Controriforma senza godere della libertà della Riforma, la devozione a Maradona non ha niente dei santi cristiani.
In una città che nei secoli ha preteso la protezione di ben 56 santi patroni, non erano i santi che mancavano. All’indomani del terremoto, Napoli aveva bisogno di elaborare un suo dio contemporaneo, e le potenze ctonie dell’antica città greca sono riemerse per modellare una mitologia che, come quelle degli dei ellenici, prevedesse il tocco del destino, qualità uniche, prove da superare, trionfi e fallimenti, lussuria e sofferenza, sincerità e doppiezza, affetto e ingratitudine, ribellioni e compromessi, ritorni e declino. E la morte, perché nel mito classico l’eroe muore, non vive felice e contento e non lo attende una beatitudine paradisiaca. A differenza delle favole, che si concludono con un ingenuo lieto fine, a differenza dell’agiografia cristiana, che punta ad edificare gli animi con racconti di virtù irrealistiche, la mitologia classica racconta l’esistenza con tutte le sue contraddizioni, la fragilità e la bellezza drammatica del vivere, i vincoli e le condanne del destino.
Le immagini che i devoti di Maradona portano in giro per il mondo come un talismano, un segno di riconoscimento e appartenenza, indicano un’idea dell’esistenza e un metro di giudizio condiviso, in cui non c’è spazio per giudizi moralistici, consapevoli che la vita va oltre gli schemi e le regole.

Il mito Maradona non è un mito borghese, non è un mito contemporaneo

Ai tempi della sua manifestazione terrena, sull’altare dell’edificazione del dio Maradona Napoli e i napoletani hanno offerto e sacrificato tutto: stipendi e famiglie e mogli e figlie e mangiate e massaggi e cortisone, e soprattutto tanta, tantissima cocaina, la polvere che attesta e distrugge il successo nella nostra epoca. E così, come in un rito sacrificale collettivo, chiunque sentiva il diritto di riprendersi un pezzo del dio, di guardarlo, di toccarlo, di rubargli i vestiti, di strappargli i capelli, di soffocarlo, di togliergli ogni possibilità di vita privata, di poter mangiare e sopravvivere grazie a lui, di cibarsene quasi fisicamente.
Nessuno può negare che in un’altra città, in un altro club di livello mondiale, medici e psicologi avrebbero preso in cura la dipendenza di Maradona e la avrebbero fatta guarire, normalizzando lo sportivo e facendo riemergere la persona oscurata dalla droga e dal delirio collettivo. Ma solo a Napoli un calciatore eccelso poteva eternarsi in qualcosa che andava ben oltre la sua vita e che lui nemmeno percepiva del tutto, perché i suoi non non erano più i suoi successi, la sua vita gli era stata sottratta già in vita per destinarla alla sua mitologia.
Ogni gol, anche il più banale, diventava un’epifania del genio, la manifestazione che anche a un popolo bistrattato veniva riservata la benevolenza del fato, nella sua forma più esaltante: la Vittoria, la prevalenza e il predominio su coloro che il resto della settimana ti guardavano dall’alto in basso, per tante e anche giustificate ragioni. Si era già nel mito.

Ma che cosa si può ancora intendere con il termine “mito” nella nostra società? Nel linguaggio comune si usa oramai il termine in maniera indiscriminata per definire attori, cantanti, personaggi più o meno famosi e soprattutto relativamente capaci; degradata così, la parola si finisce per estendersi come un complimento generico, affibiato per gratificare chiunque, senza per altro crederci. Roland Barthes in “Miti d’oggi” ha svelato l’ideologia dei miti propinati allora come oggi dai media di massa: “la funzione del mito è di svuotare il reale (…) il mito non nega le cose, anzi, la sua funzione è di parlarne; semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce come natura ed eternità, dà loro una chiarezza che non è quella della spiegazione, ma quella della costatazione (…) il mito fa un’economia: abolisce la complessità degli atti umani, dà loro la semplicità delle essenze, sopprime ogni dialettica, ogni spinta a risalire, al di là del visibile immediato, organizza un mondo senza contraddizioni perché senza profondità, un mondo dispiegato nell’evidenza, istituisce una chiarezza felice: le cose sembrano significare da sole”(Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, pag. 223).

Ecco, il mito #Maradona NON appartiene alla categoria che, già negli anni Cinquanta, descriveva Barthes. Semmai ne è l’opposto.

Nei suoi celeberrimi testi Barthes investigava l’ideologia del quotidiano, (della bistecca come materialità tranquillizzante, del vino come identità patriottica francese, della Citroen DS come rassicurazione sulla direzione del progresso) e l’ideologia promossa dai media (il volto di Greta Garbo come inattingibile ideale estetico, il Tour de France come epopea da rappresentare per il popolo) come molteplici forme di accettazione della realtà, dei suoi principi e dei suoi rapporti di forza sociali, per assuefarsi ad essa, addirittura identificarsi con essi, così da non metterli in discussione. Il mito Maradona non è invece un mito borghese, mediatico, ideologico, ma un mito profondamente popolare, addirittura plebeo: mitologia contraddittoria, complessa, per nulla innocente e pura, che non semplifica la realtà e non discerne il buono dal cattivo, l’accettabile e l’evitabile, ma interroga sull’ambiguità delle scelte personali e sull’ambivalenza che ogni essere umano si porta dentro di sè, spesso tanto più grande quanto più egli è talentuoso o dotato. Un mito di rivolta e resistenza all’opportuno, al regolare, al corretto, al conforme: principi definiti da sempre da chi ha il potere e i soldi per farlo.

Il mito Maradona è così ampiamente e da tempo uscito dall’ambito sportivo per diventare, come i miti classici, un’indicazione per l’esistenza, basata non su qualche regoletta morale o sul conformismo borghese, ma sulla possibilità di infrangere quello che dovremmo dire, dovremmo fare, dovremmo scegliere per aderire al senso comune e compiacere i potenti. E allora quel che sembra smodatezza nella felicità per uno #scudetto diventa una lezione che i napoletani danno all’Italia e al mondo: la possibilità di essere se stessi senza seguire imposizioni o convenienze esiste ancora, la mitologia che abbiamo elaborato ce lo ricorda, oggi la celebriamo.

Putin ha già perso la guerra della comunicazione

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Putin ha già perso la guerra della comunicazione

Putin ha già perso la guerra della comunicazione. E l’ha persa perché i messaggi e le modalità di comunicazione veicolati dalla Russia sono diversi e distanti dalla sensibilità occidentale, tanto ingenui da svelare proprio quello che vorrebbero mistificare: insicurezza e senso di superiorità, e conseguente volontà di dominio come forma preventiva di difesa dall’espansionismo della NATO.

Vanja e KolyaPartiamo dal cartone animato diffuso per spiegare le ragioni della Federazione Russa. Il filmato prova a far regredire lo spettatore a un livello di argomentazione infantile. Vanja e Kolya erano da  bambini buoni amici, compagni di banco, dove il primo, più grosso, difendeva l’altro: i russi interpretano l’amicizia non come una relazione tra pari, ma come una sorta di protezione benevola dell’altro, inevitabilmente sottomesso. Kolya invece preferisce cambiare classe e si fa nuovi amici, che lo spingono (o almeno gli consentono) a trattar male i vecchi compagni di classe più piccoli (le Repubbliche del Donbass e di Luhansk). Sono i nuovi amici (i cui vestiti richiamano le bandiere di Germania e Stati Uniti) ad aver aizzato Kolya e Vanja vorrebbe solo togliergli il bastone con cui maltratta i compagni più piccoli. Gli ultimi trenta secondi sono dedicati alla didascalia storica del raccontino, sottolineando che l’Ucraina non ha rispettato gli accordi di Minsk. Ma perché Kolja ha preferito allontanarsi da Vanja? Già questo passaggio del cartone svela le ataviche paure russe. La qualità mediocre di questa operazione di propaganda non meriterebbe tanta attenzione se non proprio come esempio della difficoltà dei russi di presentare una narrativa efficace e persuasiva per giustificare le loro rivendicazioni. 

Vi sono tre linee di frattura nell’idea di comunicazione tra Russia e paesi occidentali che non consentiranno mai alla prima di essere veramente in sintonia con il pubblico di quei paesi, e quindi di non poter in alcun modo essere persuasiva, rendendo impossibile la diffusione in Occidente di un sentimento di simpatia, comprensione o sostegno di massa alle sue ragioni. 

La prima riguarda la rivendicazione di una eredità storica e ideale dell’identità russa che non ritiene di poter essere veicolata con i mezzi di comunicazione di massa, ma con le scienze storiche, le arti (letteratura, musica, danza), la filosofia. Per certi versi si tratta della continuazione della grande asimmetria comunicativa studiata da Joseph Nye Jr. (non a caso presidente della Commissione Trilaterale) nel suo classico Soft Power: negli anni della guerra fredda a Woodstock si rispondeva con il Bolshoi, ai Beatles e i Rolling Stones si rispondeva con Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, e mentre le commedie leggere dell’American way of life arrivavano in tutto il mondo i film di Andrej Tarkovsky venivano apprezzati solo nei cineclub. Al di là della repressione e del collasso finale dell’Unione Sovietica, la superiorità culturale rivendicata dalla proposta sovietica poteva incutere rispetto, ma non suscitare adesione. Ancora oggi filosofi di riferimento della visione euroasiatica come Aleksandar Dugin evidenziano come la lotta della Federazione Russa sia quella per un mondo multipolare e spirituale contro la trivializzazione dell’esistenza promossa dal neoliberismo digitalizzante.

In questo senso il meme diffuso dall’ambasciata statunitense in Ucraina pochi giorni prima dell’invansione in cui si ironizzava sulla arretratezza di Mosca quando Kyiv aveva già eretto le sue magnifiche chiese non ha proprio senso: quello che in Occidente fa ridere, in Russia no perché, al di là delle sequenze storiche, ci si sente spiritualmente eredi di Bisanzio. 

 

Questa visione implica non il rifiuto della modernità (sappiamo bene quanto sono bravi gli hacker russi e come funziona la centrale di fakenews Internet Research Institute di San Pietroburgo), ma un qualche rifiuto a spiegare le proprie ragioni profonde con le modalità proprie della comunicazione social e con le tecniche di PR occidentali. 

Non a caso, e arriviamo alla seconda linea di frattura, la cultura della comunicazione istituzionale e delle relazioni pubbliche nasce e si sviluppa negli Stati Uniti su due assunti fondanti: la promozione argomentata dei consumi in una società capitalistica, una comunicazione bidirezionale e molteplice tra gli attori coinvolti. Si tratta di due assunti che per ragioni storiche hanno avuto una influenza limitata o nulla in Russia: una economia di mercato paragonabile a quella occidentale, anche nel numero dei consumatori, esiste lì da appena vent’anni. Soprattutto: dall’assolutismo zarista alla pianificazione dall’alto sovietica, il potere in Russia non si è mai posto l’idea di dover comunicare in maniera continua, biunivoca, comprensibile di coltivare l’ascolto di sudditi o compagni o, addirittura, di essere “accountable”. 

Putin Siberia

In occidente un sistema dei media relativamente diversificato e libero impone a chi voglia fare politica di sottoporsi a un confronto costante con essi, proponendo messaggi e un’immagine pubblica capaci di essere persuasivi, in qualche modo anche seduttivi. Concetti ben distanti dal potere russo, che semmai si pone come assertivo, se non come intimorente: Putin che cavalca a torso nudo in Siberia vuole mandare un messaggio di forza e salute, non di seduzione. Macron e Brigitte in spiaggiaTant’è che non abbiamo e non vedremo mai fotoreportage di Putin che cammina romanticamente con la moglie sulla spiaggia come ha fatto Macron: il potere russo non è mai stato umanamente innamorato, tranne l’eccezione clamorosa di Gorbaciov, che infatti in Russia è passato alla storia come l’arrendevole liquidatore della potenza sovietica. 

La terza frattura inerisce i tempi e le modalità della comunicazione. Chiunque entri in una metropolitana russa troverà un numero importante dei viaggitori immersi nella lettura di un libro, molti di più di quanto se ne trovi nei vagoni di una metropolitana occidentale, in gran parte impegnati a spippolare il proprio smartphone, magari anche impegnati a leggere notizie o post di politica. La comunicazione del potere in Russia pretende tempi lunghi, vuole essere didattica, specifica e argomentata, quella occidentale oramai si riduce ai pochi caratteri di un tweet o una battuta che deve passare nei telegiornali principali. Il pubblico occidentale ha oramai una soglia di attenzione di 8 secondi per quanto riguarda le reazioni a persone od oggetti, pure in calo rispetto ai dodici secondi di venti anni fa. Il politico occidentale non può più permettersi di fare ragionamenti arzigogoglati o usare parole desuete. Al contrario, l’efficacia su Twitter, addirittura la capacità di stare su TikTok, sono oggi considerate come una qualità politica tout court, alla base della capacità di suscitare consenso (followers, retweet, condivisioni) e di promuovere cause e iniziative sociali o politiche. 

Per lo più in Occidente se raggiungi il potere la tua comunicazione con gli elettori si limiterà a interventi epidermici e di conferma delle persuasioni condivise. Si affanna ad argomentare chi sta all’opposizione e deve provare a bucare il muro della disattenzione con la lentezza del ragionamento. 

Il potere russo vuole essere autorevole come un professore universitario, possibilmente di storia o di filosofia. Il discorso di Putin del 23 febbraio, quando ha ufficialmente dichiarato il riconoscimento delle Repubbliche autonome del Donbass e di Luhansk e implicitamente dichiarato la guerra, è un escursus storico e ideale di 56 minuti che nessun politico occidentale affronterebbe, conscio che la curva di attenzione dei suoi elettori crollerebbe al massimo dopo un minuto e 46 secondi alla frase “…è necessario ora dire alcune cose in merito alla storia di questa vicenda per capire cosa sta accadendo oggi”. Al di là delle forzature storiche e ideologiche, Putin ha voluto giustificare la guerra facendo una didattica del pensiero storico, filosofico e geopolitico che caratterizza l’ideologia del suo sistema di potere. Ha ritenuto, probabilmente a ragione, che per il pubblico russo quella fosse la modalità più efficace e gli unici sondaggi disponibili indicano che almeno la metà dei russi ancora lo appoggia. Su YouTube il video integrale  del discorso con i sottotitoli in inglese è stato avviato da circa 440.000 utenti e possiamo realisticamente ipotizzare che solo il 10% di essi sia arrivato alla fine: 40,000 persone in tutto il mondo! Se voleva essere un discorso persuasivo anche per gli occidentali il suo impatto è stato nullo. Ma ovviamente questo interessa a Putin davvero poco e non è un caso che l’unico capace di fare battute sferzanti ed efficaci sia il ministro degli esteri Lavrov: «I partner occidentali devono imparare a usare la diplomazia in modo professionale. (Essa) è stata creata per risolvere situazioni di conflitto e alleviare la tensione, e non per viaggi a vuoto in giro per i Paesi e degustare piatti esotici a ricevimenti di gala» (oggetto il ministro degli esteri italiano). E anche in questo caso con un tono di superiorità che è tipico del rapporto dei russi con un Occidente sempre visto come superficiale, frivolo, impreparato.

Si è così venuta a creare, e non dal 23 febbraio ma da decenni, una comunicazione impossibile tra Russia e paesi occidentali, al di là del fatto oggettivo che oggi i russi sono gli invasori e gli occupanti di uno stato riconosciuto da tutti i paesi del mondo. 

Ed ecco che vi è la classica zanzara che fa perdere la testa all’elefante. Ai discorsi di Putin che giustificano la guerra entro uno scenario storico e ideale lungo un millennio, Zelenski risponde con tweet sarcastici. Mentre Putin parla scuro in volto con le donne di quanto sia stata difficile la decisione di scatenare la guerra, Zelenski continua a sorridere in tutti i suoi interventi pubblici. Al tavolo chilometrico al capo del quale Putin incontra i suoi ospiti, Zelenski risponde mettendo la sua sedia all’altezza di quelle dei giornalisti. Così, mentre sui campi di battaglia l’esercito russo è preponderante, sui media circolano solo i video dei successi militari ucraini, perché la Russia nemmeno ammette di essere in guerra e ha attuato una dura censura preventiva. 

Tranne il caso di intellettuali e studiosi chiamati a intervenire per qualche minuto nei talk show, l’Occidente non si premura più di tanto di capire le ragioni della Russia e quest’ultima non intende porsi al livello di attenzione e comprensione dei fatti del pubblico occidentale. 

Ma puoi disinterressarti di quanto comprende di te il tuo interlocutore solo se scegli di vivere in un mondo a parte, in una sorta di autismo politico che non è più sostenibile in un mondo globalizzato. E in realtà è proprio quello che ha scelto di fare la Russia: allontanarsi dall’Occidente pur di salvaguardare quelli che reputa i suoi diritti storici e geopolitici alla sicurezza nazionale, attuare una sorta di autoesclusione storica, emarginarsi consapevolmente dai processi di integrazione mondiale che la Russia ritiene indirizzati solo a favorire le nazioni occidentali o le nazioni ad esse allineate. D’ora in avanti non si tratterà più di tentare di appianare delle divergenze di comunicazione e di obiettivi strategici, ma di gestire l’incomunicabilità di mondi che torneranno a coltivare la loro distanza. 

Facebook becomes Meta: rehearsal for a digital totalitarism?

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Facebook becomes Meta: rehearsal for a digital totalitarism?

Those who believe that Mark Zuckerberg by launching Meta wants us to forget his credibility problems, perhaps by getting us to go back to playing with avatars as in Second Life, have little understanding of the Menlo Park giant’s strategies.

Instead, the inception of Meta Platforms Inc. underlies an attempt to achieve a radical transformation of the human condition as it has been defined since the use of writing in the last 5,500 years. Just as writing represented a leap in the ability of homo sapiens to understand himself, think about the world and relate to it, so too the vision and goals of Zuckerberg, as well as of most Silicon Valley theorists, from the Singularity of Raymond Kurzweil, director of engineering at Google, to the transhumanist perspectives disseminated by philosophers such as Nick Bostrom, no longer concern the development of enormously profitable enterprises, but the claim to impose a new anthropological leap – the definition of a new human condition based on new technologies that will no longer define an organic totality but a digitised one.

The digital veil of Maya

This leads to the total subsumption of the human being in a pervasive, ubiquitous, highly sensory-dense infosystem, “collapsed” as when in astrophysics there is an enormous thickening of subatomic particles, because, as philosopher Cosimo Accoto explains, it is the result of “sensing, networking, mining, sorting and rendering operations that will also evoke, from time to time, saturating synthetic environments of high and other dimensionality (x-reality)”.

As a consequence, the way we work and produce will also change, as will the global value chain, which we have always imagined and represented as a horizontal sequence, but which we will have to imagine more as a stack made up of various stratifications: physical and digital, conceptual and virtual. Accoto suggests that value will be produced by ‘value collapses’, i.e. as a result of value stratifications capable of merging with each other at a given time to offer a radically innovative experience or service: no longer a high-speed train, but teleporting; no longer a university course on a PC screen, but an astrophysics lesson flying at the speed of light between planets and galaxies. These are not illusions of an amusement park, after which, some naive realists might think, we will return to our concrete and difficult everyday existence.

Today, not even the barista down the street has a naive realist attitude towards the world. Not only do we all know that reality is not as it appears to us, but that it is also the result of multiple cognitive filters. Two centuries ago, one of the masterpieces of Western philosophy opened with this warning:

It then becomes clear and certain to him (a man) that he does not know a sun and an earth, but only an eye that sees a sun, a hand that feels an earth; that the world around him is there only as representation, in other words, only in reference to another thing, namely that which represents; and this is himself.”

(Arthur Schopenhauer, The World as Will and Representation, 1818, first book)

We are now well beyond wearables, the devices that datify the human body as a constant source of data. The RayBan glasses made by Facebook in collaboration with Essilor Luxottica are the first example of a prosthesis that is no longer intended to imitate the senses, but to enhance them. The transition from glasses to microchips installed directly in the retina will be a short one. Also, the transition from virtual reality gloves to sheaths for using our whole body for datafication and interacting better in this augmented reality will be short. The datafication of the world will not only concern the extraction of data from our lives, but the symbolic and sensory apparatus that has defined the relationship of the human being with the world will be supplemented by a new layer of contents and interfaces that will end up adding a new veil of Maya, to quote the Vedas, again through Schopenhauer. But we will be forced to wrap ourselves in this digital veil of Maya, if we do not want to live as outsiders or social outcasts at all. Just as today, those who do not have a mobile phone number risk not even being able to access the State’s digitized registry services, we cannot exclude that the drive of Zuckerberg and his Californian buddies will be to push us to live ‘first and foremost’ in their metaverse.

The overcoming of the mobile Internet that still characterizes the 4G phase of digitalization takes place through what Zuckerberg calls the embodied Internet – the Internet is no longer in our pockets, but we become part of the Internet. The virtual body takes over from the real body. While up to now the virtual body has been a shadow, a data-driven wake of the actions of the real body, we are witnessing a reversal of the relationship: the virtualized subject takes the center of experience thanks to Augmented and Virtual Reality that enables the digital body to have experiences that are precluded to the physical body. This is not a new reflection for the most experienced left-wingers. In his 2018 text “L’algoritmo sovrano“, Renato Curcio pointed out that “For the first time in the history of our species (…) human experience is no longer predominantly carried out in the space-time of bodies in relation to each other but is also and simultaneously projected into a virtual space-time. We are invested by two asymmetrical processes regulated by different logics that impose on us, willingly or unwillingly, a radical and permanent dissociation of identity (…)“. But Zuckerberg makes the leap beyond (Meta, precisely, in ancient Greek) this dissociation by giving the digitalized body a primacy it did not have until now.

The infosystem in which the digital bodies of Meta’s users will operate will not only be the result of the interaction between the technological infrastructure (5G and 6G, virtual and augmented reality, wearables, and so on) and the 3D apps developed and hosted by this digital environment, but will also depend on how much businesses, institutions and citizens accept this new human condition.

Noah Yuval Harari recently sounded the alarm about the risk that human beings will soon be ‘hacked’ by the artificial intelligence tools developed and put to use by the big global oligopolists of the Information and Data Economy. The only way to deal with this, according to Harari, is a general agreement among sovereign states to impose rules on these global oligopolists and their ability to extract data from the lives of individuals. Although it appears to be a frontier proposal, Harari’s call, compared to the goals Zuckerberg promises to achieve in Meta, seems like a call to good manners.

Can we still control the GAFAMs?

Source: Statista

The shareholders of GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), the big global oligopolists of the digital age, and of all the companies involved in data capitalism, are today spreading a new argument to claim their huge profits: not only, traditionally, they would be the recognition of their merits, but they represent the resources needed to pursue a project of transformation and supposed improvement of humanity. This is a very strong argument: to continue to impose and make the global public accept the regulatory Wild West, scandalous tax exemptions, policies hindering competition and innovation, data mining in order to implement the ‘logical anticipation of objective developments‘ (as Hannah Arendt feared about totalitarianism in the early 20th century), in exchange for a better and even longer and healthier life for hundreds of millions of people. This is a totalitarian attitude, in a twofold sense: as an orientation to map people’s lives from birth to death, from waking up to goodnight; as an ambition to propose a meaning and a direction to the lives of those who rely on these info-environments, in some way replacing both rites and religions, as well as the modern state sovereignty and its services.

The power of GAFAM and the whole system of companies working to realize their ambitions is no longer just a matter of industrial economics, competition, protection of consumers and their privacy, regulation, as if we were dealing with gas or information. If 50 years later, between the 1930s and the 1970s, the oil and telecommunications oligopolies could still be tackled with relatively similar instruments. The same cannot be said for realities such as GAFAM for three reasons:

    • their global scale and their ubiquity, which hardly allows themselves to be bogged down by the regulations of a specific country;
    • the constant expansion of their areas of impact and surveillance in individual lives;
    • the dataism ideology, in which the principles of the market and the stock exchange are overtaken by a teleology that justifies all conduct in a Faustian interpretation of their role.

The biggest mistake politicians and economists have made is not understanding that applying analogy schemes and solutions that have more or less worked in other sectors does not make sense in this case. Responding to Facebook’s challenge by citing the success of the break-up of the AT&T monopoly and the creation of Baby Bells, a 30-year old case, means failing to understand the ideas that drive the depths of companies such as Facebook, Google, and hundreds of thinkers united by a transhumanist vision, which does not only imply, as is commonly thought, a cyborg outcome for human existence, but a rethinking of what we call ‘reality’.

This totalitarian horizon cannot be countered only by a stale critique of the limits of development, based on the exhaustion of natural resources that digital expansion has so far speeded up rather than reduced. We have to start from the observation that not only the institutional and regulatory system, but also the entire elaboration of man’s thought about himself from his beginnings to the present day, the entire sapiential and rationalistic apparatus, is not keeping pace with the technological acceleration underway. One should ask oneself whether, as in the case of military technologies that are kept hidden so as not to terrify mankind, it would not be appropriate to at least try to slow down certain developments (or, at least, their delivery) while waiting to fully understand the consequences. A simple solution would be to allow certain technologies to be introduced in certain countries (admittedly, cynically, they would be a kind of a guinea pig countries), while the more mindful countries, often at the same time the most attractive markets, could assess the impact and in the meantime equip themselves to manage these innovations.

Technology is not an autonomous process, but is always the result of political choices, even, if not especially, when politics lets it develop in ways that are, at first sight, deemed as ‘free’. Countries like Russia and China have shown that Google and Facebook are not perfect services that impose themselves in every market, but totalitarian infosystems, politically supported by the US, that inevitably come into conflict with authoritarian or tout court totalitarian forms of state. So-called liberal democracies should understand that their protection of liberist freedom could be reversed into allowing digital totalitarianism everything. And, paradoxically, some of the fiercest and most argued critics of digital totalitarianism come from right-wing politicians and thinkers, based on classical (and sometimes trivial) libertarian assumptions, while American liberals have often distinguished themselves by their collateralism to the policies and objectives of GAFAM.

Indeed, a certain moderate and compatibilist European left-wing still lives under the illusion that technological progress is a factor in the liberation of human beings, without understanding that every technology immediately poses a relationship of domination. The challenge today is not simply to be aware of the many shapes of this new domination, but to develop brand new conceptual tools to cope with that.

Useful book and links

Marc Andreessen, Why the software is eating the world, 2011, https://pdf4pro.com/amp/view/why-software-is-eating-the-world-1bb986.html

Hannah Arendt, The Origins of Totalitarism, Schocken Books, 1966

Benjamin Bratton, The Stack, on Software and Sovereignity, The Mit Press, 2016

Renato Curcio, L’Algoritmo Sovrano. Metamorfosi identitarie e rischi totalitari nella società artificiale, Sensibili alle Foglie, 2018

Arnold Gehlen, Man. His Nature and Place in the World, Columbia University Press, 1987

Raymond Kurzweil, The singularity in near, Viking, 2005

Nick Bostrom, Superintelligence, Oxford University Press, 2014

Max Tegmark, Life 3.0. Being Human in the Age of Artificial Intelligence, Milano, Penguin, 2018

Shoshana Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism, Profile Books, 2019 (my review here, in Italian)

Facebook becomes Meta: rehearsal for a digital totalitarism?

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Facebook becomes Meta: rehearsal for a digital totalitarism?

Those who believe that Mark Zuckerberg by launching Meta wants us to forget his credibility problems, perhaps by getting us to go back to playing with avatars as in Second Life, have little understanding of the Menlo Park giant’s strategies.

Instead, the inception of Meta Platforms Inc. underlies an attempt to achieve a radical transformation of the human condition as it has been defined since the use of writing in the last 5,500 years. Just as writing represented a leap in the ability of homo sapiens to understand himself, think about the world and relate to it, so too the vision and goals of Zuckerberg, as well as of most Silicon Valley theorists, from the Singularity of Raymond Kurzweil, director of engineering at Google, to the transhumanist perspectives disseminated by philosophers such as Nick Bostrom, no longer concern the development of enormously profitable enterprises, but the claim to impose a new anthropological leap – the definition of a new human condition based on new technologies that will no longer define an organic totality but a digitised one.

The digital veil of Maya

This leads to the total subsumption of the human being in a pervasive, ubiquitous, highly sensory-dense infosystem, “collapsed” as when in astrophysics there is an enormous thickening of subatomic particles, because, as philosopher Cosimo Accoto explains, it is the result of “sensing, networking, mining, sorting and rendering operations that will also evoke, from time to time, saturating synthetic environments of high and other dimensionality (x-reality)”.

As a consequence, the way we work and produce will also change, as will the global value chain, which we have always imagined and represented as a horizontal sequence, but which we will have to imagine more as a stack made up of various stratifications: physical and digital, conceptual and virtual. Accoto suggests that value will be produced by ‘value collapses’, i.e. as a result of value stratifications capable of merging with each other at a given time to offer a radically innovative experience or service: no longer a high-speed train, but teleporting; no longer a university course on a PC screen, but an astrophysics lesson flying at the speed of light between planets and galaxies. These are not illusions of an amusement park, after which, some naive realists might think, we will return to our concrete and difficult everyday existence.

Today, not even the barista down the street has a naive realist attitude towards the world. Not only do we all know that reality is not as it appears to us, but that it is also the result of multiple cognitive filters. Two centuries ago, one of the masterpieces of Western philosophy opened with this warning:

It then becomes clear and certain to him (a man) that he does not know a sun and an earth, but only an eye that sees a sun, a hand that feels an earth; that the world around him is there only as representation, in other words, only in reference to another thing, namely that which represents; and this is himself.”

(Arthur Schopenhauer, The World as Will and Representation, 1818, first book)

We are now well beyond wearables, the devices that datify the human body as a constant source of data. The RayBan glasses made by Facebook in collaboration with Essilor Luxottica are the first example of a prosthesis that is no longer intended to imitate the senses, but to enhance them. The transition from glasses to microchips installed directly in the retina will be a short one. Also, the transition from virtual reality gloves to sheaths for using our whole body for datafication and interacting better in this augmented reality will be short. The datafication of the world will not only concern the extraction of data from our lives, but the symbolic and sensory apparatus that has defined the relationship of the human being with the world will be supplemented by a new layer of contents and interfaces that will end up adding a new veil of Maya, to quote the Vedas, again through Schopenhauer. But we will be forced to wrap ourselves in this digital veil of Maya, if we do not want to live as outsiders or social outcasts at all. Just as today, those who do not have a mobile phone number risk not even being able to access the State’s digitized registry services, we cannot exclude that the drive of Zuckerberg and his Californian buddies will be to push us to live ‘first and foremost’ in their metaverse.

The overcoming of the mobile Internet that still characterizes the 4G phase of digitalization takes place through what Zuckerberg calls the embodied Internet – the Internet is no longer in our pockets, but we become part of the Internet. The virtual body takes over from the real body. While up to now the virtual body has been a shadow, a data-driven wake of the actions of the real body, we are witnessing a reversal of the relationship: the virtualized subject takes the center of experience thanks to Augmented and Virtual Reality that enables the digital body to have experiences that are precluded to the physical body. This is not a new reflection for the most experienced left-wingers. In his 2018 text “L’algoritmo sovrano“, Renato Curcio pointed out that “For the first time in the history of our species (…) human experience is no longer predominantly carried out in the space-time of bodies in relation to each other but is also and simultaneously projected into a virtual space-time. We are invested by two asymmetrical processes regulated by different logics that impose on us, willingly or unwillingly, a radical and permanent dissociation of identity (…)“. But Zuckerberg makes the leap beyond (Meta, precisely, in ancient Greek) this dissociation by giving the digitalized body a primacy it did not have until now.

The infosystem in which the digital bodies of Meta’s users will operate will not only be the result of the interaction between the technological infrastructure (5G and 6G, virtual and augmented reality, wearables, and so on) and the 3D apps developed and hosted by this digital environment, but will also depend on how much businesses, institutions and citizens accept this new human condition.

Noah Yuval Harari recently sounded the alarm about the risk that human beings will soon be ‘hacked’ by the artificial intelligence tools developed and put to use by the big global oligopolists of the Information and Data Economy. The only way to deal with this, according to Harari, is a general agreement among sovereign states to impose rules on these global oligopolists and their ability to extract data from the lives of individuals. Although it appears to be a frontier proposal, Harari’s call, compared to the goals Zuckerberg promises to achieve in Meta, seems like a call to good manners.

Can we still control the GAFAMs?

Source: Statista

The shareholders of GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), the big global oligopolists of the digital age, and of all the companies involved in data capitalism, are today spreading a new argument to claim their huge profits: not only, traditionally, they would be the recognition of their merits, but they represent the resources needed to pursue a project of transformation and supposed improvement of humanity. This is a very strong argument: to continue to impose and make the global public accept the regulatory Wild West, scandalous tax exemptions, policies hindering competition and innovation, data mining in order to implement the ‘logical anticipation of objective developments‘ (as Hannah Arendt feared about totalitarianism in the early 20th century), in exchange for a better and even longer and healthier life for hundreds of millions of people. This is a totalitarian attitude, in a twofold sense: as an orientation to map people’s lives from birth to death, from waking up to goodnight; as an ambition to propose a meaning and a direction to the lives of those who rely on these info-environments, in some way replacing both rites and religions, as well as the modern state sovereignty and its services.

The power of GAFAM and the whole system of companies working to realize their ambitions is no longer just a matter of industrial economics, competition, protection of consumers and their privacy, regulation, as if we were dealing with gas or information. If 50 years later, between the 1930s and the 1970s, the oil and telecommunications oligopolies could still be tackled with relatively similar instruments. The same cannot be said for realities such as GAFAM for three reasons:

    • their global scale and their ubiquity, which hardly allows themselves to be bogged down by the regulations of a specific country;
    • the constant expansion of their areas of impact and surveillance in individual lives;
    • the dataism ideology, in which the principles of the market and the stock exchange are overtaken by a teleology that justifies all conduct in a Faustian interpretation of their role.

The biggest mistake politicians and economists have made is not understanding that applying analogy schemes and solutions that have more or less worked in other sectors does not make sense in this case. Responding to Facebook’s challenge by citing the success of the break-up of the AT&T monopoly and the creation of Baby Bells, a 30-year old case, means failing to understand the ideas that drive the depths of companies such as Facebook, Google, and hundreds of thinkers united by a transhumanist vision, which does not only imply, as is commonly thought, a cyborg outcome for human existence, but a rethinking of what we call ‘reality’.

This totalitarian horizon cannot be countered only by a stale critique of the limits of development, based on the exhaustion of natural resources that digital expansion has so far speeded up rather than reduced. We have to start from the observation that not only the institutional and regulatory system, but also the entire elaboration of man’s thought about himself from his beginnings to the present day, the entire sapiential and rationalistic apparatus, is not keeping pace with the technological acceleration underway. One should ask oneself whether, as in the case of military technologies that are kept hidden so as not to terrify mankind, it would not be appropriate to at least try to slow down certain developments (or, at least, their delivery) while waiting to fully understand the consequences. A simple solution would be to allow certain technologies to be introduced in certain countries (admittedly, cynically, they would be a kind of a guinea pig countries), while the more mindful countries, often at the same time the most attractive markets, could assess the impact and in the meantime equip themselves to manage these innovations.

Technology is not an autonomous process, but is always the result of political choices, even, if not especially, when politics lets it develop in ways that are, at first sight, deemed as ‘free’. Countries like Russia and China have shown that Google and Facebook are not perfect services that impose themselves in every market, but totalitarian infosystems, politically supported by the US, that inevitably come into conflict with authoritarian or tout court totalitarian forms of state. So-called liberal democracies should understand that their protection of liberist freedom could be reversed into allowing digital totalitarianism everything. And, paradoxically, some of the fiercest and most argued critics of digital totalitarianism come from right-wing politicians and thinkers, based on classical (and sometimes trivial) libertarian assumptions, while American liberals have often distinguished themselves by their collateralism to the policies and objectives of GAFAM.

Indeed, a certain moderate and compatibilist European left-wing still lives under the illusion that technological progress is a factor in the liberation of human beings, without understanding that every technology immediately poses a relationship of domination. The challenge today is not simply to be aware of the many shapes of this new domination, but to develop brand new conceptual tools to cope with that. 

Useful book and links

Marc Andreessen, Why the software is eating the world, 2011, https://pdf4pro.com/amp/view/why-software-is-eating-the-world-1bb986.html

Hannah Arendt, The Origins of Totalitarism,  Schocken Books, 1966

Benjamin Bratton, The Stack, on Software and Sovereignity, The Mit Press, 2016

Renato Curcio, L’Algoritmo Sovrano. Metamorfosi identitarie e rischi totalitari nella società artificiale, Sensibili alle Foglie, 2018

Arnold Gehlen, Man. His Nature and Place in the World, Columbia University Press, 1987

Raymond Kurzweil, The singularity in near, Viking, 2005

Nick Bostrom, Superintelligence, Oxford University Press, 2014

Max Tegmark, Life 3.0. Being Human in the Age of Artificial Intelligence, Milano, Penguin, 2018

Shoshana Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism, Profile Books, 2019 (my review here, in Italian)

Facebook diventa Meta: prove di totalitarismo digitale?

Il mondo immateriale Social minds

Facebook diventa Meta: prove di totalitarismo digitale?


Chi crede che Zuckerberg con Meta voglia farci dimenticare i suoi problemi di credibilità, magari facendoci tornare a giocare con gli avatar come su Second Life, ha capito poco delle strategie del colosso di Menlo Park.

La creazione di Meta Platforms Inc. sottende invece il tentativo di giungere a una radicale trasformazione della condizione umana come è stata definita dall’uso della scrittura ad oggi, negli ultimi 5500 anni. Come la scrittura ha rappresentato un salto nella capacità dell’homo sapiens sapiens di comprendere se stesso, pensare il mondo e relazionarsi con esso, allo stesso modo la visione e gli obiettivi di Zuckerberg come di gran parte dei teorici della Silicon Valley, dalla Singolarità di Raymond Kurzweil, director of engineering in Google, alle prospettive transumaniste diffuse da filosofi come Nick Bostrom, non riguardano più lo sviluppo di imprese enormemente profittevoli, ma la pretesa di imporre un nuovo salto antropologico, la definizione di una nuova condizione umana basata su nuove tecnologie che definiranno non più una totalità organica, ma una totalità digitalizzata. Si arriva così alla sussunzione totale dell’essere umano in un infosistema pervasivo, ubiquo, ad altissima densità sensoriale, “collassato” come quando in astrofisica si ha un enorme addensamento di particelle subatomiche, perché, spiega il filosofo Cosimo Accoto, risultato di “operazioni di sensing, networking, mining, sorting e rendering che evocheranno di volta in volta anche ambienti sintetici saturanti ad alta e altra dimensionalità (x-reality)”.

Come conseguenza cambieranno anche le modalità di lavoro e di produzione e anche la catena del valore globale, che abbiamo sempre immaginato e rappresentato come una sequenza orizzontale e che invece bisognerà immaginare più come una pila fatta di varie stratificazioni: fisiche e digitali, concettuali e virtuali. Accoto suggerisce che il valore si produrrà per “collassamenti di valore”, ovvero a seguito di stratificazioni di valore capaci di fondersi l’un l’altro in un determinato momento per offrire un’esperienza o un servizio radicalmente innovativo: non più un treno ad alta velocità, ma il teleporting; non più un corso universitario sullo schermo di un pc, ma una lezione di astrofisica volando alla velocità della luce tra pianeti e galassie. Non si tratta di illusionismi da luna park, usciti dal quale, potrebbe pensare qualche ingenuo realista, ce ne torneremo alla concreta e dura esistenza di tutti i giorni.

Oggi nemmeno il barista sotto casa non ha verso il mondo un atteggiamento da ingenuo realista. Non solo sappiamo tutti che la realtà non è come ci appare, ma che è anche il frutto di molteplici filtri cognitivi. Due secoli fa uno dei capolavori della filosofia occidentale si apriva con questo avvertimento:

L’uomo non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra; (egli sa) che il mondo da cui è circondato non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso.

(Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818, primo libro)

Siamo oggi già ben oltre i wearables, i dispositivi indossabili che datificano il corpo umano come fonte costante i dati. Gli occhiali RayBan realizzati da Facebook in collaborazione con Essilor Luxottica sono il primo esempio di una protesi che non intende più imitare i sensi, ma aumentarli. Dagli occhiali ai microchip installati direttamente nella retina il passo sarà breve. Dai guanti per la realtà virtuale a guaine per usare datificare tutto il nostro corpo e interagire al meglio in questa realtà aumentata il passo sarà breve altrettanto. La datificazione del mondo non riguarderà solo l’estrazione di dati dalle vite, ma l’apparato simbolico e sensoriale che ha definito il rapporto dell’essere umano con il mondo viene integrato da un nuovo strato di contenuti e interfacce che finisce per aggiungere un nuovo velo di Maya, per citare sempre i Veda attraverso Schopenhauer. Ma in questo velo di Maya saremo costretti ad avvolgerci se non vogliamo rischiare una vita da reietti o da marginali. Così come oggi chi non ha un numero di cellulare rischia di non poter accedere nemmeno ai servizi anagrafici dello Stato, non possiamo escludere che la spinta di Zuckerberg e compagnia bella californiana e cinese sarà quella di spingerci a vivere “innanzitutto e per lo più” nei loro metaversi.

Il superamento dell’internet mobile che ancora caratterizza la fase 4G della digitalizzazione avviene attraverso quella che Zuckerberg chiama l’embodied internet: internet non è più nelle nostre tasche, ma noi diventiamo parte di internet. Il corpo virtuale prende il sopravvento sul corpo reale. Mentre finora il corpo virtuale è stato un’ombra, una scia datificata delle azioni del corpo reale, si assiste a un rovesciamento del rapporto: il soggetto virtualizzato prende il centro dell’esperienza grazie a una realtà aumentata e virtuale che abilitano il corpo digitale a fare esperienze precluse al corpo fisico. Non si tratta di una riflessione nuova per la sinistra più avvertita: già nel suo testo del 2018 “L’ algoritmo sovrano”, Renato Curcio evidenziava che “Per la prima volta nella storia della nostra specie (…) l’esperienza umana non si compie più in prevalenza nello spazio-tempo dei corpi in relazione ma si proietta anche e simultaneamente in uno spazio tempo virtuale. Siamo investiti da due processi asimmetrici regolati da logiche diverse che c’impongono, volenti o nolenti, una dissociazione identitaria radicale e permanente (…)”. Ma il salto oltre (Meta, appunto) questa dissociazione Zuckerberg lo pone offrendo al corpo digitalizzato una primazia che finora non aveva.

L’infosistema in cui opereranno i corpi digitali degli utenti di Meta non sarà solo il risultato dell’interazione tra l’infrastruttura tecnologica (5 e 6G, realtà virtuale e aumentata, wearables, e così via) con le app in 3D sviluppate e ospitate da questo ambiente digitale, ma dipenderà anche da quanto imprese, istituzioni e cittadini accetteranno questa nuova condizione umana.

Noah Yuval Harari ha recentemente lanciato un allarme sul rischio che gli esseri umani verranno in tempi brevi “hackerati” dagli strumenti dell’intelligenza artificiale sviluppati e messi a valore dai grandi oligopolisti globali dell’Information and Data Economy. L’unica possibilità per farvi fronte, secondo Harari, è un accordo generale tra gli Stati sovrani per imporre regole a questi oligopolisti globali e alla loro capacità di estrarre i dati dalla vita degli individui. Per quanto appaia una proposta di frontiera, l’appello di Harari, a confronto degli obiettivi che si ripromette di realizzare Meta, sembra un richiamo alle buone maniere.

Fonte: Statista

Gli azionisti dei GAFAM (Google Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), i grandi oligopolisti globali dell’epoca digitale, e di tutte le imprese coinvolte nel capitalismo dei dati, diffondono oggi una nuova argomentazione per rivendicare i loro enormi profitti: non solo, tradizionalmente, essi sarebbero il riconoscimento dei loro meriti, ma rappresentano le risorse necessarie a perseguire un progetto di trasformazione e di supposto miglioramento dell’umanità. Si tratta di un argomento molto forte: continuare a imporre e far accettare all’opinione pubblica globale il far west normativo, esenzioni fiscali scandalose, le politiche ostative della concorrenza e dell’innovazione, l’estrazione di dati al fine di attuare l’”anticipazione logica di sviluppi oggettivi” (come Hannah Arendt paventava dei totalitarismi di inizio Novecento), in cambio di una vita migliore e anche più lunga e sana per centinaia di milioni di persone. Si tratta chiaramente di un’attitudine totalitaria, intesa in senso duplice: come orientamento a mappare la vita delle persone dalla nascita alla morte, dal risveglio alla buonanotte; come ambizione di proporre un senso e un indirizzo alle esistenze di chi si affida a questi infoambienti, in qualche modo sostitutivo tanto di riti e religioni, quanto di sovranità statale e relativi servizi.

Il potere dei GAFAM e di tutto il sistema di imprese che lavora alla realizzazione delle loro ambizioni, non è più solo un problema di economia industriale, di concorrenza, di tutela dei consumatori e della loro privacy, di regolazione insomma, come se avessimo a che fare con il gas o l’informazione. Se a distanza di 50 anni, tra gli anni 30 e gli anni 70, gli oligopoli del petrolio e delle telecomunicazioni potevano essere affrontati ancora con strumenti relativamente simili, non si può dire lo stesso per realtà come i GAFAM per tre ordini di motivi:

  • la loro scala mondiale e la loro ubiquità, che difficilmente si lascia impaniare dai regolamenti di uno specifico paese
  • la costante dilatazione dei loro ambiti di impatto e di sorveglianza nelle singole esistenze,
  • l’ideologia dataista postcapitalista, in cui i principi di mercato e di borsa sono superati da una teleologia che giustifica ogni condotta in un interpretazione faustiana del loro ruolo.

Il più grande errore di politici ed economisti e non aver capito che applicare per analogia schemi e soluzioni che avevano più o meno funzionato in altri settori non ha senso in questo caso. Rispondere alla sfida di Facebook citando il successo della rottura del monopolio dell’AT&T e la creazione delle Baby Bells, un caso vecchio di 30 anni, significa non capire le idee che muovono oggi il profondo di aziende come Facebook, Google, di centinaia di pensatori accumunati da una visione transumanista, la quale non implica, come banalmente si pensa, solo un esito cyborg per l’esistenza umana, ma ancor di più un ripensamento di quella che chiamiamo “realtà”

Non si può opporre a questo orizzonte totalitario solo una stantia critica sui limiti dello sviluppo, basata sull’esaustione delle risorse naturali che l’espansione digitale finora ha velocizzato e non ridotto. Bisogna partire dalla constatazione che non solo il sistema istituzionale e regolamentare, ma anche l’intera elaborazione del pensiero dell’uomo su se stesso dai suoi primordi ad oggi, l’intero apparato sapienziale quanto razionalistico, non tiene il passo dell’accelerazione tecnologica in corso. Bisognerebbe chiedersi se, come nel caso di tecnologie militari che vengono tenute nascoste per non terrorizzare l’umanità, non sarebbe il caso di almeno tentare di rallentare certi sviluppi in attesa di comprenderne bene le conseguenze. Una soluzione semplice sarebbe quella di consentire l’introduzione di certe tecnologie in certi paesi (certo, cinicamente, sarebbero un po’ dei paesi-cavie), mentre i paesi più avveduti, spesso al tempo stesso i mercati più appetibili, potrebbero valutarne gli impatti e nel frattempo attrezzarsi per gestire queste innovazioni.

La tecnologia non è un processo autonomo, ma è sempre frutto di scelte politiche, anche, se non soprattutto, quando la politica lascia che essa si sviluppi in modalità a prima vista “libere”. Paesi come la Russia e la Cina hanno dimostrato che Google e Facebook non sono servizi perfetti che si impongono in ogni mercato di per sé, ma infosistemi totalitari, politicamente sostenuti dagli USA, che entrano inevitabilmente in conflitto con forme statuali autoritarie o tout court totalitarie. Le democrazie cosiddette liberali dovrebbero capire che la loro tutela della libertà non può capovolgersi nel consentire tutto al totalitarismo digitale. Ed è paradossale che alcune delle più feroci e argomentate critiche al totalitarismo digitale vengano da politici e pensatori di destra, sulla base di classici assunti libertari, mentre spesso i liberals americani si sono distinti per il loro collateralismo alle politiche e agli obiettivi dei GAFAM.

Dal canto suo anche una certa sinistra italiana, moderata e compatibilista, vive ancora nell’illusione che il progresso tecnologico sia un fattore di liberazione degli esseri umani, senza capire che ogni tecnologia pone immediatamente una relazione di dominio. Molti dei suoi esponenti farebbero bene a studiare le tematiche transumaniste, ma probabilmente si fermerebbero al prefisso trans e, per come è stato scritto il famigerato DDL Zan, nemmeno quello hanno capito.

 

Testi e link di riferimento

Marc Andreessen, Why the software is eating the world, 2011, https://pdf4pro.com/amp/view/why-software-is-eating-the-world-1bb986.html

Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, 2004

Benjamin Bratton, The Stack, on Software and Sovereignity, The Mit Press, 2016

Renato Curcio, L’Algoritmo Sovrano. Metamorfosi identitarie e rischi totalitari nella società artificiale, Sensibili alle Foglie, 2018

Arnold Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, 2010,

Raymond Kurzweil, The singularity in near, Viking, 2005

Nick Bostrom, Superintelligence, Oxford University Press, 2014

Max Tegmark, Vita 3.0. Essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2018

Shoshana Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism, Profile Books, 2019 (mia recensione qui)

Fenomenologia di Vincenzo De Luca

Social minds

Fenomenologia di Vincenzo De Luca

(e della sinistra post-democratica)

Da oramai 3 decenni imperversa sui media, prima locali e oggi sociali, l’unico politico costantemente impegnato a imitare i suoi imitatori. 

L’affabulatore

All’epoca dei suoi primi successi su una televisione locale, privilegiava il dialogo con i telespettatori, dando conto dei suoi risultati e delle sue idee, al massimo redarguendo qualche ardimentoso cittadino che aveva osato criticarlo e crogiolandosi nei complimenti che regolarmente arrivavano tramite le telefonate in studio. 

Oggi, in epoca di social media, si dedica per lo più a monologhi in forma di proclami via dirette facebook. Il tono della voce indugia su una scala di bassi, scandendo le parole e a volte le sillabe con fare pedagogico e talvolta a mo’ di “consiglio amichevole” di un malavitoso. Le pause, gli sbuffi, le incrinature della voce, studiate come ogni bravo attore, indicano, di volta in volta, rabbia trattenuta per l’incapacità degli avversari, benigna commiserazione verso l’ottusità altrui, complicità con gli spettatori nell’irridere i critici.

Tipica mimica deluchiana durante un’esibizione su LIRA TV

L’eloquio forbito non serve solo ad affermare il suo livello culturale, ma anche a incutere un timore reverenziale in una parte del suo pubblico, affezionato quanto ingenuo, come tutti i fan d’altronde. Un lessico così ricercato creerebbe una distanza incolmabile con il pubblico se non venisse inframmezzato da insulti colloquiali, dialettali, o schiettamente volgari di cui presentiamo un florilegio minimo: somaro, sciacallo, pinguino, cretino, idiota, imbecille, farabutto, sfessato, Neanderthal, pistolino, chiancarelle, chiattona, portaseccia e mezzapippa. Il nostro performer dedica particolare cura all’elaborazione degli epiteti da destinare agli avversari: “chierichetto” quando vuole essere banalmente gentile, “faccia come un fondoschiena usurato”, quando è in vena creativa. Si tratta oramai di un pezzo forte del repertorio preteso dal suo pubblico ad ogni sua performance e la collazione di queste ingiurie creative alimenta una specie di sottocategoria giornalistica. 

Sarebbe però banale ridurre Vincenzo De Luca alle invettive e agli insulti che lo hanno fatto diventare una star del web internazionale. La storia di questo politico meridionale dice molto della parabola della sinistra italiana, del suo fallimento, che l’ha portata a essere al contempo conformista e marginale; teoricamente inclusiva, ma elitista nella pratica; sulla carta progressista, ma conservatrice, se non addirittura autoritaria, nella sostanza, come anche la pandemia ha dimostrato. 

Dalle rivendicazioni collettive all’affermazione del singolo 

Nato a Ruvo del Monte, un paesino della Basilicata di mille abitanti, e cresciuto a Salerno, dove si laurea in filosofia agli inizi degli anni Settanta, il futuro “sceriffo” era destinato a essere un professore di liceo, un onesto quanto oscuro intellettuale di provincia, se non avesse intrapreso l’attività politica con il partito comunista, impegnandosi in particolare nelle lotte dei contadini. Una tipica sintesi perseguita dal PCI: gli intellettuali che si confrontavano con il popolo, se ne facevano portavoce, lo elevavano in termini di consapevolezza e capacità di organizzazione. Non è  il percorso di vita di un singolo: dal Dopoguerra in avanti tantissimi giovani intellettuali di sinistra decisero di impiegarsi nei servizi dello Stato o di farsi assumere nelle fabbriche private per fare attività politica in questi contesti. Lo stipendio fisso era una motivazione secondaria rispetto all’obiettivo di cambiare i rapporti di forza sociali dall’interno dello Stato e nella società. Chi si dedicava esclusivamente al Partito, faceva una scelta di vita che implicava sacrifici ancora maggiori in termini personali ed economici. 

Dunque il nostro attuale performer di successo viene da una gavetta che per circa 15 anni ha visto come pubblico contadini, braccianti, allevatori, operai delle fabbriche della filiera agroalimentare di Campania e Lucania, un pubblico al quale parlare semplice, diretto, con un linguaggio immediato era una necessità, ma anche un obbligo morale e politico. 

Immaginiamo la situazione: un giovane intellettuale meridionale fresco di una tesi di laurea su Francis Bacon, il primo teorico moderno della razionalizzazione del mondo, si confronta con un mondo che negli anni Settanta era in parte ancora ancestrale per cercare di portarlo nell’analisi marxista dei rapporti di forza economici e mobilitarlo politicamente. Tanti giovani idealisti si sarebbero arresi nel constatare quanto la razionalità dei libri risultasse lontana da quella realtà. Non il ambizioso eroe, che in quegli anni gli avversari  soprannominarono, con un’iperbole lungimirante, Pol Pot, il dittatore cambogiano che sterminò gli intellettuali e chiunque portasse gli occhiali per creare una società totalmente rurale. 

Una vulgata giornalistica facilona associa la politica degli anni Settanta quasi sempre e solo ai terrorismi, di destra come di sinistra. In realtà, gli anni Settanta sono stati l’acme di un percorso, intrapreso due decenni prima sulla scorta delle intuizioni gramsciane, in cui la sinistra ha davvero creduto di redimere il popolo, non svuotandone la cultura, ma valorizzandola come elemento di orgoglio e di identità e dunque di liberazione, oggetto di studio e ispirazione per grandi studiosi e artisti, come Ernesto De Martino Italo Calvino, Roberto Leydi e Roberto De Simone,  e tanti altri. 

Quel che oggi sappiamo della civiltà contadina italica, che era rimasta la medesima per forse tremila anni ed è stata distrutta in Italia in meno di tre generazioni, lo dobbiamo per lo più ai lavori di ricerca ispirati nel Dopoguerra dal PCI, capaci anche di demistificare certe modalità di idealizzazione del “popolo” da parte di chi non era mai stato in mezzo ad esso. Vincenzo De Luca in mezzo ai contadini si è invece formato, e ha capito nel corso degli anni Ottanta come la battaglia ideale e sociale del PCI stava perdendo colpi, a seguito delle trasformazioni della società, del consumismo televisivo, dell’emergenza di  nuovi soggetti lavorativi che portavano nuovi bisogni e forse soprattutto dei limiti, in termini di idee e di personale politico, che il PCI manifestava a comprendere questi fenomeni. La caduta del muro di Berlino è stata soltanto la pietra tombale su un progetto di trasformazione sociale e politica che era già morto da anni. 

Così, a inizio degli anni Novanta, migliaia di persone dal notevole spessore intellettuale si ritrovarono allora non solo disorientati, ma spesso anche disoccupati a causa del fallimento di un progetto politico che aveva convogliato per decenni nella sua realizzazione migliaia, se non decine di migliaia, di esistenze, condizionandone scelte e qualità della vita. Si smantellava una burocrazia intellettuale e si rinunciava così a ogni ambizione di redimere i cafoni, i lavoratori, gli ignoranti, i marginali, quelli che un tempo erano stati invece l’oggetto privilegiato delle cure del PCI: le masse industriali e civiltà contadina non si sarebbero mai fuse in un “popolo” capace di indirizzare un percorso di avanzamento sociale e politico. Il dilagare del berlusconismo, inteso come un’idea di società individualista, opportunista, antilegalitaria, anche negli strati meno agiati della popolazione veniva vissuto dalla sinistra come un tradimento. Pochi però si sono posti qualche domanda sugli effetti che il crollo di certi ideali, l’agile trasformismo di tanti dirigenti e l’opportunismo da sopravvivenza di tanti altri facevano sul sentire comune di ex militanti e tesserati. Il berlusconismo dilagò anche perché trovò le casematte abbandonate da chi vi era a guardia. 

Sparito il mondo in cui si era formato De Luca, quando gli intellettuali facevano politica per redimere gli ignoranti; chiuse le sezioni dove ci si ritrovava a ragionare tra istruiti e militanti e prima ancora a conoscersi e a socializzare; svanita ogni prospettiva di cambiamento: restavano singole emergenze e indignazioni del momento, singoli obiettivi di questa o quella associazione monotematica, vertenze territoriali e diritti dei singoli (gay, disabili, immigrati) raramente visti in una dimensione collettiva.

Come tanti suoi ex compagni di partito, il nostro personaggio capì che la sua sopravvivenza politica passava attraverso la conquista in prima persona delle leve del potere amministrativo. Per decenni il ruolo di segretario del partito comunista e gli incarichi amministrativi erano stati tenuti ben separati. Nel 1993 De Luca impone da segretario cittadino del PDS la sua candidatura a sindaco di Salerno, conscio che i rapporti si erano ribaltati: il potere non si trovava più nel partito politico, locale o nazionale, o nei corpi sociali che organizzavano le istanze della cittadinanza, ma nell’amministrazione e nel governo. Svanisce l’ambizione di dilatare il potere e i diritti del popolo e predomina l’idea di un cittadino-cliente che chiede di essere amministrato attraverso servizi efficienti gestiti da tecnici competenti. 

Da plebe a popolo, dalla gente ai follower

Plebe, sudditi, proletariato, popolo, massa, gente, individui: sono tutti termini che sottendono una specifica ideologia e una specifica relazione di potere tra l’oggetto e il discorso che ne parla. Quando ci si lamenta che è sparito “il popolo” (qualsiasi cosa con questo termine si intenda) non ci si riferisce a un’estinzione di tipo antropologico come nel caso della cultura contadina: semplicemente è diventato minoritario o marginale un certo approccio che implicava una determinata modalità di (auto)rappresentazione.

Nel corso del Novecento la cosiddetta cultura popolare è stata di volta in volta oggetto di disprezzo, repressione, riscoperta o valorizzazione a seconda dei rapporti di potere nella società. Quello che una volta veniva chiamato popolo attraverso le lenti di un’ideologia di liberazione, diventa negli anni Novanta la “‘ggente” sotto le telecamere della cosiddetta Tv-verità, in cui i singoli che vi apparivano dovevano per lo più manifestare solo sfoghi, proteste, rabbia, urla, sentimenti basici e per lo più negativi: un coro vociante chiamato solo a fare da contrappunto e a confermare le tesi dei conduttori, i Funari o i Michele Santoro, guarda caso quest’ultimo proveniente dal PCI di Salerno. 

In questi anni di trionfo mediatico del suo storico antagonista salernitano, De Luca deve accontentarsi delle dirette da una sgarrupata televisione locale (“De Luca non vali una LIRA TV” è lo slogan di protesta di quegli anni a Salerno) per affermare il suo lavoro amministrativo e affinare il suo appeal televisivo. Nei suoi proclami televisivi il caudillo di Salerno sostituisce presto la pedagogia del popolo di gioventù con l’ortopedia del buon cittadino che egli ritiene debba, da buon amministratore, imporre. A un’idea di trasformazione democratica dei servizi pubblici subentra presto l’uso dei vigili urbani come una guardia pretoriana personale. La tanto esaltata movida esalta il disimpegno dei giovani e lascia ampi spazi all’autocrazia localistica, mentre i pochi spazi realmente autogestiti vengono  marginalizzati, criminalizzati, se non a volte anche perseguiti. Un modello di amministrazione e un’idea di società che in qualsiasi paese d’Europa verrebbero definiti di destra. Perché allora la sinistra salottiera di Fabio Fazio ama tanto Vincenzo De Luca? Perché quest’ultimo, nella sua studiata incontinenza linguistica, dà voce al disprezzo che questi “ceti medi riflessivi” riservano ai miracolati della politica come ai dipendenti pubblici fannulloni, agli immigrati che spacciano e non sanno fare la differenziata, ai vicini maleducati, ai fattorini che gli portano il cibo a casa senza il dovuto rispetto, ai giovani ignoranti e sboccati, a tutti quelli che disturbano l’agognata quiete nelle loro vite e confermano le loro supponenze. D’altra parte quale è lo zoccolo duro degli elettori della sinistra “moderata” italiana se non un ceto medio conformista e in cerca di sicurezza economica e tranquillità sociale?

Vi è in questo fatto la profonda contraddizione che condanna oramai la sinistra italiana a essere minoranza numerica nel paese, proprio a fronte della sua sbandierata superiorità morale e intellettuale: mentre un politico leghista, berlusconiano, post-fascista non si sente migliore dei suoi elettori e rappresenta coerentemente i loro principi e il loro sentire, un politico di sinistra italiana rimarca spesso una certa distanza (se non imbarazzo), dai suoi elettori. Il politico della sinistra italiana attuale farebbe volentieri a meno dei suoi elettori, e ancor di più delle elezioni (come in effetti accade). 

Nel collasso ideale e antropologico che ha caratterizzato la politica italiana dell’ultimo trentennio, De Luca è stato un raro animale politico capace di adattarsi all’ambiente e agli scenari che rapidamente si susseguivano, attivando doti mimetiche a seconda dei contesti e delle situazioni in cui si trova. La sua comunicazione è tutto tranne che improvvisata e connette mondi ben diversi: le volute volgarità del suo linguaggio lo fanno percepire loro prossimo a ignoranti e analfabeti di ritorno; i termini aulici e le allusioni di varia natura sono colte da chi le deve intendere a ben altri livelli; le metafore, le iperboli, le metonimie, le pause, gli sbuffi, le urla sono il precipitato storico che dai comizi di piazza arriva fino alle miniclip e ai meme sui media sociali e sui sistemi di messaggistica. 

 

La pandemia, prove generali di post-democrazia 

La pandemia è stata per De Luca la grande occasione per mettere in atto senza freni il suo narcisismo comunicativo e le sue pulsioni sadico-autoritarie. 

Ricordare nel dettaglio le sue sparate grandguignolesche, come sull’utilizzo del lanciafiamme come antisettico, sarebbe stucchevole quanto stupirsi, dopo le nostre argomentazioni, degli applausi scroscianti che ha ottenuto dai cosiddetti liberali di sinistra per queste e altre affermazioni della sua incontinenza verbale. Ora delle due l’una: qualsiasi governante in qualsiasi parte del globo che avesse affermato una cosa del genere (pensiamo per esempio a Trump) sarebbe stato trattato o da psicotico o da buffone. Il lettore avrà oramai capito che noi propendiamo per la seconda ipotesi, nella variante del personaggio da avanspettacolo, eppure sconcertano ancora le risate crasse e indulgenti che la sinistrata sinistra italiana ha riservato a queste e altre sparate, mentre milioni di famiglie campane vivevano nelle quattro mura domestiche momenti di sconforto, panico e spesso di fame.

Mentre la pandemia in primavera risparmiava il Meridione, Sua Incontinenza se ne attribuiva il merito e metteva in campo un confinamento durissimo (vietato anche l’asporto) che realizzava così il suo sogno segreto: esercitare, almeno per qualche settimana, un controllo assoluto sulla popolazione, facendo delle città un deserto poco problematico. 

E quando poi in autunno è arrivata la seconda ondata quali sono stati i risultati di questa starlette della pandemia, invitato costantemente da Fabio Fazio per rivitalizzare l’audience con i suoi monologhi della piangina contro il mondo incapace? Abbiamo un ulteriore paradosso: a parlare in tv di governo del Covid e dintorni viene chiamato il governatore della regione con più ammalati d’Italia al momento e quello che ha registrato spesso i peggiori numeri. 

Secondo il Gimbe, la Campania resta ad oggi la quarta peggiore regione italiana (dopo Calabria, Sicilia e Basilicata) nel rapporto tra incidenza per 100.000 abitanti nelle ultime due settimane e percentuale di incremento dei casi. 

Sempre secondo i dati elaborati dalla Fondazione Gimbe sulla base dei dati ufficiali del Ministero della Salute, la Campania è oggi di gran lunga la regione con la maggiore incidenza di casi di Covid19. 

La regione è risultata sempre agli ultimi posti in Italia per numero di tamponi ogni 100.000 abitanti. La Campania resta la peggior regione d’Italia per numero di posti in terapia intensiva per 100.000 abitanti. Dopo l’attivazione del piano elaborato dall’ex commissario Domenico Arcuri, la Regione Campania ha aggiunto appena 9 posti effettivi di terapia intensiva ai precedenti 355 complessivi. Dal canto suo il Veneto è passato con lo stesso piano da 494 a 804 posti letto. 

Repubblica (proprio il quotidiano dei liberali di sinistra, che paradosso) ha prima denunciato la presunta truffa dei tamponi con bandi su misura tra l’Istituto Zooprofilattico di Portici e la struttura privata Ames e poi ha svelato il trucco dei posti letto disponibili e attuabili: ecco allora che il moralismo sbandierato dal Governatore degrada in una farsa scarpettiana, mentre i posti letti appaiono e spariscono come il gioco delle tre carte a piazza Ferrovia a Napoli. 

Dati e fatti risaputi a livello regionale che vengono coperti a livello nazionale da una comunicazione che usa oramai il personaggio-intrattenitore come uno schermo alle inadeguatezze del politico-amministratore. Non si tratta di una novità assoluta, la comunicazione è oramai l’unica forma autonoma di politica. Eppure allarma vedere come i liberali di sinistra non abbiano capito che De Luca non è un’eccezione narcisista quanto provocatoria, ma l’esito, caricaturale ma prevedibile, dell’indirizzo antipopolare e tecnicista che ha gradualmente prevalso nella sinistra italiana. Se si rinuncia a un progetto politico di cambiamento per celebrare competenze tecniche insindacabili, governare finisce per essere l’attuazione di determinate verità, ovvero un regime autoritario. Così un’emergenza sanitaria viene interpretata e affrontata come un problema di ordine pubblico, ribaltando sui cittadini, in termini di minore libertà, le inadeguatezze dei governanti. 

 

Per quanto abbia superato i settant’anni, Vincenzo De Luca non è un personaggio del passato, e studiarlo ci aiuta a capire come potrebbe essere l’esito dell’attuale post-democrazia: una società verticistica dove un solo leader di un’elite ristretta tiene a bada masse di persone impoverite nel reddito, nella cultura e nei diritti, impaurite dalla precarizzazione delle loro esistenze.  Esattamente il modello di società contro cui tutte le sinistre del mondo si sono battute, almeno fino a trent’anni fa, con l’aggiunta oggi dell’introversione narcisistica indotta dai social media.

L’influencer De Luca tutto questo lo sa bene, come sa che solo la popolarità in rete gli garantisce un futuro politico.  Perciò se dovrà gareggiare in lazzi con l’ultimo guitto che lo imita o prestarsi alle attese del pubblico televisivo pur di mantenere questa popolarità, da bravo performer lo farà. The show must go on. 

Pandemia: il panico come strumento di governo

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Pandemia: il panico come strumento di governo

Non vi è questione più politica che decidere della vita e della salute dei cittadini.

L’emergenza Covid-19 ci offre un ottimo esempio di cosa significa vivere in un’epoca incerta, dove i dubbi e le ipotesi della scienza finiscono per intrecciarsi con le fake news, la post-verità e l’impatto degli influencer sul dibattito pubblico.

Le verità del coronavirus

La pandemia ci ha fatto conoscere una pletora di virologi, infettivologi, immunologi, epidemiologi, igienisti, patologi, microbiologi, come anche veterinari (Ilaria Capua lo è, studiosa di virus animali), pediatri ed ematologi (Franco Locatelli lo è) che presidia costantemente gli spazi di informazione, invade i palinsesti fino a tracimare nelle trasmissioni dedicate allo svago. Chi pensa sia solo vanità o ansia per accaparrarsi i gettoni di presenza sottovaluta questi scienziati.

Da chi prospetta burberamente scenari apocalittici a chi gigionescamente rassicurava sul virus oramai in ritirata, ogni scienziato compete affinché la sua visione del virus prevalga, puntando a persuadere la politica e ricavando forza dalla visibilità che offrono loro i media tradizionali e non.

Decenni di studi epistemologici hanno relegato in soffitta le illusioni positiviste di una scienza che si avvicina progressivamente alla verità. La ricerca scientifica da sola non stabilisce “le verità” che poi informano il vivere sociale: dopo Foucault il nesso sapere-potere per il governo politico dei corpi e delle menti è quasi una banalità. Se fino a trent’anni fa le impostazioni scientifiche per affermarsi avevano bisogno solo del potere politico (il quale controllava gran parte dei media di massa), oggi la scienza ha bisogno di legittimarsi nel caotico mondo dei media sociali, dove si formano e si sfaldano costantemente le persuasioni delle tribù del web. Roberto Burioni che maramaldeggia su Twitter non sta solo esaltando il suo superego: sta portando avanti un’operazione programmatica (spesso con il supporto di consulenti di comunicazione) in cui lo scienziato vuole acquisire una predominanza rispetto ai suoi interlocutori, negando che il suo lavoro sia, come quello di chiunque, inserito in una rete di condizionamenti sociali, economici e ideologici che ne indirizza le ricerche e le posizioni.

Sappiamo bene che ogni forma di potere (politico, scientifico, economico, culturale, eccetera) che si rivendica come autonoma punta a prevalere rispetto alle altre, e in un’epoca di disorientamento a seguito della delegittimazione dei tradizionali vincoli di “sapere-potere”, ogni cittadino cerca delle nuove bussole. Lo scienziato che cerca di sostituirsi al politico, che si fa politico sull’onda della pandemia, non annuncia l’arrivo degli esperti al potere, quanto la morte della politica.

Non vi è questione più politica che decidere della vita e della salute dei cittadini. Eppure la politica sembra rinunciare a decidere, tra il fatalismo dell’andrà tutto bene (ovvero speriamo nell’italica fortuna: buonanotte!) e l’approssimazione di chi non ha capito l’infezione (e nemmeno la differenza tra test sierologici e antigenici rapidi).

La crisi non è dunque (solo) sanitaria: è la crisi, pressoché globale, forse definitiva, della politica come è stata elaborata negli ultimi duecento anni.

L’opposizione di vero e falso che caratterizza gli orientamenti delle persone comuni  è stata messa definitivamente in crisi dalla rottura epistemologica causata dall’avvento dei media digitali. Un tempo il potere si manifestava pubblicamente attraverso un apparato di saperi la cui liturgia quotidiana erano i flussi di comunicazione veicolati e legittimati dai media di massa. Il crollo della lettura dei media a stampa, la frammentazione della dieta mediatica, l’emergere di nuovi soggetti della comunicazione capaci di diventare rilevanti grazie alla loro capacità di hackerare gli algoritmi delle piattaforme non vanno letti solo come conseguenze della digital disruption nello specifico settore dell’editoria. Sono anche fatti che indeboliscono i meccanismi di controllo e legittimazione dei poteri consolidati, prima di tutto quello politico e poi quello amministrativo, che non riesce più a governare una società sempre più (giustamente) scettica verso il potere politico e la sua capacità di guidarla.

La pandemia comunicativa

Cosa implica trasformare un problema specifico di alcune categorie in un problema generale? Tutti siamo potenzialmente disabili, o diabetici o malati di tumore ed è banalmente razionale prendere precauzioni per evitare di diventarlo. Eppure fino a che punto queste precauzioni devono farci desistere dal fare sport estremi, o dal goderci una succulenta fetta di torta o dal rinunciare a una grigliata con gli amici? Non parliamo di un problema di dieta, ma un problema di governo dei viventi.

Con questo non mi iscrivo alle fila dei negazionisti. Il virus esiste, la pandemia esiste, le persone muoiono, ma sarebbe giusto raccontare chi sta morendo. Ovvero dire che la media delle persone decedute è di 80 anni con una mediana di 82; che il 64% dei deceduti soffriva di 3 o più patologie; che fino al 30 ottobre si sono registrati solo 170 decessi di persone senza patologie pregresse, il 3,5% dei 37.458 totali. E sono dati pubblici dellIstituto Superiore di Sanità (tra l’altro con una grafica essenziale ed efficace che si distanzia anni luce dall’orrendo excel del CTS che ogni giorno il Corriere della Sera mette in homepage), non di qualche misterioso agente della disinformazione globale.

Non da medico, ma da cittadino mi chiedo se sia giusto e opportuno chiudere intere città o regioni a fronte di un’infezione che risulta letale per gli anziani con patologie croniche, ma che si risolve in media in 15 giorni negli altri pazienti.

In un testo fondamentale ma poco noto al dibattito culturale nostrano, Georges Canguilhem ha studiato “Il normale e il patologico”. All’inizio del testo l’epistemologo francese ricorda che la malattia entra ed esce dall’uomo come una porta e che essa “non è soltanto squilibrio o disarmonia: è anche e soprattutto sforzo della natura nell’uomo per ottenere un nuovo equilibrio”. Se applichiamo il concetto di normale fuori dall’ambito statistico finiremo per andare incontro a innumerevoli abusi. Il medico, lo scienziato, definiscono cosa è normale e cosa è patologico, mentre il politico decide cosa è normale e cosa richiede uno stato di eccezione, di emergenza. E dall’intreccio tra scienza e politica che storicamente, si definisce chi ha pieni diritti di cittadinanza e chi no: se le donne hanno un cervello che consenta loro di votare, se i gay debbano essere rieducati, chi va internato in una clinica psichiatrica perché disturba l’ordine costituito e così via. La politica è ancora capace di decidere nello specifico  e nel settoriale o si limita a imporre il potere di uno stato di eccezione permanente?

E dunque la questione finisce per essere: come salvaguardare l’insieme dei diritti di cittadinanza e il diritto specifico, ed essenziale, alla salute.

Chiudere tutto un paese significa non essere capaci di decidere niente, come un codice penale che si limitasse a un unico articolo “Non uccidere” sarebbe semmai un atto di fede. Riconoscere che il Covid-19 è una epidemia che uccide prevalentemente gli anziani e che dunque vi è una fascia specifica della popolazione che va protetta anche sottraendo ad essa pezzi di diritti di cittadinanza potrebbe essere l’inizio di un dibattito capace di uscire dal panico dei numeri generici che ci propinano i media tradizionali.

Solo da qualche giorno iniziano a essere diffusi dei numeri e si fanno proposte per mettere in sicurezza gli anziani. Per quanto possa sembrare inaudito o addirittura eugenetico, non si tratta che l’anticipazione di quanto accadrà sempre di più a fronte di una popolazione occidentale sempre più anziana e dunque fragile. Una società deve accettare la paralisi o attrezzarsi per proteggere al meglio i propri nonni da queste e future pandemie?

Per chi lo vuol vedere si tratta di un dato di fatto da affrontare, così come la protezione dei bambini è una priorità assoluta, per la quale applicare eccezioni e protezioni che terminano con l’adolescenza.

Il panico al potere

Il sito web La Repubblica, il quotidiano alfiere del panico di Stato spara in Homepage proprio ora (ore 8.08 del primo novembre):  “Venti giorni per evitare il collasso. Conto alla rovescia per gli ospedali”. Si tratta del peccato originale del tono della comunicazione che ha scelto il governo Conte, governo che prima della pandemia sembrava destinato a durare pochi giorni e che ha colto nell’emergenza Covid la sua ragione d’essere e in una comunicazione ansiogena lo strumento per rafforzare il consenso attorno al capo del governo. Come ha detto Massimo Cacciari, il delirio normativistico implica considerare gli italiani un popolo di deficienti. E per quanto una parte consistente di essi di essi lo sia effettivamente, un governo democratico non può non promuovere una comunicazione e una cultura della consapevolezza e della responsabilità piuttosto che il panico come modello di governo. Siamo davvero sicuri che un nipote adolescente che conviva con i nonni non sia capace di capire che deve essere attentissimo non tanto per evitare la sua morte ma quella dei suoi amati parenti? In un paese di proprietari di seconde case gli anziani non potrebbero essere invitati a staccarsi dai figli conviventi e ritirarsi in altre case di proprietà? E se vi è bisogno di assistenza domiciliare comuni e regioni non potevano preparare nei mesi estivi dei piani straordinari? E soprattutto, se fasce della popolazione devono rimanere confinate, non sarà un costo enorme garantire loro gratis i generi di prima necessità.

Ecco perché le proteste sono giustificate verso un governo che dopo mesi non sa ancora leggere l’impatto reale della pandemia, non ha fatto nulla o male per attrezzarsi alla seconda ondata e ha scelto di restare a galla usando mezzi emozionali indegni di un paese democratico. Aggiungiamo poi che rilassare le misure di contenimento durante l’estate per poi colpevolizzare un’intera popolazione in autunno è anche un po’ da vigliacchi, a maggior ragione se si sa che il periodo di incubazione è di quindici giorni e non tre mesi. E se questo è un problema pressoché globale tranne una manciata di paesi, è la dimostrazione globale della crisi della politica rispetto alle emergenze sanitarie, ambientali e digitali presenti e a venire. E non sarà un algoritmo a salvarci dalla complessità che abbiamo creato senza saperla più governare.

Da oltre trent’anni intellettuali come Ulrick Beck hanno sviluppato i ragionamenti sulla società del rischio, ovvero sul fatto che viviamo in società dove il rischio è un elemento centrale delle nostre vite e che dunque richiede la promozione di una cultura che prepari e accetti l’incertezza (sociale, economica, medica). A questa educazione al rischio (e dunque al suo contenimento), le classi dirigenti hanno preferito propinare ai loro cittadini l’illusione di vivere in una società sicura, chiedendo in cambio di rinunciare a certe libertà, così scivolando verso una società securitaria.

Quindi la prima cosa da evidenziare è questa (in)consapevole dimenticanza del fatto che le epidemie altamente mortali sono un’evenienza tutt’altro che improbabile nelle nostre esistenze. Il disvelamento di questa falsa persuasione aveva gettato nel panico milioni di italiani a marzo e ora l’impreparazione dei governanti li sta buttando nella disperazione dell’ineluttabile.

Vi è un’altra strada ora? Bisognerebbe avere politici capaci di ammettere i loro errori e cambiare totalmente approccio nella comprensione e nella comunicazione della pandemia, non per concedere la soddisfazione di un banale autodafé, ma perché, per riprendere il testo di Canguilhem “l’errorecostituisce non la dimenticanza o il ritardo del compimento promesso, ma la dimensione propria della vita degli uomini e indispensabile al tempo della specie”.

Utopia oggi in Italia.

 

Bibliografia

Gaston Bachelard, Il nuovo spirito scientificoMimesis, Milano

Georges Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino, 1998

Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano, 2005

Carlo Acutis: come si costruisce un santo al tempo dei media sociali

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Carlo Acutis: come si costruisce un santo al tempo dei media sociali

Dopo aver guardato sui nostri display gli sculettamenti di Gianluca Vacchi, gli scherzi scemi di Frank Matano, i video demenziali di Luis Sal, le videovendite di Elisa Maino e finanche la tragedia dei brufoli di Giulia De Lellis, finisce per essere una blanda penitenza l’attuale profluvio di video evocativi, interviste adoranti al prozio o all’amichetta delle elementari, i collegamenti in ginocchio con la volitiva mamma, gli approfondimenti di giornalismo misticheggiante in gloria di Carlo Acutis, lo sfortunato adolescente, oggi beato e prossimo santo, proposto dalla Chiesa cattolica come “influencer di Dio”.

Con un po’ di evangelica pazienza, supereremo anche questa campagna di comunicazione.

Semmai, essa è una buona occasione per chiedersi quali obiettivi si pone e se funziona la strategia di presenza sui media sociali della chiesa cattolica negli anni di Bergoglio.

Perché Carlo Acutis?

La biografia di Carlo Acutis è di per sé alquanto banale: bambino intelligente, sensibile e con le possibilità di avere un’eccellente istruzione, da adolescente stava iniziando a dimostrare le sue doti quando una leucemia fulminante lo uccide nel 2006. La trasfigurazione agiografica risulta, come sempre, molto più affascinante. Il giovane appassionato di informatica diventa così un genio precoce, da entusiasta credente diventa un esempio di fede miracolosa, l’adolescente chiassoso viene raccontato quasi come un giovane profeta circondato dai suoi seguaci, o followers.

Questo meccanismo di trasfigurazione è alquanto comune post mortem, anche fuori dalla religione. Ma ancora più interessante è che l’agiografia di Carlo Acutis rispecchi in maniera non casuale alcuni aspetti essenziali del papato di Bergoglio: innanzitutto, il culto di Carlo Acutis nasce dalla convergenza (che in termini secolari diremmo alleanza) tra gesuiti e francescani. Acutis, già allievo a Milano dell’Istituto parificato “Leone XIII” gestito dai gesuiti, frequentava Assisi dove la famiglia possiede una villa. Proveniente da una famiglia ricchissima (come San Francesco) e laica (proprio nel senso cui allude l’aggettivo in certi ambienti), il ragazzo volge la sua attenzione ai poveri e nel racconto agiografico converte alla fede con il suo esempio genitori, parenti e domestici.

Una figura vittima di una morte tragica e talmente precoce da non poter avere una biografia divisiva, in cui confluiscono il riguardo per l’elevata estrazione sociale e l’attenzione agli umili, il dialogo tra laici e cattolici, spiritualità e internet, ordinarietà ed eccezionalità, maturità di fede e superstizione. Su questo ultimo punto in molti articoli si lascia filtrare la presunta incorruzione del corpo del novello beato. Sono questi tutti elementi riscontrabili nella teologia del popolo cui tanto deve Papa Bergoglio.

Ma la vera sfida di questo progetto di comunicazione e di pastorale giovanile è riuscire a creare un santino per i media sociali, un riferimento di vita per adolescenti e soprattutto preadolescenti, considerati (a ragione) facile preda dell’ideologia dei media sociali.

La sfida di una chiesa onlife

Mentre le canonizzazioni dei religiosi sono spesso intelligibili solo alla luce degli equilibri di potere tra le varie congregazioni religiose, le canonizzazioni dei laici rappresentano piattaforme programmatiche che definiscono la posizione della Chiesa cattolica verso il potere politico e rispetto alle trasformazioni della società. Insomma, Carlo Acutis è un santo programmatico, un indirizzo sociale, un punto fermo su come la Chiesa cattolica vuole proporsi nella dimensione onlife. Proprio per questo vale la pena confrontare questo percorso con altre esperienze del Novecento. Tratteggiamo allora tre esempi di canonizzazione di persone comuni.

Il caso più celebre resta quello di Maria Goretti, la contadina delle campagne di Latina la quale, appena dodicenne, nel 1902 fu stuprata e uccisa da un altro contadino di poco più grande. Lo storico Giordano Bruno Guerri trasse dalla vicenda il celebre libro “Povera santa, povero assassino” in cui analizzò la costruzione della biografia della bambina vergine e santa, funzionale prima al riavvicinamento tra Chiesa e regime fascista dopo i Patti Lateranensi del 1929, poi, nel dopoguerra, alla campagna di moralizzazione avviata da Papa Pio XII anche come freno alle prime avvisaglie di libertà femminili.

Altri due esempi novecenteschi di santità laica sono indice di specifichi indirizzi di politica pastorale.

La canonizzazione nel 1964, proprio nel corso del Concilio Vaticano II, del paggio di corte Charles Lwanga e dei suoi ventuno compagni, i quali nel 1886 avevano rifiutato di prestarsi ai desideri omosessuali di un re ugandese, esplicitava due linee chiare: l’apertura verso il continente africano e la conferma del magistero in tema di inclinazioni sessuali.

Nel 2004 Giovanni Paolo II ha trovato nella vicenda di Gianna Beretta Molla, morta di tumore pur di non abortire, un esempio emblematico della sua idea di famiglia: rifiuto intransingente dell’aborto anche ai fini terapeutici, donna come moglie sollecita, madre prolifica e casalinga inappuntabile.

La novità novecentesca della santità cattolica proposta come qualcosa di ordinario trova però una nuova sfida nel web, perché non si tratta di un mero media al quale adattare i messaggi, ma di un ambiente sociale e cognitivo che cambia anche in profondità anche la percezione di sè delle persone.

La strategia di comunicazione

Per quanto venga presentato come “influencer di Dio”, Carlo Acutis non può esserlo, per il banale motivo che non può esserlo chi non produce contenuti in quanto, purtroppo, defunto. Certo, Youtube è stato, non per caso, invaso di video che propongono il nuovo beato, diffusi spesso da alcuni canali legati alla fede più popolare come Maria Vision o Medjugorje tutti i giorni, oltre che dagli account istituzionali come TV2000, della diocesi e frati minori di Assisi, di Chiesa di Milano e gli altri “stakeholders” dell’operazione.

Ma si tratta di filmati che devono fare i conti con la inevitabile scarsità di materiale, problema che la famiglia ha affrontato investendo addirittura su dei cartoni animati sulla vita di Carlo. Rimane la onnipresente madre a fare da testimonial, ma finendo poi per ripetere il solito canovaccio e i soliti slogan in ogni intervista o intervento.

Ecco perché, programmaticamente, è stata coinvolta finanche una laicissima firma del Corriere della Sera come Stefano Lorenzetto per proclamare Carlo Acutis “un santo per il web, ricordando che lo stesso Papa Francesco ha citato il giovane per dire che “questi meccanismi della comunicazione, della pubblicità e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati”, ma lui ha saputo uscirne “per comunicare valori e bellezza”. Dunque il web, i social media, la immediatezza del digitale dimentica di altre dimensioni come sfide del progetto di canonizzazione Acutis, e, al contempo, i media tradizionali e anche una certa religiosità tradizionalista. Perciò nella stessa intervista, Lorenzetto deve riportare la fola del corpo incorrotto di Acutis (smentita dalla stessa diocesi di Assisi) e citare vari esempi di trasformazione di ostie in muscolo cardiaco, di gruppo sanguigno AB, per la precisione. Riemerge costantemente la contraddizione di questa campagna di comunicazione: il web, un modello di religiosità capace di interfacciarsi con le dinamiche, anche mentali, dell’oggi, e il costante rimando a una devozione popolare, tridentina del culto.

Alla fine, nonostante gli sforzi di chi segue la comunicazione del progetto di rendere attuale, contemporanea, viva, la figura di Carlo Acutis, essa finisce inevitabilmente per rimanere una formula ideale, esemplare, di ispirazione per giovani già vicini alla fede cattolica, ma incapace di attrarre un numero sostanziale di nuovi “followers”.  Oggi non basta presentare degli esempi cui i cattolici possono ispirarsi, la sfida pastorale (che Bergoglio ha bene in testa quando gigioneggia alzando i pollici e indossando i cappellini da baseball con orrore dei tradizionalisti) è riguadagnare spazio sui media sociali e tra i giovani sostanzialmente indifferenti.

Quello che tuttavia sfugge del tutto all’approccio cattolico ai fenomeni web (e che quindi comporta una significativa irrilevanza fuori dagli stessi circuiti di comunicazione cattolica) è che gli influencer hanno successo non sulla base della loro eccezionalità, ma al contrario grazie alla loro ordinarietà, se non mediocrità, consentendo così ai loro fan di poter aspirare di diventare come loro.

E per quasi duemila anni, fino al Vaticano II, la santità cattolica è stata invece qualcosa di eccezionale, eroico, inattingibile, frutto di virtù uniche e fuori dal comune. E infatti Carlo Acutis viene presentato come un ragazzino eccezionalmente precoce, genio del computer, regista originale in erba, ideatore (e organizzatore) di mostre dal successo globale.

Ma i Millennials e la Z Generation rifuggono dagli esempi inarrivabili. La generazione degli under 20 sta costantemente abbassando le sue ambizioni per poter sopravvivere a condizioni di vita che si prospettano peggiori di quelle dei loro genitori. Questa generazione non cerca degli eroi o dei miti, e men che meno dei santi, ma solo persone simili a loro che possano rassicurarli che l’inconsistenza e la fragilità delle loro esistenze possano essere redente da un algoritmo che li sollevi alla celebrità. Gli influencer più celebri non sono inarrivabili, ma sono oggetto di identificazione proprio per la loro mediocrità.

Ecco come un’operazione di comunicazione come quella costruita attorno alla parabola di Carlo Acutis rileva tutti i suoi limiti rispetto alle esigenze dei giovanissimi e soprattutto in rapporto alla ideologia dei media sociali, che sono emozionali e non riflessivi, mediocrizzanti e non eroicizzanti, epidermici e non profondi, materialistici e non spirituali.

I Millennials e la Z Generation non cercano degli eroi o dei miti, e men che meno dei santi, ma solo persone simili a loro che possano rassicurarli che l’inconsistenza e la fragilità delle loro esistenze possano essere redente da un algoritmo che li sollevi alla celebrità

Si tratta di una sfida pastorale che alcune diocesi storicamente più avvertite stanno comunque affrontando. Il caso di maggior successo è quello di don Alberto Ravagliani, il quale fa catechesi copiando in tutto e per tutto lo stile dei video di Marco Montemagno. La Chiesa di Milano è da decenni molto avanti nel confronto con i mondi ad essa lontani (Carlo Maria Martini istituì la cattedra dei non credenti nel 1987) e, pur non avendo trovato ancora uno stile proprio e originale, dimostra che ha iniziato a studiare i casi di successo sui social.

Il web è uno spazio dove la chiesa si sente se non perdente, di certo sulla difensiva. In quanto potere istituito, la chiesa ha saputo gestire o indirizzare molto bene i media di massa a logica broadcast, uno a molti, ma non riesce a prendere le misure con la reticolarità di un modello che fa emergere facilmente in modalità virale pensieri e tendenze non istituzionali, specialmente sette new age e proposte sincretiche che tanto allarmano i cattolici.

Carlo Acutis sarà dunque un santo programmatico, ovvero un punto di riferimento della strategia di presenza e rilevanza sui media sociali che la chiesa cattolica sta ancora elaborando. Si tratta di un work in progress dai risultati contraddittori che sicuramente registrerà correzioni e aggiornamenti fino alla canonizzazione definitiva. E si tratta di una sfida che non riguarda solo i cattolici ma tutte le organizzazioni che hanno un portato identitario forte e stratificato e sono chiamate ad elaborare ed affermare il loro essere onlife.

Spesso un santo ci dice più cose sulle sfide di un dato momento storico di quanto potremmo credere.

L’illusione della meritocrazia

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L’illusione della meritocrazia

Chi di noi vorrebbe avere a che fare con un collega incapace, un impiegato statale svogliato, un insegnante dei propri figli inadeguato, un medico inesperto, un amministratore locale incapace o addirittura truffaldino? E quante volte invece capita proprio così, e sempre i nostri improperi si mescolano all’usuale preghiera: vogliamo la competenza, la gratificazione del merito, insomma, vogliamo la meritocrazia al potere!

Ecco dunque il toccasana negli ultimi anni sulla bocca di tutti: premiare il merito per superare le ingiustizie in termini di reddito e di ruoli che vediamo tutti i giorni. Ma che cosa è il merito? Merito poi in base a che cosa e per fare che cosa? Chi decide poi chi è meritevole? Abbiamo davvero esempi di merito nelle posizioni di vertice delle società occidentali, a partire dal caso italiano? 

La meritocrazia in realtà è una delle parole chiave più usate e usurate dell’ideologia neoliberale, che in sé semmai giustifica proprio le ineuguaglianze e gli squilibri sociali che tanto ci indignano. 

Se approfondiamo vedremo che la meritocrazia non è altro che uno dei tanti slogan che invece di migliorare la società la rende soltanto più conformista, e questo nel migliore degli esiti. 

Partiamo allora dalla politica, certo proprio l’ambito dove la mediocrità sembra oggi trionfare. Applicare un concetto così indistinto come il “merito” alla politica significa proprio essere presi nella trappola di questo dispositivo linguistico. Chi è meritevole in politica? Chi prende voti a valanga alla Cetto Laqualunque? Chi è esperto di un singolo settore? Chi sa scrivere o argomentare idee a prescindere dalla loro qualità? Chi rappresenta in maniera paradigmatica delle categorie sociali? 

La politica è un’arte complessa, che richiede competenze multiple e a volte persino contraddittorie. E quali sono i parametri su cui giudicare il lavoro di un politico? Chi li decide? Salvare i crediti delle banche francesi e tedesche condannando i greci alla fame è stata una decisione buona per quei due paesi, devastante per generazioni future di elleni. Un reddito di cittadinanza può essere una boccata d’ossigeno per tanti che vogliono rimettersi in carreggiata, ma anche un onere pesante per le casse dello Stato. 

La politica non ha sempre le risposte giuste in assoluto come nei test a risposta multipla, perché la vita non offre quasi mai le risposte giuste. 

Anche in ambito lavorativo il merito non è che una giustificazione a posteriori di certi percorsi di lavoro cui hanno contribuito innumerevoli fattori: l’origine familiare, il paese in cui si vive e il relativo contesto sociale, la fase economica in cui uno vive gli anni della maturità professionale, il sistema scolastico, le attitudini personali, gli incontri personali e professionali e infine la parolina che genera al contempo ansia e speranza: la fortuna. Quanto un incontro o una casualità può indirizzare in un senso o in un altro una carriera, una intera vita? Le generazioni passate erano più umili di noi e riconoscevano alla fortuna un ruolo importante nelle umane vicende. 

La mentalità pseudoscientifica che accompagna il liberismo, quella che ci fa credere che esista una logica lineare e oggettiva entro la quale si concatenino con perfetta razionalità le scelte vincenti o perdenti delle persone, rappresenta un altro modo in cui l’arbitrarietà del sociale e dell’economia viene spacciata come un qualcosa di perfettamente intellegibile cui alcuni si sono attenuti e altri no. 

Credere che una società sappia scegliere i meritevoli è una idea diffusa da chi oggi la domina, ma le elites sono le prime a non crederci. Se non fosse così le elites non costruirebbero dei percorsi esclusivi per i loro figli, per proteggerne lo status e le relative opportunità attraverso specifiche scuole, specifici club, specifici percorsi lavorativi. Chiaro allora che ogni donazione a una scuola o a una università delle elites non è un atto di generosità, ma una garanzia per perpetuare queste differenze sociali ed economiche di cui essi stessi beneficiano. 

Ma un sistema nemmeno tanto oligarchico, quanto proprio plutocratico come quello attuale, deve anche trovare le modalità per legittimarsi. Ecco finalmente spiegata la diffusione degli ultimi anni della retorica della meritocrazia. 

Tanto più una società è ineguale, tanto più esalta la meritocrazia. 

E la esalterà non perché davvero applicata, ma perché in un contesto siffatto le oligarchie predominanti usano questa retorica per controllare le aspirazioni delle classi subalterne e legittimare così il loro potere. 

La meritocrazia può esistere solo in ambiti specialistici (Information Technology innovativa, chirurgia specializzata, progettazione aeronautica, etc.), mentre già i servizi informatici di ordinaria amministrazione o servizi professionali anche di qualità vengono affidati ai circuiti fidati, per appartenenza familiare, politica, massonica, religiosa, di orientamento sessuale e così via. Chi è fuori dai giri o sceglie di esserlo sarà condannato a una esistenza precaria e misera: nessuna possibilità di partecipare al banchetto. Ecco perché quando sentite parlare di meritocrazia in Italia mettete mano alla pistola dell’intelligenza e smentite quella retorica, verificando magari grazie al web che chi la esalta è arrivato dove è arrivato solo tramite amicizie, relazioni e appartenenze. Anche esse un valore, ma ben distante dalla competenza vera e propria. 

Ovviamente l’ideologia sottostante è di stampo neoliberale  Decidi, scegli e agisci in autonomia”, (…) e se fallisci nella vita, evidentemente, è perché non hai sviluppato a sufficienza le tue competenze: insomma, non hai meritato.”, così come il risultato di questa disciplina mentale non può che essere un perfetto conformismo: “l’ideologia del merito suggerisce che è davvero meritevole solo chi accetta il mondo così com’è, modificando se stesso nell’impossibilità di modificare il contesto”, sottolinea icasticamente Marco Meotto nella sua recensione dell’efficace saggio “Contro l’ideologia del merito” di Mauro Boarelli. 

 

Mai il reale era stato tanto spacciato per razionale come nella nostra epoca, almeno fino a quando una pandemia non arriva a dimostrare l’inconsistenza del tutto. Già il Foucauldt delle lezioni del 1978-79 al College de France sottolineava come l’ideologia neoliberista del capitale umano arriva a interpretare in termini di investimento anche il rapporto tra mamma e figlio, per cui tanto più tempo e attenzioni la madre avrebbe dedicato al bambino, tanto più questi avrebbe avuto un percorso di studio e di carriera brillante: l’essere umano interpretato sin dalla nascita come un investimento da cui trarre il massimo, in termini economici, ca va sans dire. 

Così ci siamo ridotti a una scuola che non intende più formare delle personalità complete e capaci di un approccio complesso al mondo, ma solo degli individui funzionali alle esigenze delle imprese, soggetti competitivi più che cooperativi. Il ruolo storicamente delegato alla scuola “di contrasto all’esclusione sociale non è governato da una visione politica autonoma, ma è filtrato attraverso il punto di vista del mercato e delle imprese”, scrive Boarelli. Con questa impostazione, sintetizzata nel Sillabo della scuola italiana emanato nel 2018 secondo il quale gli studenti devono essere idealmente degli imprenditori o dei manager in nuce, è un passo ritrovarsi con celebri licei romani che esaltano il loro essere etnicamente puri e aristocraticamente frequentati per lo più da pargoli di famiglie ricche. 

Se si persuadono le persone che la società è perfettamente razionale, che essa sia basata sul merito e che dunque ogni qualità o inclinazione verrà perfettamente ricompensata (purché aderente alle esigenze delle imprese), il giovane verrà responsabilizzato a inseguire determinati parametri di “successo” e colpevolizzato per i suoi fallimenti, ovvero per non essere riuscito a “matchare” (orrido inglesismo) le esigenze di chi domina la società. 

La meritocrazia non fa che rappresentare la società in maniera banale e semplicistica, con tante caselline in cui dovrebbero trovare perfetta sistemazione le vite di quelli che meglio si adattano alle dimensioni delle stesse caselline. E alla prova dei fatti la meritocrazia è smentita dal Principio di Peter, che recita così: «In una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza». In ogni organizzazione, i membri che mostrano particolari qualità in un ruolo finiscono per essere promossi in un ruolo superiore che non saranno poi capaci di gestire. Sembra una battuta tratta da una striscia di Dilbert, ma è proprio quello che lo psicologo Lawrence J. Peter scoprì già negli anni Sessanta, dimostrando come spesso le posizioni manageriale (sulla base delle quali si valuta il “successo” di una carriera) erano ricoperte da persone che avevano dimostrato di valere in altri ruoli, con il conseguente corollario: “Tutto il lavoro viene svolto da quegli impiegati che non hanno ancora raggiunto il proprio livello di incompetenza”. 

Potremmo applicare anche questo principio alla società intera e dire che magari essa viene portata avanti proprio da chi non si trova ai vertici? 

Beh, sarebbe un’affermazione troppo populista e troppo poco meritocratica, no?

 

Bibliografia

Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza 2019

Marco Meotto, L’ossessione meritocratica, Doppiozero 2019, https://www.doppiozero.com/materiali/lossessione-meritocratica

Lawrence J. Peter, Raymond Hull, Il Principio di Peter, Calypso, 2008

Michel Foucauldt, Nascita della biopolitica Lezioni al College de France 1978-1979, Feltrinelli, 2005

Gary Becker, Il capitale umano, Laterza 2008

Roger Avramanel, Meritocrazia, Garzanti 2011

 

La nemesi del Coronavirus

Biblioteca Social minds

La nemesi del Coronavirus

Nemesi è uno straordinario romanzo breve dell’ultimo Philip Roth che racconta di una epidemia di poliomelite nel 1944 e dei suoi terribili lasciti, soprattutto tra i bambini.

L’angoscia della quarantena, le tragedie di morti premature, le menomazioni a vita dei sopravvissuti e il senso di colpa che comunque li accompagnerà per il resto della vita sono raccontati con una scrittura piana e implacabile come un metronomo.

Il racconto lascia una sensazione di estrema amarezza, l’amarezza per una vita che sembrava destinata alla felicità dopo un avvio tragico e che non riesce a sfuggire al suo destino di sofferenza.

Il protagonista Eugene Cantor, detto Bucky, è un ventenne forte e rigoroso, pienamente compreso e orgoglioso della responsabilità di gestire il campo estivo che fa svagare ed educa i ragazzi ebrei di Newark. 

Orfano di madre e con un padre dall’etica discutibile, si erano presi cura di lui i nonni materni. Il nonno gli aveva tramesso il rispetto delle regole e della parola data, più con l’esempio di una vita semplice e lineare che con le parole.  Se dovessimo trovare un aggettivo per Bucky che non usa Roth nel testo è: solido, fisicamente e moralmente. Bucky ha un unico difetto: una pesante miopia non gli ha consentito di arruolarsi, nonostante il suo fisico. Certo una mortificazione, che all’inizio della storia lo fa un po’ vergognare per non condividere con i suoi coetanei i rischi e l’onore di servire la patria americana. Ma lui ha la missione di educare e proteggere dalla poliomielite i ragazzini del suo campo. Lo immagino come un armadio umano, un po’ tozzo e con occhiali a fondo di bottiglia, che incute rispetto, fiducia e senso di protezione nei bambini. Tutto il suo impegno, la sua meticolosità, la sua sensibilità non basteranno a evitare che l’epidemia si porti via tanti bambini e ad altri rovini per sempre l’esistenza. Anzi, Bucky sarà, in parte, proprio l’untore. Non se lo perdonerà mai, e rinuncerà all’amore per punirsi fino alla fine dei suoi giorni. 

Il senso di colpa, la necessità di espiare la colpa rifiutando la felicità che gli prospetta l’amore incondizionato della sua ragazza non è solo una forma di autolesionismo. Forse riemergono così anche le tare che si porta il destino di Bucky (il padre ladro, la miopia elevata): un difetto, un peccato di origine da espiare, qualcosa di profondamente ebraico. 

L’oblio delle epidemie

Dunque non un libro di evasione, ma un libro che ci aiuta ad accettare l’idea che le epidemie non sono uno sfortunato caso capitato alla nostra generazione, ma parte della storia umana che hanno sempre reclamato la loro quota di morti, e di invalidi e sfregiati permanenti. La fragilità emotiva (in termini di rifiuto, minimizzazione e successivo disorientamento) dimostrata da popolazioni e classi dirigenti in tutto il mondo non è altro che la conseguenza di questo oblio.

Eppure ricordo di aver visto fino a pochi anni fa anche nel mio piccolo paese signori storpi a causa della polio che si erano riusciti a costruire una loro vita professionale ed affettiva. Ma in appena due generazioni sono prevalsi una rassicurante dimenticanza o un ingenuo senso di onnipotenza che ci hanno fatto trovare psicologicamente sguarniti davanti al coronavirus. 

Non accettando più nell’orizzonte del possibile la morte per un virus aereo (nel caso dell’AIDS ci eravamo tranquillizzati col pensare che solo drogati e omosessuali corressero dei rischi a causa di determinati comportamenti), abbiamo passivamente accettato qualsiasi provvedimento che ci prometteva la scomparsa a breve del virus e la salvaguardia nostra e dei nostri cari. Giorgio Agamben lo ha posto in maniera definitiva: “Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?” Agamben ricorda poi lo sfregio dei morti senza un funerale come un fatto unico nella storia della umanità dai tempi di Antigone. Per quanto non sia vero in assoluto, perché ad ogni epidemia ogni cittadina si dotava di una fossa comune dove buttare i morti dopo averli cosparsi di calce viva, il tema merita una riflessione. Come la seconda domanda: i nostri amici, i nostri affetti, evitati perché possibile fonte di contagio. E infine la questione più profonda: la scissione, attuata dalla scienza, tra vita biologica e vita psichica e sociale, per cui come un corpo può essere tenuto indefinitamente in stato vegetativo, così un provvedimento dei governi può rinchiudere agli arresti domiciliari centinaia di milioni di persone in tutto il mondo senza sostanziali proteste. Filosofi come Benjamin Bratton hanno violentemente contestato le idee di Agamben. Già il 15 marzo il filosofo del densissimo saggio “The Stack” (non ancora tradotto in italiano) su Twitter aveva lanciato il suo anatema: “No one should listen to Giorgio Agamben again about anything at all ever again. First line of the linked essay “Faced with the frenetic, irrational and entirely unfounded emergency measures adopted against an alleged epidemic of coronavirus, …”. “Giorgio Agamben is the embodiment of why critical theory is so unbareably broken” aveva commentato un suo follower, in un paese dove i “liberal” stanno combattendo una strenua battaglia contro le minimizzazioni di Trump e la sua ansia di proclamare il suo “tana liberi tutti”.

Il governo della vita diventa più importante della vita stessa

Il punto però non è la fondatezza epidemiologica del confinamento domestico o del distanziamento sociale. Anche in Nemesi, come per qualsiasi altra epidemia prima della scoperta dei vaccini, l’unica profilassi resta rinchiudersi in casa nonostante il caldo tropicale per proteggere specialmente i bambini (e inveendo contro gli italiani untori che avevano portato nel quartiere il virus). No, il punto non è questo. E non si tratta neanche di una anarcoide rivendicazione della libertà di far quel che ci pare. L’argomento più forte esposto da ogni leader politico a difesa del coprifuoco è stato la tutela del sistema sanitario nazionale. 

Appena un secolo fa la questione non si sarebbe nemmeno posta: non esisteva neanche un sistema sanitario talmente efficiente e universalistico, orgoglio e privilegio degli stati economicamente e socialmente più avanzati.

Non si tratta allora di smentire l’esistenza o la virulenza del virus pur di denunciare la violenza del potere costituito sui nostri corpi, ma di comprendere che siamo oggi al contempo preda del virus e dell’apparato burocratico che si prende cura del cittadino, o, per meglio dire, della tecnica, che si manifesta come burocrazia dell’assistenza del welfare state, sotto forma di coercizioni degli stati autoritari, attraverso il comando predittivo della logica algoritmica. La tecnica, costruita o almeno difesa nella sua ragion d’essere come una tutela e un aiuto al cittadino, sopprime i diritti del cittadino pur di perpetuarsi e accrescere i suoi ambiti. 

E’ qui che emergono tutte le contraddizioni del pensiero di sinistra in questa fase di emergenza: la tutela della sanità publica e universalistica passa attraverso la soppressione delle libertà del cittadino, a partire dalla sua libertà dal bisogno, con centinaia di migliaia di persone ridotte alla fame perché impossibilitate a lavorare. Per cui si arriva al paradosso che per tutelare la vita e i diritti dei cittadini (soprattutto di coloro che devono affidare la loro sopravvivenza alla sanità pubblica), sono stati sottratti ai cittadini più fragili le basi materiali della loro esistenza. Ecco perché, planando su esempi terranei, i proclami concentrazionari del governatore De Luca che suscitano tanta ilarità e condivisioni sul web, nascondono una logica profondamente autoritaria e destrorsa, se la Regione Campania non garantisce tre pasti al giorno alle famiglie oramai alla fame. 

Porre dunque la questione nei termini di un conflitto tra diritto universale alla salute e il diritto alla sopravvivenza è addirittura sorpassato. Le prerogative della tecnica hanno chiaramente prevalso sulle necessità della vita biologica.  

In questo ha ragione Agamben: oggi e ancor di più in futuro, la nuda vita sarà ancora più sguarnita rispetto alle forme di comando della tecnica. 

La nemesi del coronavirus. 

 

Bibliografia

Philip Roth, Le nemesi (Everyman, Indignazione, L’umiliazione, Nemesi), Einaudi, 2016.

Giorgio Agamben, Una domanda, 1 aprile 2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-una-domanda

Giorgio Agamben, Contagio, 11 marzo 2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-contagio

Benjamin H. Bratton, The Stack, on Software and Sovereignty. MIT Press, 2015

Umberto Galimberti, Psiche e Techne, l’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, 2000

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