Autore: Biagio Carrano

La nemesi del Coronavirus

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La nemesi del Coronavirus

Nemesi è uno straordinario romanzo breve dell’ultimo Philip Roth che racconta di una epidemia di poliomelite nel 1944 e dei suoi terribili lasciti, soprattutto tra i bambini.

L’angoscia della quarantena, le tragedie di morti premature, le menomazioni a vita dei sopravvissuti e il senso di colpa che comunque li accompagnerà per il resto della vita sono raccontati con una scrittura piana e implacabile come un metronomo.

Il racconto lascia una sensazione di estrema amarezza, l’amarezza per una vita che sembrava destinata alla felicità dopo un avvio tragico e che non riesce a sfuggire al suo destino di sofferenza.

Il protagonista Eugene Cantor, detto Bucky, è un ventenne forte e rigoroso, pienamente compreso e orgoglioso della responsabilità di gestire il campo estivo che fa svagare ed educa i ragazzi ebrei di Newark. 

Orfano di madre e con un padre dall’etica discutibile, si erano presi cura di lui i nonni materni. Il nonno gli aveva tramesso il rispetto delle regole e della parola data, più con l’esempio di una vita semplice e lineare che con le parole.  Se dovessimo trovare un aggettivo per Bucky che non usa Roth nel testo è: solido, fisicamente e moralmente. Bucky ha un unico difetto: una pesante miopia non gli ha consentito di arruolarsi, nonostante il suo fisico. Certo una mortificazione, che all’inizio della storia lo fa un po’ vergognare per non condividere con i suoi coetanei i rischi e l’onore di servire la patria americana. Ma lui ha la missione di educare e proteggere dalla poliomielite i ragazzini del suo campo. Lo immagino come un armadio umano, un po’ tozzo e con occhiali a fondo di bottiglia, che incute rispetto, fiducia e senso di protezione nei bambini. Tutto il suo impegno, la sua meticolosità, la sua sensibilità non basteranno a evitare che l’epidemia si porti via tanti bambini e ad altri rovini per sempre l’esistenza. Anzi, Bucky sarà, in parte, proprio l’untore. Non se lo perdonerà mai, e rinuncerà all’amore per punirsi fino alla fine dei suoi giorni. 

Il senso di colpa, la necessità di espiare la colpa rifiutando la felicità che gli prospetta l’amore incondizionato della sua ragazza non è solo una forma di autolesionismo. Forse riemergono così anche le tare che si porta il destino di Bucky (il padre ladro, la miopia elevata): un difetto, un peccato di origine da espiare, qualcosa di profondamente ebraico. 

L’oblio delle epidemie

Dunque non un libro di evasione, ma un libro che ci aiuta ad accettare l’idea che le epidemie non sono uno sfortunato caso capitato alla nostra generazione, ma parte della storia umana che hanno sempre reclamato la loro quota di morti, e di invalidi e sfregiati permanenti. La fragilità emotiva (in termini di rifiuto, minimizzazione e successivo disorientamento) dimostrata da popolazioni e classi dirigenti in tutto il mondo non è altro che la conseguenza di questo oblio.

Eppure ricordo di aver visto fino a pochi anni fa anche nel mio piccolo paese signori storpi a causa della polio che si erano riusciti a costruire una loro vita professionale ed affettiva. Ma in appena due generazioni sono prevalsi una rassicurante dimenticanza o un ingenuo senso di onnipotenza che ci hanno fatto trovare psicologicamente sguarniti davanti al coronavirus. 

Non accettando più nell’orizzonte del possibile la morte per un virus aereo (nel caso dell’AIDS ci eravamo tranquillizzati col pensare che solo drogati e omosessuali corressero dei rischi a causa di determinati comportamenti), abbiamo passivamente accettato qualsiasi provvedimento che ci prometteva la scomparsa a breve del virus e la salvaguardia nostra e dei nostri cari. Giorgio Agamben lo ha posto in maniera definitiva: “Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?” Agamben ricorda poi lo sfregio dei morti senza un funerale come un fatto unico nella storia della umanità dai tempi di Antigone. Per quanto non sia vero in assoluto, perché ad ogni epidemia ogni cittadina si dotava di una fossa comune dove buttare i morti dopo averli cosparsi di calce viva, il tema merita una riflessione. Come la seconda domanda: i nostri amici, i nostri affetti, evitati perché possibile fonte di contagio. E infine la questione più profonda: la scissione, attuata dalla scienza, tra vita biologica e vita psichica e sociale, per cui come un corpo può essere tenuto indefinitamente in stato vegetativo, così un provvedimento dei governi può rinchiudere agli arresti domiciliari centinaia di milioni di persone in tutto il mondo senza sostanziali proteste. Filosofi come Benjamin Bratton hanno violentemente contestato le idee di Agamben. Già il 15 marzo il filosofo del densissimo saggio “The Stack” (non ancora tradotto in italiano) su Twitter aveva lanciato il suo anatema: “No one should listen to Giorgio Agamben again about anything at all ever again. First line of the linked essay “Faced with the frenetic, irrational and entirely unfounded emergency measures adopted against an alleged epidemic of coronavirus, …”. “Giorgio Agamben is the embodiment of why critical theory is so unbareably broken” aveva commentato un suo follower, in un paese dove i “liberal” stanno combattendo una strenua battaglia contro le minimizzazioni di Trump e la sua ansia di proclamare il suo “tana liberi tutti”.

Il governo della vita diventa più importante della vita stessa

Il punto però non è la fondatezza epidemiologica del confinamento domestico o del distanziamento sociale. Anche in Nemesi, come per qualsiasi altra epidemia prima della scoperta dei vaccini, l’unica profilassi resta rinchiudersi in casa nonostante il caldo tropicale per proteggere specialmente i bambini (e inveendo contro gli italiani untori che avevano portato nel quartiere il virus). No, il punto non è questo. E non si tratta neanche di una anarcoide rivendicazione della libertà di far quel che ci pare. L’argomento più forte esposto da ogni leader politico a difesa del coprifuoco è stato la tutela del sistema sanitario nazionale. 

Appena un secolo fa la questione non si sarebbe nemmeno posta: non esisteva neanche un sistema sanitario talmente efficiente e universalistico, orgoglio e privilegio degli stati economicamente e socialmente più avanzati.

Non si tratta allora di smentire l’esistenza o la virulenza del virus pur di denunciare la violenza del potere costituito sui nostri corpi, ma di comprendere che siamo oggi al contempo preda del virus e dell’apparato burocratico che si prende cura del cittadino, o, per meglio dire, della tecnica, che si manifesta come burocrazia dell’assistenza del welfare state, sotto forma di coercizioni degli stati autoritari, attraverso il comando predittivo della logica algoritmica. La tecnica, costruita o almeno difesa nella sua ragion d’essere come una tutela e un aiuto al cittadino, sopprime i diritti del cittadino pur di perpetuarsi e accrescere i suoi ambiti. 

E’ qui che emergono tutte le contraddizioni del pensiero di sinistra in questa fase di emergenza: la tutela della sanità publica e universalistica passa attraverso la soppressione delle libertà del cittadino, a partire dalla sua libertà dal bisogno, con centinaia di migliaia di persone ridotte alla fame perché impossibilitate a lavorare. Per cui si arriva al paradosso che per tutelare la vita e i diritti dei cittadini (soprattutto di coloro che devono affidare la loro sopravvivenza alla sanità pubblica), sono stati sottratti ai cittadini più fragili le basi materiali della loro esistenza. Ecco perché, planando su esempi terranei, i proclami concentrazionari del governatore De Luca che suscitano tanta ilarità e condivisioni sul web, nascondono una logica profondamente autoritaria e destrorsa, se la Regione Campania non garantisce tre pasti al giorno alle famiglie oramai alla fame. 

Porre dunque la questione nei termini di un conflitto tra diritto universale alla salute e il diritto alla sopravvivenza è addirittura sorpassato. Le prerogative della tecnica hanno chiaramente prevalso sulle necessità della vita biologica.  

In questo ha ragione Agamben: oggi e ancor di più in futuro, la nuda vita sarà ancora più sguarnita rispetto alle forme di comando della tecnica. 

La nemesi del coronavirus. 

 

Bibliografia

Philip Roth, Le nemesi (Everyman, Indignazione, L’umiliazione, Nemesi), Einaudi, 2016.

Giorgio Agamben, Una domanda, 1 aprile 2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-una-domanda

Giorgio Agamben, Contagio, 11 marzo 2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-contagio

Benjamin H. Bratton, The Stack, on Software and Sovereignty. MIT Press, 2015

Umberto Galimberti, Psiche e Techne, l’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, 2000

Socialità e influencers

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Socialità e influencers

E’ possibile ricostruire un senso del vivere sociale nell’epoca del capitalismo digitale? Ecco la domanda da cui parte Pablo Calzeroni nel suo denso saggio “Narcisismo digitale” edito da Mimesis Edizioni.

Come spesso accade a una certa sinistra che cerca di colmare con l’entusiasmo acritico i suoi limiti teorici, l’avvento della rete globale è stato interpretato come un grande movimento di liberazione degli individui. L’idea di intelligenza collettiva, elaborata da Pierre Levy, sembrava aprire spazi non solo per una nuova socialità digitale basata sulla condivisione e sulla collaborazione, ma addirittura consentire il superamento della crisi del soggetto: grazie alla rete si usciva definitivamente dalle aporie del rapporto soggetto-oggetto in cui si dibatte la post-modernità e si entrava in un’era in cui all’io si sostituiva un noi, un senso di appartenenza che da una parte offriva un senso all’esperienza del singolo individuo e dall’altro confermava il processo di desoggettivizzazione proprio della tecnica. Ma questo orizzonte si è rivelato altrettanto fallimentare, nient’altro che un’utopia che ha spesso legittimato gli usi e gli abusi della rete di cui oggi vi è un’amplissima pubblicistica: l’isolamento narcisistico degli individui alla base, a mio avviso, anche dell’odio online; lo sfruttamento degli utenti come meri produttori di dati; il degrado generalizzato delle capacità cognitive e dialettiche delle persone in un contesto online basato su titoli ad effetto e meme, immagini e non ragionamenti. La stessa idea di democrazia diretta digitale è la conseguenza di queste dinamiche, nel momento in cui la dimensione digitale riduce l’attitudine al confronto dialettico e sviluppa bolle cognitive autoreferenziali le quali portano a credere che il ragionamento complesso, profondo, argomentato, dai tempi di elaborazione lunghi e consapevole delle conseguenze a lungo termine sia quasi il frutto di un complotto dei poteri forti e non uno dei massimi risultati dell’evoluzione umana.

Attraverso il confronto con Lacan e Castoriadis, Deleuze e Guattari, Calzeroni dimostra che la scissione del soggetto non viene sanata dalla rete. Il soggetto, ricorda Lacan, è sempre scisso, alienato, privo di sostanza. Il soggetto è la maschera di queste lacerazioni, una spiegazione posticcia di esse e dunque “la fascinazione narcisistica può portare alla credenza che l’Io rappresenti davvero l’unità del proprio essere” (pag. 102) e il web consente, come ricorda il collettivo Ippolita, “una costruzione ossessiva del profilo pubblico” per tendere a una “pubblicità riuscita di se stesso” (pag.103).

Stupisce che Calzeroni non attinga al classico Simulacri e Simulazioni di Jean Baudrillard per approfondire questi ragionamenti. Cosa è un profilo Instagram di una “influencer” (ma anche di un qualsiasi utente) se non un flusso di simulacri? La rappresentazione/esibizione di sé esiste in quanto tale sulla piattaforma, non in rapporto a una qualche realtà. Solo gli ingenui si stupiranno nel non riconoscere dal vivo le fattezze della influencer di turno. Luci, camere, filtri, photoshop, concorrono a creare un simulacro che mentre prima era frutto dell’industria dei media (televisione o moda, per esempio), oggi è alla portata di chiunque voglia sfruttare le capacità della piattaforma e lo slittamento dell’audience verso la mera visione senza pensiero. Anche le immagini più spinte non producono spesso una pulsione sessuale maggiore di quella che produrrebbe una statua: il desiderio (altro tema fortemente investigato da Calzeroni sulla scorta di Lacan) è anestetizzato dal simulacro. Dunque il simulacro digitale non solo (per statuto, secondo Baudrillard) vela il vuoto del reale, ma ancor di più imbriglia il desiderio, che è sempre un desiderio di senso, una petizione affinché il reale esista. Ecco perché quello che viene anche definito narcisismo digitale si disinteressa della relazione con gli altri, i quali non sono che dei Like, anonimo pubblico, e al contempo, da un punto di vista politico, disinnesca il desiderio come tensione verso il reale, pretesa della sua esistenza, volontà di trasformazione.

Senza aver letto Debord o Baudrillard, gran parte degli influencer attuano un’agenda tranquillizzante, passivizzante, socialmente conformista. Con la differenza che mentre gli strali dei teorici francesi erano soprattutto indirizzati verso il mezzo televisivo e l’apparato di potere industriale e politico che lo governava, oggi le piattaforme consentono a chiunque di contribuire a rafforzare questa agenda conservatrice e individualistica di sviluppo di simulacri. Basta conoscere e accettare le logiche della piattaforma, che semmai vuole essa proporsi come una sorta di “reale”.

Bisognerebbe allora chiedersi quali siano i legami tra consumo di merci ed esibizione di simulacri di corpi e vite. Come l’io, che si riconosceva e si gratificava nel sistema degli oggetti (ancora Baudrillard), che rimaneva un altro da sé, oggi si costruisca, fingendo (da fingere, modellare) simulacri che rendono l’idea di sè ancora più solipsistica. Si tratta entrambe di risposte che la tecnica offre per rispondere al nichilismo del postmoderno ma con dinamiche estremamente diverse. Le merci piegano il desiderio a una dimensione triviale, eppure alimentandolo, lasciando aperta la porta per un’oltrepassamento di questo stesso desiderio. L’esibizione di sé unisce soggetto e oggetto, con il soggetto che si elabora come oggetto, che si fa simulacro per un’audience indistinta, globalizzata, priva di identità. In questo senso diventa più arduo se non inutile chiedersi se e cosa ci sia dietro. Non si scorge immediatamente un apparato politico di produzione, perché la produzione dei simulacri è curata da questi io che si strutturano proprio grazie ad essa.

Come sottolinea Calzeroni nelle righe finali del saggio, “la socialità nel senso più ampio del termine (e quindi non solo quella supportata dalla Rete) è la dimensione davvero mancante che dobbiamo ricostruire, pezzo per pezzo, in tutti gli ambiti della vita comune: nelle attività scolastiche, nell’assistenza socio-sanitaria, sul territorio, nei programmi di lotta, nelle esperienze affettive, e, per quanto possibile, nei luoghi di lavoro”.

Si tratta di un appello politico vero e proprio, che interroga il senso delle nostre vite nell’epoca digitale. Ma quale politica e quale socialità saranno possibili nel capitalismo digitale?

 

Bibliografia

Jean Baudrillard, Simulacri e impostura. Bestie Beaubourg, apparenze e altri oggetti, a cura di M.G. Brega, Pgreco, 2008 (edizione originale 1994)

Guy Debord, La società dello spettacolo, Bolsena (VT), Massari Editore, 2002. (testo online)

Evgeny Morozov, L’ingenuità della rete, Codice Edizioni, 2011

Giorgio Agamben, L’uso dei corpi. Homo sacer IV,2, Neri Pozza, 2014

Perché la sinistra non ha capito il digitale?

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Perché la sinistra non ha capito il digitale?

Tanti sono i traumi che hanno destabilizzato le convinzioni della sinistra liberal/riformista, ma uno risulta più sconfortante perché originato dall’illusione più recente: che internet, i social media, la digitalizzazione in genere potessero inverare per via tecnologica tanti valori e ideali progressisti.

Il conseguente disorientamento emerge di frequente nelle pagine de L’epoca del Capitalismo della Sorveglianza di Shoshana Zuboff (pubblicato in Italia da Luiss University Press), libro dalle grandi ambizioni ma dai risultati alquanto modesti: in esso troverete citati studi, analisi, ricerche, come anche riflessioni, indignazioni, financo nostalgie e poesie, ma non una nuova chiave di lettura del processo di digitalizzazione e dataficazione della società, dell’economia e delle singole esistenze che stiamo attraversando.

Insomma, se ancora pensate che Google e Facebook siano organizzazioni filantropiche dedite a diffondere l’informazione e a creare relazioni tra le persone per un afflato umanitario, allora il libro della Zuboff potrebbe anche aprirvi gli occhi. Se invece seguite il dibattito sul capitalismo cognitivo che in Europa è iniziato almeno dalla pubblicazione de Il posto dei calzini di Christian Marazzi (1994) e da L’immateriale di Andrè Gorz (2003), vi domanderete se erano necessarie oltre 600 pagine per raccontare che Google e Facebook estraggono costantemente informazioni dalle vite dei loro utenti per prevederne e indirizzarne le scelte. 

La Zuboff definisce questo “nuovo” capitalismo della sorveglianza come “la trasformazione dell’esperienza umana in un gratuito materiale grezzo da trasformare in dati comportamentali. (…) L’interesse dei capitalisti della sorveglianza è passato dall’usare processi automatici per conoscere i comportamenti umani a usare i processi automatici per modificare il nostro comportamento in funzione dei loro interessi (…) ovvero “dall’automatizzazione dei flussi di informazione su di te alla tua automatizzazione”. Chiunque faccia marketing è ben conscio che la tracciatura dei comportamenti dei consumatori consente di predire le loro scelte future, ma la giurista di Harvard è restata talmente sconvolta da questa scoperta da lanciare una “lotta per un futuro umano alla nuova frontiera dei poteri”, come recita il sottotitolo dell’edizione originale. 

In maniera meno pomposa: che ne è della libertà umana in un mondo in cui l’automazione dei processi e delle scelte finirà per mettere le vite delle persone su un tapis roulant con la direzione e la velocità già decise dagli algoritmi? 

Per affrontare questo ragionamento il testo propone un’analisi abbastanza dettagliata delle strategie generali di raccolta (abusiva) e processamento delle informazioni da parte di Google e Facebook secondo lo schema Incursion-Habituation-Adaption-Redirection, in sostanza l’attacco non autorizzato a un’area (fisica o no) di estrazione dell’informazione e la successiva strategia di adattamento sociale e giuridico, facendo passare quell’attività come innocua o naturale. Piaccia o no, si tratta dell’ordinaria amministrazione per qualsiasi impresa data-driven. Naturalmente anche il corpo è oggetto della mappatura digitale (su questo ho scritto qualche nota nel lontano 2013) e ovviamente come anche le città e le singole abitazioni “smart”. Quale ambito resta avulso alla pervasività del digitale? E cosa resta della capacità di scelta dell’individuo se l’ideale del marketing è l’anticipazione delle attese del cliente e oggi la digitalizzazione ha reso questa aspirazione non solo attuabile, ma addirittura indistinguibile dai desideri delle persone, per cui non si sa se i desideri sono stati anticipati oppure l’anticipazione ha fatto esplicitare il desiderio? 

La posizione della liberal Shoshana Zuboff è una esaltazione dell’individualismo contro quello che definisce il “potere strumentale” che nasce dalla modelli di previsione, nell’impresa come nella società in generale, generati dalla raccolta dei dati e dal potere di computazione. Il grande obiettivo polemico è la social physics* di Alex Pentland, la proposta teorizzata nell’omonimo libro del 2015 di usare i big data per predire le scelte individuali e collettive e dunque l’evoluzione delle società.  Inorridita da queste prospettive, la Zuboff le compara alle vecchie teorie comportamentaliste di Burrhus Skinner, dimenticando che studi molto più recenti hanno dimostrato la possibilità di modificare gli stessi circuiti neuronali e non solamente i comportamenti. 

La conclusione angosciata della Zuboff suona così: “Le pretese del capitalismo della sorveglianza verso la libertà e la conoscenza, la sua strutturale indipendenza dalle persone, le sue ambizioni collettiviste, e la radicale indifferenza resa inevitabile, attivata e sostenuta da tutte e tre queste dimensioni ci spinge ora verso una società in cui il capitalismo non funziona come uno strumento per una economia inclusiva e per istituzioni politiche. Al contrario, il capitalismo della sorveglianza deve essere riconosciuto come una forza sociale profondamente antidemocratica”. Insomma, secondo la Zuboff avremmo vissuto finora una virtuosa intesa tra capitalismo di mercato e democrazia, anzi il primo garantiva la seconda; il cittadino elettore era libero, grazie a un quadro abbastanza chiaro di norme che lo tutelava, di fare le scelte che riteneva più opportune sul mercato elettorale come quando sceglieva i prodotti da consumatore; il mercato era uno spazio pubblico che non arrivava a violare il privato e la proprietà privata dei cittadini. Questo paradiso in terra di libertà creato dal buon vecchio capitalismo di mercato (in cui vivono, forse, solo gli amici affluenti e liberal della Zuboff), verrebbe ora divorato dal capitalismo della sorveglianza di cui sono alfieri Google e Facebook. Una ricostruzione talmente irrealistica del prima e dell’oggi che ci fa sospettare che anche le conclusioni tetre della Zuboff siano parziali perché basate su assunti infondati. 

E tuttavia il testo può essere interpretato come parte di una presa di coscienza che un’area politica culturale, che definiamo liberal/riformista, inizia a sviluppare verso gli esiti più inquietanti del capitalismo attuale. La comprensione che certe illusioni sulla digitalizzazione sono venute meno e al contempo il rischio opposto di cadere in una visione distopica, frutto soprattutto di una sguarnitezza intellettuale per capire le dinamiche tecniche della digitalizzazione. 

Dal messianismo tecnologico al pensiero magico digitale 

Gli strali della Zuboff, privi di una qualsiasi piattaforma politica di contrasto al capitalismo della sorveglianza, suscitano domande più ampie dell’ambito di questo testo: 

  • Perché la sinistra liberal/riformista ha subìto per anni in maniera talmente acritica l’avvento della digitalizzazione? 
  • Perché la sinistra liberal/riformista non ha colto, se non con estremo ritardo e spesso in forma parziale, l’impatto negativo sul lavoro, sul controllo degli individui, sui rapporti sociali in genere, soprattutto  il legame stretto delle modalità di digitalizzazione del mondo con l’ideologia della globalizzazione neoliberista?
  • Quale è l’insieme di idee, valori e retoriche con le quali la digitalizzazione ha giustificato anche a sinistra la sua inevitabilità, nelle modalità con cui essa è avvenuta, ovvero oltre la logica statuale, nella forma datacentrica e artatamente gratuita? 

La Zuboff sottolinea l’aspetto più immediato di questa fascinazione di cui i liberal sono stati vittime, ovvero il fatto che la digitalizzazione si rappresenta come un grande diffusore di empowerment degli individui, termine centrale nell’ideologia liberal, definito proprio dal dizionario di Google come “the process of becoming stronger and more confident, expecially in controlling one’s life and claiming one’s rights”. Internet e la digitalizzazione sono ovviamente capaci di dare agli individui più controllo e diritti sulle loro vite, di consentire l’accesso a un sapere sterminato, di rendere gli individui più connessi e così arricchirne il loro mondo interiore, di creare nuovi lavori, di consentire a soggetti fuori dal mainstream di far conoscere le loro qualità. Ma si tratta di una visione parziale, frutto di una storica tendenza della sinistra a vedere in ogni nuova tecnologia un’alleata per realizzare la sua agenda politica. Lo stesso messianismo tecnologico che faceva credere al Marx del 1853 che la diffusione dell’industria moderna tramite le reti ferroviarie avrebbe dissolto il sistema delle caste in India. Per la Zuboff non esiste tutta una serie di testi che da tempo hanno messo in questione con dati e analisi l’ottimismo ingenuo dei cantori di internet e dei social media come nuova alba dell’umanità. Quando evoca inorridita un nuovo collettivismo sostenuto dai social media non cita “Digital Maoism: The Hazards of the New Online Collectivism di Jaron Lanier risalente al lontano 2006. Quando evidenzia il potere di Google non rimanda alla Google Doctrine come Evgeny Morozov la descriveva nel 2011 in The Net Delusion. Quando si interroga sui deleteri effetti sull’agone politico dei social media non si degna di fare alcun riferimento al recente e meglio documentato Antisocial Media di Siva Vaidhyanathan. Spocchia accademica o scarso approfondimento?

Vi può essere anche una terza interpretazione, che è quella che attribuisco alla sinistra liberal/riformista: lo scandalo Cambridge Analytica e l’elezione di Donald Trump hanno provocato un effetto stordente tra i liberal, una presa angosciata di consapevolezza, un’urgenza di reazione tra gli intellettuali di quell’area politica, gli stessi che fino ad allora aveva considerato le riflessioni critiche della digitalizzazione come troppo radicali oppure inficiate da luddismo digitale. La Zuboff cita gli studi di Kosinski, Stillwell e altri che dal 2011 lavorano alla predizione dei tratti di personalità degli individui usando come proxy i loro profili Twitter e Facebook. Si tratta degli studi alla base del modello di business di Cambridge Analytica, il cui celebre “scandalo” è stato per tanti intellettuali liberal/riformisti una sveglia rispetto alle loro ingenue rappresentazioni della trasformazione digitale. Per quanto non vi sia alcuna dimostrazione scientifica che il gioco “This is your digital life” sviluppato da Cambridge Analytica per profilare in profondità circa 260000 utenti di Facebook abbia avuto un impatto decisivo sull’elezione di Trump, questo shock ha fatto uscire la sinistra liberal dalla fascinazione acritica verso il digitale in cui i successi di Barack Obama, fortemente sostenuti da Google, l’avevano rinchiusa tra il 2009 e il 2017. Obama ha usato tecniche di profilazione estremamente profonde e invasive, ma al contrario di Trump ha ricevuto elogi e articoli accademici. Per quanto la politica di Trump si caratterizzi per un uso spregiudicato di fake news,  le strategie elettorali di Obama sono state quanto di più prossimo agli esiti del capitalismo della sorveglianza paventati dalla Zuboff. 

Ma non basta un esito politico a spiegare le persuasioni e le scelte di decine di migliaia di intellettuali e politici liberal in tutto il mondo. Il messianismo tecnologico di una certa sinistra ha fatto sembrare molte imprese per quel che non erano, oppure non ha fatto cogliere la loro radicale trasformazione verso la data extraction. Google al suo apparire è sembrata la faccia benigna e altruista del web. Non solo un’efficienza inusitata, ma la gratuità, la filosofia vagamente umanista dello slogan “don’t be evil”, l’origine californiana e i brillanti colori arcobaleno, il rapido successo, la giovinezza e la genialità dei suoi creatori: un enorme patrimonio di reputazione da sfruttare per poter poi anche accedere liberamente alle email e ai documenti di decine di milioni di persone nel mondo. Facebook e il suo mondo di amici sembrava poter allargare la rete di relazioni in un’ambiente dove tutti erano amici e si gratificavano con un Like. La forte componente narcisistica del social media (come Instagram, come Twitter, come TikTok, come tutti essi) è stata interpretata (solo) come una grande opportunità di far esprimere liberamente le persone, non cogliendo che questa libertà avrebbe significato (anche) una marea di contenuti insignificanti, fasulli o conflittuali. Non cogliendo soprattutto che la logica delle reti prescinde dalla qualità dei contenuti e ha come unico obiettivo la crescita dei nodi mediante omofilia: che un nodo della rete cresca grazie ai gattini, alle tette al vento, l’hate speech o le fake news per la rete è indifferente. 

Il disorientamento liberal ha una motivazione anche di ordine squisitamente politico: caduto il muro di Berlino, i riformisti si sono trovati con una piattaforma politica fragile e a volte quasi indistinguibile da quella dei liberali. L’avvento della digitalizzazione ha rappresentato per essi l’illusione che la tecnologia potesse incrementare il benessere degli individui senza porre più la questione della redistribuzione in una fase di crescita lenta e di crisi fiscale degli Stati. Ecco perché questo entusiasmo acritico, almeno in una prima fase, per la digitalizzazione e internet: ancora una volta il messianesimo tecnologico per superare i limiti della visione e dell’azione politica. Quando poi lo strapotere degli Big 5 Tech (Google Amazon, Facebook, Microsoft e Apple) è diventato senso comune e la data extraction il nuovo paradigma del valore aziendale, la formazione umanistica di tanti intellettuali riformisti non ha permesso loro di comprendere gli aspetti tecnici del coding, del deep machine learning o, in generale, le logiche insite degli algoritmi e si è preferito polemizzare in maniera ideologica contro l’Algoritmo, traslando su questa astrazione tutte le contraddizioni della trasformazione digitale così come negli anni Settanta ogni nefandezza era attribuita al Capitale, senza spesso andare oltre gli slogan e senza studiare i processi concreti di sfruttamento. Si è arrivati così a quel che chiamo pensiero magico digitale: un’astrazione generica che spiega tutto, ma non consente di capire nessun processo concreto della trasformazione digitale. 

Il capitalismo della sorveglianza è un nuovo capitalismo?

La Zuboff annuncia di aver scoperto un nuovo tipo di capitalismo che si distanzia radicalmente dal capitalismo di mercato “garante” della democrazia,  ma non si accorge che è proprio il naturale esito del capitalismo di mercato a mettere in crisi la democrazia liberale. Se ieri la battaglia era contro la tendenza “totalitaria” di ogni impresa a essere monopolista nel suo settore, oggi a questa tendenza “naturale” dell’impresa si aggiunge il volume enorme di informazione sulle vite di ciascuno. Ma anche questo è un esito proprio della competizione di mercato: meglio si conosceranno i propri clienti, utenti o elettori, meglio performerà l’organizzazione. 

Insomma: dall’economia dei beni a quella dei servizi per arrivare oggi a quella dei dati, l’approccio totalitario verso le fonti del suo valore (siano essi dati o materie prime fisiche) non è che l’attitudine naturale dell’impresa capitalistica verso il suo mercato. 

L’evoluzione del capitalismo in base a una nuova definizione del valore e alla capacità di estrarlo grazie alla potenza di calcolo, la datificazione del mondo, computabilità e predizione come assi di interpretazione dei fenomeni, sono di certo un salto concettuale radicale ma lungo l’asse usuale del capitalismo. Ogni forma di capitalismo si basa sulla sua capacità di astrazione e di estrazione di valore. L’operaio fordista rappresentato per autonomasia da Charlot non era tenuto a sapere per cosa stesse avvitando bulloni, al contrario del modello toyotista elaborato cinquant’anni dopo. 

La differenza tra un artigiano che ripara scarpe o crea liuti e un operaio è che l’operaio da solo non saprebbe realizzare un frigorifero o una pressa industriale. 

Un industria mineraria, quanto di più materiale si può forse immaginare, non è fatta di raccoglitori di pepite, ma di un apparato di saperi scientifici, di tecnologie e di macchinari appositi per scoprire ed estrarre quello che ad occhio nudo non si vede. E questo vale per ogni modello capitalistico. Senza la logica di astrazione/estrazione non si avrebbe l’idea stessa di capitalismo. Un geologo vede litio e milioni di dollari dove io vedo solo montagne e pietre. Le imprese del capitalismo informazionale, biocognitivo, relazionale vedono dati dove noi vediamo pagine web e milioni di dollari dove noi vediamo solo  allenamenti registrati da Fitbit. Cambia l’apparato di estrazione, non la logica capitalistica. 

La giurista di Harward non coglie la sostanziale continuità delle forme del capitalismo che si sono storicamente succedute. Certo, che il capitalismo dei dati o della sorveglianza o cognitivo abbia caratteristiche uniche grazie alla potenza di calcolo e alla datificazione e alla riduzione dei fenomeni sociali ed esistenziali a computabilità e predittività è pacifico per tutti gli studiosi. L’errore della Zuboff sta nell’idealizzare un’epoca capitalistica che semplicemente non è mai esistita: se pure nel Novecento ci sono state legislazioni antitrust e a tutela dei consumatori più efficaci, esse venivano dopo decenni di tentativi falliti, quando l’apparato giuridico non si era ancora dotato di concetti capaci di cogliere gli effetti del quel capitalismo. L’accelerazione capitalistica dovuta alla digitalizzazione pone enormi problemi, di certo più grandi ma in qualche modo simili a quelli che a inizio Novecento affliggevano chi contestava lo strapotere dei robber barons. 

Il capitalismo della sorveglianza non è dunque una nuova forma o un tradimento del capitalismo di mercato, ma non è che l’aspetto più evoluto della logica capitalistica.

La sfida alle piattaforme è politica

La trattazione della Zuboff è tutta incentrata sul conflitto tra i diritti dei singoli individui e la invasività delle grandi piattaforme del capitalismo dei dati. E l’esito non può che risultare inane e frustrante. Manca del tutto la dimensione collettiva, di persone che usano la rete per fare rete e per sviluppare e diffondere messaggi e modelli alternativi a quelli indotti dagli algoritmi delle piattaforme. Manca la dimensione politica, dove persone si aggregano per rivendicare i loro diritti non ciascuno per conto suo, ma in funzione di valori e possibilità più ampi dell’orizzonte dei singoli.  La politica come possibilità e non come mera amministrazione del presente. E l’angoscia che manifesta la Zuboff per i rischi che corre la libertà dei singoli nasce proprio dal non comprendere che algoritmi e piattaforme ci capiscono in base ai nostri comportamenti passati e non in base alle nostre future possibilità, come dice Ramesh Srinivasan in Beyond the Valley. Così come la studiosa americana non capisce che solo la politica può tentare di sfidare la riduzione delle esistenze a dato predicibile e monetizzabile. Certo, idealizzare una sorta di buon capitalismo pre-digitale è di certo più semplice che inoltrarsi nella critica politica della digitalizzazione. Ma questa è la vera sfida intellettuale e politica dei nostri tempi. 

 

Bibliografia di base 

Ramesh Srinivasan, Beyond the Valley, MIT Press, 2019 

Cathy O’Neil, Weapons of Math Destructions, Crown, 2016

Alex Pentland, Social Physics, Penguin Books, 2014

Evgeny Morozov, The Net Delusion, Public Affairs, 2011

Siva Vaidhyanathan, Antisocial Media, Oxford University Press, 2018

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Michal Kosinski, David StillwellThore Graepel, private traits and attributes are predictable from digital record of human behavior, https://www.pnas.org/content/110/15/5802

How Obama used big data to rally voters, Technology Review, 16 Dec 2012, https://www.technologyreview.com/s/508836/how-obama-used-big-data-to-rally-voters-part-1/

How Obama wrangled data to win his second term, Technology Review, 17 Dec 2012, https://www.technologyreview.com/s/508851/how-obama-wrangled-data-to-win-his-second-term/

Obama, the big data president, Washington Post, June 14, 2013, https://www.washingtonpost.com/opinions/obama-the-big-data-president/2013/06/14/1d71fe2e-d391-11e2-b05f-3ea3f0e7bb5a_story.html

* Social Physics is a quantitative social science that describes relaible, matematical connections between information and idea flow on the one hand and people’s behavior on the other

Il mondo immateriale

Dal relatore pubblico ai correlatori sociali: una nuova prospettiva per le PR

La ventiseiesima edizione del simposio di Bled si è focalizzata sul tema “Trust and Reputation”, che è un po’ come se un amministratore delegato di una banca parlasse di merito di credito dopo averne sfasciato i bilanci elargendo prestiti inesigibili ad amici e compari. Perché se ci sono due parole che descrivono la crisi di una professione e, in generale, delle società in cui oggi viviamo, esse sono proprio fiducia e reputazione. Non starò qui ad elencare cause e dinamiche che hanno portato a questo, però possiamo tratteggiare un orizzonte presente, in cui tutti i riferimenti entro cui tradizionalmente si muovono comunicatori e relatori pubblici, quali istituzioni, media, esperti, vivono un declino nella loro capacità di essere ancora autorevoli e rilevanti. A Bled abbiamo provato a presentare una prospettiva complementare dell’essere relatore pubblico, il cui ruolo sia capace di estendersi oltre i confini dell’organizzazione, per proporsi come “tessitore sociale”, “relatore di comunità”, “social capital officer”, ”social capital booster”: definizioni ancora parziali e instabili perché frutto di un’elaborazione in itinere.

Chi era il relatore pubblico?

Con una forte semplificazione potremmo affermare che finora il ruolo del professionista delle relazioni pubbliche è stato, e resta, per lo più, quello di convogliare il capitale intellettuale, umano e sociale esistente (inteso sia come attributi del marchio del committente, sia come reputazione verso gli stakeholder, sia come caratteristiche sociali dei territori in cui si opera, sia, infine, come il suo proprio capitale sociale inteso come reputazione, credibilità e capacità di persuasione) al fine di raggiungere gli obiettivi di comunicazione, intesi come advocacy o in termini di cambiamento degli atteggiamenti e dei comportamenti.

In questa declinazione, alla committenza vengono di regola proposte e sviluppate campagne per lo più di breve durata, al di sotto dei dodici mesi di orizzonte, con un approccio tattico legato spesso a necessità contingenti. Inoltre l’orientamento è per lo più dall’interno dell’organizzazione verso l’esterno: abbiamo un messaggio, un’idea, una qualità e vogliamo che alcuni soggetti all’esterno dell’organizzazione ne vengano a conoscenza.

Questa rapsodicità delle attività di comunicazione e di relazioni sociali si evidenzia anche nella durata degli incarichi dei dirigenti responsabili: l’incarico di un direttore finanza o un direttore di produzione dura per molto più tempo rispetto a un pari grado che si occupa di comunicazione. Spesso il direttore della comunicazione è più legato a un rapporto di fiducia con l’amministratore delegato che ai valori e alla cultura dell’impresa per cui lavora. Così la continuità di indirizzo nell’ambito della comunicazione viene meno e spesso non è considerata essenziale per il successo dell’impresa. Aspetto paradossale questo, in un’economia dove le imprese a maggior tasso di crescita sono quelle con forti elementi di valore intangibili.

Una nuova idea di capitale

Fino a trent’anni fa parlare di capitale non consentiva ambiguità: o avevi i capitali (in termini finanziari o di macchinari) per intraprendere un’attività o non partivi. Il capitale si riduce a soldi e mezzi di produzione e non vi erano dubbi: quello che facevi o accresceva o diminuiva il conto in banca o il patrimonio.

Teorici e analisti hanno gradualmente dimostrato che di capitali ce ne possono essere tanti. Si possono avere scarsi capitali ma un’artigianalità unica che ti consente di realizzare prodotti di eccellenza, grazie a un tornio o a un forno. E da quel forno e da quel tornio hanno avuto inizio tante storie di successo italiane. Puoi essere un neolaureato con le scarpe bucate ma hai una preparazione di eccellenza che presto (forse non in Italia) ti verrà riconosciuta con stipendi adeguati. All’opposto, non sei una cima e non hai mani di fata, ma hai savoir faire e una capacità empatica uniche che ti rendono credibile e ben accetto da tante persone, pronte a darti, appunto, credito. La consapevolezza che le risorse naturali non sono infinite spinge poi a considerare un loro uso efficiente e parco come un ulteriore fonte di valore per un’impresa.

L’approccio dell’International Integrated Reporting Council (fondato nel 2010 dal Principe Carlo insieme ai grandi operatori globali della revisione contabile e divenuto il principale centro di analisi intorno al valore e alla rendicontazione delle organizzzazioni) ha individuato sei fonti del valore per le organizzazioni: il capitale finanziario (Financial), il capitale produttivo (Manufacturing), il capitale umano (HR), il capitale naturale (Natural), il capitale intellettuale (Intellectual), il capitale sociale e relazionale (Social). Ma ancora più importante è l’idea che il valore creato da un’organizzazione non può essere scisso dal valore creato al proprio esterno: non è un vero valore se finisce per essere un gioco a somma zero, dove l’incremento di valore contabilizzato da un’impresa è frutto del depauperamento dei capitali utilizzati, interni o esterni, ad esempio attraverso lo sfruttamento di risorse naturali non rinnovabili, l’abuso del personale, indebolimento della fiducia a seguito di condotte scorrette, lo spreco di risorse economiche per spese o benefit ingiustificati.

Di questi sei asset, quattro sono interni all’azienda/organizzazione (Manufacturing, Financial, HR, Intellectual) e due esterni (Natural e Social). Inoltre cinque di questi asset sono prevalentemente degli stock, mentre solo il capitale sociale e relazionale può essere interpretato prevalentemente come un flusso perché esso si misura solo in rapporto a un determinato intervallo di tempo.

Dunque possiamo affermare che il capitale sociale e relazionale di un’organizzazione ha due specifici attributi: è un flusso ed è prevalentemente originato attivando risorse esterne ai confini organizzativi. Per ciascuno dei sei capitali vi sono figure professionali e manageriali specifiche ma con obiettivi diversi. Un direttore finanza o del personale ha come obiettivo quello di portare all’interno dell’organizzazione le risorse di miglior qualità, mentre il capitale sociale non può essere trasferito dall’esterno all’interno dell’organizzazione, proprio perché non è uno stock ma un flusso. Può essere attivato e accresciuto nella sua capacità di produrre esternalità positive per l’organizzazione, ma non può essere “trasportato” al suo interno come se fosse un barile di petrolio o un bonifico bancario.

Il capitale sociale e relazionale è contendibile ma, a differenza della conoscenza o dei beni digitalizzati, non è replicabile a costo zero. Richiede investimenti di lungo periodo ed è al tempo stesso intangibile e innervato in un determinato territorio e in una determinata organizzazione, la quale opera già in un contesto più o meno sviluppato dal punto di vista del capitale sociale, frutto di stratificazioni successive, in cui il capitale sociale non sempre è accresciuto ma può aver registrato un decremento a seguito di particolari eventi o anche di una generazione meno propensa a investire in esso.

Il capitale sociale è stato per troppo tempo visto come uno stock, di natura personale o legato a uno specifico territorio, di cui l’organizzazione fruiva tatticamente in base alle sue esigenze del momento. Gli esempi più tipici sono quelli del personaggio autorevole o dell’esperto, di cui si attiva la reputazione o la fiducia che infonde nel pubblico, o l’apertura di canali di collaborazione con organizzazioni radicate sul territorio al fine di rendere più persuasiva una campagna di comunicazione o di accreditamento. Se invece interpretiamo il rapporto tra organizzazione e ambiente in cui opera in termini di costante dinamica di feedback, attraverso attività, relazioni e interazioni continuamente attivate, comprendiamo come questi due elementi non possono essere più pensati come separati, e questo non in base a un’astratto approccio olistico, ma semplicemente perché l’organizzazione è anche il suo ambiente, e dunque subisce o fruisce il degradarsi o lo svilupparsi del capitale sociale che la circonda così come subisce o fruisce i trend economici generali.

Una nuova prospettiva per i relatori pubblici: il correlatore sociale

Alcuni risultati dell’ultimo Edelman Trust Barometer

Il capitale sociale in cui e con cui si relaziona un’organizzazione è dunque un asset competitivo dell’organizzazione stessa, e come tale va tutelato, coltivato, promosso e accresciuto come tutti gli altri valori che l’organizzazione custodisce al proprio interno. Se si parte da questo assunto si trasforma e si dilata anche l’ambito e le responsabilità dei comunicatori e dei relatori pubblici.

La relazione con i portatori di interesse è stata finora sempre pensata come una relazione uno a molti, uno a pochi o uno a uno. In realtà questo nuovo ruolo del relatore pubblico prevede anche la capacità di promuovere relazioni molti a molti. Certo, è un truismo affermare con Robert Putnam “Working together is easier in a community blessed with a substantial stock of social capital” (Putnam 1993, pp. 35 and 36), ma quante organizzazioni si sono poste questo obiettivo, assumendo professionisti capaci di incrementare questo capitale?

A Bled abbiamo definito questa nuova relazione tra capitale sociale e relazioni pubbliche nei termini inglesi di “entanglement”, correlazione, concetto che richiama anche l’entanglement quantistico, chiaramente un traslato per evidenziare la correlazione anche a distanza tra un’organizzazione e il suo capitale sociale, che in qualche modo diventa un “portato” della cultura organizzativa anche quando essa opera in contesti diversi da quello originario, come nel caso, ad esempio, di aperture di nuove sedi all’estero.

In questa nuova dimensione professionale gli orizzonti temporali di azione cambiano in maniera significativa. Da obiettivi a breve termine tramite iniziative occasionali si passa a risultati di lungo termine attraverso attività ricorrenti anche se meno eclatanti. Non si cerca tanto la visibilità occasionale quanto il rafforzamento dei legami esistenti, la creazione di nuove interlocuzioni e la promozione di un contesto sociale aperto di per sé alla relazione. Ci troviamo in una dimensione che oltrepassa i confini usuali della corporale social responsibility o della sussidiarietà: l’organizzazione non investe sul capitale sociale in base a principi risarcitori o di sana etica aziendale, quanto investe perché persuasa che sviluppare questa componente della sua configurazione di valore le consente di essere competitiva.

Se intende promuovere questo nuovo modello, il comunicatore o relatore pubblico deve darsi anche strumenti nuovi. Innanzitutto quantificare l’apporto al capitale sociale dato dai suoi interventi. Poi la capacità di uscire dall’ambito propagandistico e della advocacy per entrare in una dimensione alquanto inesplorata: una posizione più esterna che interna all’organizzazione, più dedicata a tessere legami che a instaurare relazioni strumentali, più focalizzata su una visione lunga di un contesto sociale che sulla imminente trimestrale (al di là delle imprese dove comunque è prevista una rendicontazione puntuale anche del capitale sociale). Una funzione siffatta può appunto trovare una sua legittimità solo se capace di quantificare con metodi condivisi l’impatto delle sue azioni.

All’interno del piano per accrescere il capitale sociale, che deve prevedere investimenti e risultati come tutti gli altri piani aziendali, il piano di comunicazione ed RP vedrà iniziative e attività dedicate a questi specifici obiettivi di correlazione con il capitale sociale.

Un passaggio conseguente sarà la mappatura del capitale sociale, da svilupparsi attraverso gli strumenti che le ricerche degli ultimi trent’anni hanno definito: non soltanto uno statico censimento dei soggetti che sul territorio tutelano e sviluppano il capitale sociale e non soltanto soltanto l’analisi di correlazione tra le attività di questi soggetti e determinati output sociali. Bisognerà integrare ad essi la sentiment analysis (non solo online, ma anche nei luoghi fisici) attraverso i metodi e i software oggi disponibili. Solo così si potrà capire quali sono i gap e i picchi e definire delle azioni capaci di aderire effettivamente alle caratteristiche della cultura sociale locale e dunque risultare efficaci.

Ma soprattutto si tratterà di uscire da una logica funzionale alla diffusione di alcuni messaggi di “buona volontà”: passare dalla promozione di buone pratiche alla diffusione di attitudini produttive del capitale sociale sarà la vera sfida, perché la pratica è il frutto di un’attitudine e spesso una campagna migliora solo temporaneamente gli effetti di una pratica se non si è lavorato sulle attitudini.

Quello di cui sopra è un elenco, parziale e finanche contraddittorio. Nessuna ambizione di dare indicazioni definitive, ma solo di suscitare una riflessione per esplorare collettivamente una dimensione che appare essere la sfida del presente per la professione del relatore pubblico e per le nostre stesse società.

Dove si nasconde il valore?

Biblioteca

Dove si nasconde il valore?

In Italia “Capitalismo senza capitale” è meno un titolo ad effetto che una costatazione.

Ma nel libro di Jonathan Haskel e Stian Westlake non si parla di capitalisti di relazione nostrani, abili a scalare e sbranare a debito le imprese, quanto di valore degli intangibili. Tema non nuovo, perché sono almeno venti anni che si parla di quantificazione dei beni immateriali di imprese e organizzazioni, eppure la lettura del libro mostra come ancora oggi l’intero ambito resta sfumato, indistinto, pur esplorato ma con esiti sfuggenti, per quanto tutti si rendano conto che il successo di qualsiasi organizzazione non passa attraverso capannoni o tecnologie all’avanguardia se non vi sono del personale e un’organizzazione capace di trarre valore da essi.

 

La materia oscura dell’economia contemporanea

Quando la stragrande maggioranza delle persone fa un’acquisto o una scelta (anche elettorale) non possiede le informazioni e le competenze tecniche sufficienti per giudicare fattualmente il prodotto.

Da una valigia a un cellulare, da un paio di scarpe a un computer, sappiamo oramai bene che quello che guida l’acquisto sono elementi non tangibili, quali la reputazione del marchio, il suo stile visivo, il sistema di associazioni che attiva, al limite l’elemento quantificatorio del prezzo, che pure è un vettore simbolico. In una società dalla manualità perduta, dove tanti giovani non hanno mai conosciuto un calzolaio, anche quando valutiamo una scarpa dal tipo di suola o un pc o un telefonino dal suo processore o dalla sua fotocamera di certo non sapremmo spiegare le effettive componenti tecniche e le implicazioni di parametri fattuali che usiamo.

In realtà siamo immersi non più nel sistema degli oggetti di cui parlava Baudrillard, ma in un ecosistema cognitivo che reinterpreta costantemente i significanti oggettuali. Tutta questa produzione di idee, messaggi e contestualizzazioni è a sua volta prodotta e diffusa da milioni di lavoratori dell’intangibile distribuiti in tutto il mondo, che vanno dai consulenti di qualsiasi ambito ai designer, dagli studiosi ai programmatori fino alle figure di cura del benessere delle persone. Figure professionali che sviluppano i settori economici della comunicazione, della creatività e della conoscenza che Robert Reich definì simbolic analysts, affermando stentoreo che “In decades to come, nations with the highest percentages of their working populations able to do symbolic-analytic tasks will have the highest standard of living and be the most competitive internationally.

I fatti stanno smentendo l’autore di “Saving Capitalism” e le economie basate su queste catene del valore simboliche non garantiscono per nulla, come qualche irredento ottimista potrebbe supporre, condizioni di vita migliori e stipendi più alti alla maggioranza di questi lavoratori, anche perché le piattaforme della gig economy consentono di affidare tante mansioni intangibili a persone residenti nei paesi dove esse costano molto poco. Come da sempre ricorda Sergio Bologna, viviamo il paradosso di una tanto decantata economia della conoscenza fondata su una estesa precarizzazione dei suoi operatori.

La vecchia catena del valore che poneva quasi a valle del processo produttivo le funzioni simboliche della comunicazione e del marketing va del tutto ripensata e dovrebbe essere scissa e analizzata in parallelo nelle sue due macrocomponenti, evidenziando come ogni fase della produzione materiale sussumi in sè molte funzioni di ordine immateriale. In anticipo rispetto alla catena del valore tangibile delle imprese, da tempo uscita dalle mura aziendali e oggi distribuite a livello globale con decine se non centinaia di subfornitori di tante nazionalità, ancor di più la catena del valore intangibile è stata da sempre in un rapporto reticolare e precario con l’impresa o con l’organizzazione servita, con contratti che legavano più o meno stabilmente questi lavoratori simbolici alle varie committenze. E tuttavia questa componente intangibile non viene quasi mai valorizzata, quantificata e messa a bilancio per il suo reale impatto. Come la materia oscura che l’astrofisica ha dimostrato avvolgere quanto dell’universo riusciamo oggi a rilevare, costituendone forse il 90%, così questa materia oscura dell’intangibile avvolge ogni processo economico contemporaneo senza che se ne riesca a definire esattamente gli effetti e il peso economico.

Una parte di questa conoscenza non viene fatturata e non entra nei registri statistici nazionali, vuoi perché tanti lavoratori della conoscenza non hanno un potere contrattuale tale da farsi pagare adeguatamente il loro contributo simbolico, vuoi perché una parte di questo sapere è di tipo implicito e storicamente non considerato fatturabile: pensiamo, solo come esempio immediato, a un concetto tanto attuale quanto sfuggente quale è la reputazione.

Come si evidenzia nel libro di Haskel e Westlake, se uno Stato costruisce un nuovo museo questa spesa va nel PIL; se lo stesso Stato compra un Tiziano per metterlo nel museo (e magari garantirne la fruizione gratuita) questa transazione non viene registrata nella ricchezza nazionale: valutiamo la società della conoscenza con gli strumenti della società del vapore e delle ferriere.

In termini finanziari si resta dunque al vecchio interrogativo: come finanziare e valutare qualcosa che non è liquidabile?

Le quattro caratteristiche dei beni intangibili che gli autori individuano sono esattamente gli elementi che nessun addetto al credito prenderebbe in considerazione per valutare un finanziamento:

  • Sunkness, ovvero irrecuperabilità dei costi di sviluppo e mantenimento di questi beni
  • Synergy, ovvero collaboratività e interoperabilità di servizi e prodotti intangibili
  • Spillover, intesa come condivisibilità (semi) libera di questi beni al fine di diffonderne l’adozione
  • Scalable, intesa come replicabilità a costo marginale zero

Conoscenza, sviluppo, disuguglianze

Si tratta di quattro aspetti che consentono di inquadrare prismaticamente alcuni attributi dei beni intangibili, ma che lasciano elusa la questione centrale del libro: dove è andato e come rilevare l’incremento esponenziale di produttività e di ricchezza prodotto negli ultimi decenni dalla messa a lavoro di conoscenza, relazioni e relazionalità?

Il premio Nobel 2018 a Paul Romer (nella foto) e a William Nordhaus indica l’urgenza di mettere in pratica modelli di crescita capaci di far dialogare l’economia della conoscenza e la sua sostenibilità sociale e ambientale.

A fronte della cosiddetta stagnazione secolare gli autori evidenziano l’esempio dei risultati del PIL statunitense negli ultimi decenni, non entusiasmanti se comparati con l’esplosione dei profitti delle imprese USA nello stesso periodo. La risposta che danno gli autori vede nella crescita degli intangibili e delle economie fondate su di essi la spiegazione di questo paradosso, citando gli studi di Paul Romer e la sua New Growth Theory e ponendo una questione urgente per tanti paesi ad economia matura: quale è la fonte della crescita economica? Bastano nuove fabbriche aperte con investimenti diretti esteri e nuove autostrade a garantire una crescita sostenibile? Secondo alcuni studiosi il capitale fisico non spiega che un terzo delle variazioni del reddito pro-capite nei paesi. Gli altri due terzi vengono spiegati da un concetto ancora alquanto indistinto quale il Total Factor Productivity. La New Growth Theory evidenzia la possibilità di prevedere e sostenere la crescita economica attraverso i cambiamenti tecnologici endogeni, intesi anche come ideatività e creatività prodotte da coloro che lavorano con la conoscenza. Ovviamente questo ecosistema di conoscenza si basa su internet, di cui è banale evidenziare l’impatto sulla produttività di singoli e imprese. Ma vi è un’effetto indiretto del potere abilitante di internet: quanto più saperi un tempo esclusiva di piccoli gruppi diventano alla portata di tutti (spillovers), tanto più le attività di quei gruppi di professionisti perdono valore, anche proprio dal punto di vista monetario. Attività intellettuali un tempo prestigiose come la traduzione oggi sono oggettivamente meno faticose e più, genericamente, accessibili, grazie all’arrivo di Google Traslate, Wordreference o Bab.la, come anche alla diffusione di piattaforme di gig economy come Upwork che consentono l’accesso ai mercati ricchi di migliaia di traduttori (e di tanti altri lavoratori della conoscenza) abitanti in paesi poveri. Questo comporta un abbassamento degli onorari, e dunque il paradosso, già rilevato, dell’economia della conoscenza che aumenta la precarietà e dunque spesso la povertà dei suoi operatori, incrementando le disuguaglianze sociali.

Nell’economia della conoscenza basata sulle piattaforme pochi stravincono e a quasi tutti gli altri restano i Like e i Retweet di consolazione.

In una società sempre più polarizzata la questione politica che si apre non riguarda l’indubbio incremento della produttività dovuta agli spillovers dei beni intangibili o alla non-rivalità delle idee, ma l’appropriazione di questo valore prodotto e diffuso nella società in maniera spesso inconsapevole e di certo quasi mai valorizzata non solo sul lato contabile, ma anche su quella della ripartizione sociale del lavoro collettivo immateriale. È il tema di cui tratta anche il recentissimo testo di Marianna Mazzucato The Value of Everything, ma sarà oggetto di una riflessione a parte.

L’Italia intangibile (quasi impalpabile)

Ora ci si potrebbe chiedere dove si trova l’Italia in questo scenario. Come è facile prevedere si trova male. A pagina 108 Haskel and Westlake mostrano, tra l’altro, come dopo la crisi del 2008 l’Italia, assieme alla Finlandia, registri i peggiori risultati in termini di crescita della produttività multifattoriale e crescita dei servizi capitali intangibili. Altri grafici a pagina 33 e 34 del testo mostrano la scarsa performance del nostro paese in termini di investimenti in beni intangibili tra il 1999 e il 2013, seguita solo dalla Spagna. Ancora: a pagina 106 si evidenzia come l’Italia sia stata tra il 2001 e il 2007, quindi prima della crisi, all’ultimo posto per quota di investimenti intangibili sul totale degli investimenti nella manifattura. Dopo la crisi del 2008 le imprese italiane hanno tagliato drasticamente gli investimenti in intangibili, perdendo ancora di più in competitività.

In realtà non esiste una equazione lineare tra produzione intangibile, crescita economica e riequilibrio sociale. L’Italia semmai vive inoltre più di altri paesi un problema di squilibrio tra offerta di competenze cognitive ed effettiva domanda del sistema produttivo nazionale. Come sottolinea Giuseppe Berta siamo di fronte a “uno scarto grave e crescente fra l’intelligenza collettiva presente nel lavoro giovanile e le possibilità d’impiego che esso può trovare. Si tratta di una questione che è presente in tutta la società occidentale e che riguarda lo spreco di risorse attuato dai modi di organizzazione dell’economia.

Che cosa è un bene intangibile

Gli autori di Capitalism without Capital individuano tre categorie generali di beni intangibili: l’informazione computerizzata, i beni innovativi, le competenze economiche. Mentre le prime due categorie sono tanto tutelate legalmente quanto registrate nelle contabilità aziendali, nel terzo ambito, quello delle competenze, ritroviamo ambiti come la formazione, le ricerche di mercato e il branding, la riorganizzazione dei processi aziendali (consulenza) che non sono tenute in considerazione nella stesura dei bilanci. Quanto vale un’impresa dopo un percorso di formazione interna? Quanto essa vale dopo una riorganizzazione interna che ne migliora produttività e magari anche il clima? A questi quesiti oggi è impossibile rispondere partendo dai bilanci.

Pensare che l’unica forma di bene intangibile siano i marchi e i brevetti (tra l’altro chiaramente rappresentati nei bilanci aziendali sotto la voce di asset non materiali) significa non comprende che la grande crescita dell’intangibile ha riguardato il mondo delle tecnologie sociali, ovvero la capacità di introdurre innovazioni organizzative nei gruppi sociali che ne incrementano la produttività sotto varie forme. In questo senso il modello produttivo kanban è una tecnologia, capace di “mettere al lavoro” il linguaggio e il sapere implicito all’interno all’interno di un gruppo di lavoratori. Come già ricordava nel 1999 Christian Marazzi ne Il posto dei calzini, la conoscenza tacita, competenze interiorizzate e implicite, quasi mai riconosciute e quantificate, fanno spesso l’efficienza di un’organizzazione o di una impresa e dunque la sua identità intangibile e il suo valore effettivo, ben oltre i numeri di un bilancio. Queste tecnologie organizzative, basate a volte su un sapere implicito e sociale introiettato dalle persone, consente di ridurre di molto i costi di coordinamento e di mettere al lavoro le attitudini personali anche per la soluzione di problemi. Si tratta del segreto della crescita nei decenni scorsi di tante imprese familiari italiane che grazie a fiducia, comunicazione e processi informali sono riuscite a competere anche in assenza di capitali e di investimenti significativi in beni capitali.

Il patrimonio culturale e relazionale delle persone, appreso all’esterno all’interno dell’organizzazione da cui traggono di che vivere, è eminentemente un costo irrecuperabile. La persona che entra in un’organizzazione la arricchisce di questo suo patrimonio e quando la abbandona si porta con sè tutto quanto ha imparato, non solo in termini di competenze tecniche e pratiche, ma anche in termini di appropriatezza sociale, efficacia relazionale e organizzativa, cultura aziendale in genere e molto altro.

Tutti questi asset mobili e in carne ed ossa non vengono registrati contabilmente né in ingresso né in uscita. Solo a livello di alta direzione si può sapere quando la perdita di quel manager costa o costerebbbe al datore di lavoro, magari come perdita di valore di borsa in caso di addio o decesso.

In Italia la Brembo resta da quasi 20 anni se non l’unico di certo il miglior riferimento sul tema del Bilancio del capitale intellettuale.

Il valore delle relazioni

Entriamo nello specifico di un caso precipuo di bene intangibile, le attività di relazioni pubbliche e di comunicazione. Esse sono sempre sunk, irrecuperabili in termini di costi, basate su inevitabili spillovers e sulla ricerca costante di sinergie. Le relazioni personali però non sono facilmente scalabili. Le relazioni e le competenze effettive soggettive non sono fungibili né cumulabili e dunque si tratta di un ambito labor-intensive.

Ad esempio: che valore ha, nell’epoca della interconnessione continua e pervasiva delle persone, vantare tremila o quattromila contatti su Facebook o LinkedIn? Quante centinaia di biglietti da visita accumuliamo ogni anno? I nostri smartphones hanno oggi rubriche pressoché illimitate: quanti sono davvero pregnanti e quanti di questi contatti sono pronti ad ascoltarci con interesse?

Il 2018 in Italia potrebbe essere ricordato anche come l’anno della apoteosi (e forse dell’inizio del declino) della influencer più celebre, la donna-brand Chiara Ferragni. Ma farsi trascinare in questa sfida quantitativa per un professionista della comunicazione finirebbe per risultare fuorviante quanto frustrante. L’influencer è un broadcaster dei social media, non un soggetto che vuole costruire relazioni durature, reciproche e pregnanti. Il relatore pubblico è per definizione l’esatto contrario di un broadcaster che accumula o compra follower e fan da propinare al media planner in cerca di nuove audience. E, secondo chi scrive, un buon relatore pubblico non vuole solo “connecting the dots”, ma anche sviluppare sapere e idee capaci di dare un nuovo senso alle relazioni. In generale, non sei un buon PR se non arricchisci le relazioni che intendi sviluppare o rilanciare. Se non lasci un valore aggiunto, in termini di contenuti, di conoscenze, di idee, di cambiamento di atteggiamento, non hai fatto bene il tuo mestiere.

Eppure a quasi un secolo dalla nascita, tale professione resta ancora in un limbo per quanto riguarda il suo valore e la sua monetizzabilità. Nel corso dell’ultima edizione del simposio di Bled Toni Muzi Falconi ha presentato un ricerca dal tema “How Big is PR (and why it matters)”. Attraverso un’analisi conservativa dei fatturati e degli onorari di tutti i professionisti che si occupano del settore a livello globale, Muzi Falconi ha stimato l’impatto economico e non delle attività di PR in tra i 250 e i 575 miliardi di dollari su scala globale.

Alla luce degli spunti precedenti mi permetto di suggerire a Toni di essere più ambizioso e di domandarsi quanto è grande la massa oscura o il Total Factor Productivity delle PR.

Come sa bene anche Toni, Il valore delle PR non può essere ridotto al fatturato del settore e degli addetti diretti e indiretti, perché l’impatto delle PR è ben più ampio del fatturato del settore. Quali sono gli effetti non monetizzabili o differiti? Oggi vi sono nuovi strumenti di data analytics per inferire e stimare il contributo di diverse variabil e delle diverse attività di comunicazione sul processo di persuasione all’acquisto o al voto, sulla valutazione di un marchio o anche sul valore di borsa di un’impresa.

Storicamente una serie di voci già possono essere poste a bilancio, quali il valore del marchio, l’avviamento, le vendite a margini incrementati rispetto alla media del settore. D’altra parte le conseguenze di PR negative possono manifestarsi a bilancio attraverso un incremento delle spese legali dovute a errori di comunicazione e/o il calo delle vendite. Ma oggi, grazie a modelli di analisi multivariata estremamente complessi, si potrebbe davvero iniziare a cogliere almeno una parte di questa “massa oscura” che storicamente tanto impatta nelle attività di PR. Un percorso di ricerca potrebbe partire da piccoli progetti per studiarne l’impatto non più in termini di mera conta delle uscite media o di sondaggi prima e dopo, ma per valutarne tutte le correlazioni tra le variabili (in una relazione anche il relatore è condizionato dal contesto e cambia nel tempo il suo approccio) e le propagazioni delle singole relazioni sviluppate. Il Total Factor Productivity delle PR potrebbe essere un orizzonte di ricerca ricco di scoperte e sorprese.

Chi finanza la società del valore intangibile?

L’ultimo capitolo del libro individua nello Stato l’unico soggetto che può rispondere a una serie di questioni aperte, quali la proprietà dei beni intangibili comuni, il finanziamento delle imprese e dei percorsi di ricerca che creano beni intangibili non liquidabili, la tutela della non-rivalità delle idee, la lotta alle ineguaglianze che i beni intangibili finiscono per incrementare.

Riprendendo alcune argomentazioni da Lo Stato Imprenditore di Marianna Mazzucato, gli autori ricordano che in Inghilterra non meno di un terzo degli investimenti in ricerca e sviluppo dipende dallo Stato perché sono attività troppo rischiose per le imprese, che preferiscono poi fruire poi delle soluzioni che si dimostrano vincenti. Un credito sulle imposte per investimenti capitali in imprese che sviluppano beni intangibili è la proposta che viene avanzata per incentivare gli investimenti privati. Anche le esperienze di Singapore con la Productivity e Innovation Tax Credit vengono citate, come anche la possibilità per lo Stato di acquisire beni intangibili non ancora testati sul mercato al fine di finanziarne le fasi di sviluppo e di adozione.

Una modesta proposta potrebbe partire da un approfondimento della definizione delle due filiere del valore parallele che abbiamo descritto all’inizio, ipotizzando di destinare una parte dell’imposta sul valore aggiunto relativa a ognuna delle fasi intangibili del processo produttivo a finanziare investimenti nel campo dei beni intangibili e del sostegno a quelle che il libro chiama le soft infrastructures alla base del loro sviluppo, ovvero le norme, i valori e principi civici, il capitale sociale del territorio o del paese che consente alle imprese che operano in questo scenario di condividere, collaborare, sviluppare alleanze e strategie congiunte senza particolari formalismi ma in base a una corretta relazione reciproca. Una specie di IVA di scopo, indirizzata a finanziare lo sviluppo dei beni intangibili sia in termini di ricerca di base, sia in termini di capitale sociale.

Che tanti studiosi, in un’epoca di capitalismo cognitivo transnazionale, di smaterializzazione dell’esperienza, di sovranismo corporativo e di frammentazione dei percorsi di vita e di lavoro, vedano nel tanto vituperato Stato, magari ancora tanto analogico, l’unica àncora per evitare che i beni intangibili diventino un ulteriore elemento di polarizzazione della società, la dice lunga sui limiti di tutte le altre soluzioni finora proposte per superare tale concetto, forse il più importante elaborato dalla modernità assieme a quello di soggetto.

Tassare (meglio) l’intangibile per meglio svilupparlo e ridurre le ineguaglianze prodotte dal digitale potrebbe essere un punto programmatico per una politica sociale consapevole del mondo in cui vive.

 

Bibliografia

Jonathan Haskel, Stian Westlake, Capitalism without Capital: The Rise of the Intangible Economy, 2017, https://www.theguardian.com/commentisfree/2017/dec/26/the-guardian-view-on-capitalism-without-capital

 

Mariana Mazzucato, The Value of Everything, 2018, https://marianamazzucato.com/publications/books/value-of-everything/

 

Toni Muzi Falconi, Frank Ovaitt, How big is PR? And why does it matter?, 2018
http://www.bledcom.com/sites/default/files/040_Session%204A_Muzi%20Falconi_part%201.pdf

http://www.bledcom.com/sites/default/files/040_Session%204A_Muzi%20Falconi_part%202.pdf
http://www.bledcom.com/sites/default/files/040_Session%204A_Muzi%20Falconi_part%203.pdf

 

Luna Leoni, La misurazione del capitale intellettuale: il caso Brembo, 2018,

https://www.researchgate.net/publication/325398312_La_misurazione_del_capitale_intellettuale_il_caso_Brembo

 

Philippe Aghion, Benjamin F. Jones, Charles I. Jones, Artificial Intelligence and Economic Growth, 2017,  https://web.stanford.edu/~chadj/AI.pdf

 

Sergio Bologna, Lavoro autonomo e capitalismo delle piattaforme, 2017, https://www.sinistrainrete.info/lavoro-e-sindacato/10855-sergio-bologna-lavoro-autonomo-e-capitalismo-delle-piattaforme.html

 

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Karl Wheelan, 10 determinants of Total Factor Productivity, 2015, http://www.karlwhelan.com/Macro2/slides-10.pdf

 

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Brian Arthur, The nature of Technology, 2011, https://www.amazon.com/Nature-Technology-What-How-Evolves/dp/1416544062

 

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Alberto Felice De Toni, La misurazione dell’intangibile, 2006, http://www.diegm.uniud.it/detoni/download/didattica/GSC0607/Intangible_Capital.pdf

 

Elisabetta Bevilacqua, Zerouno, 15 maggio 2006 https://www.zerounoweb.it/cio-innovation/competenze/imprese-e-intangibles-il-capitale-nascosto-da-valorizzare-e-comunicare/

 

Christian Marazzi, Il posto dei calzini, Bollati Boringhieri, 1999,

https://www.juragentium.org/books/it/marazzi.htm

 

Jean Baudrillard, Il sistema degli oggetti, 1968, http://ebookbit.com/book?k=Il+sistema+degli+oggetti&isbn=9788845254062&lang=it&source=firebaseapp.com#pdf

 

(da questo contributo in avanti non userò più link ad Amazon)

Algoritmi e fake news: i nuovi alibi per i fallimenti politici

Algoritmi Social minds

Algoritmi e fake news: i nuovi alibi per i fallimenti politici

All’inizio fu un bottone rosso.

Ricordate? Il 19 gennaio 2018  il Ministro degli interni Marco Minniti pretese “una vigilanza delle forze di polizia sulle notizie palesemente false” e lanciò il famigerato bottone rosso contro le fake news.

Ma se una notizia è palesemente falsa (tipo Renato Balestra non si è mai sottoposto a chirurgia plastica o la Volkswagen regala 800mila auto a San Valentino) perché ci sarebbe bisogno della Polizia? Immaginate i poliziotti virtuali impegnati a inseguire le tracce di tanti Ermes Maiolica digitali per poi dire loro: “mi raccomando burlone, non dire bugie”?

Ma in conferenza stampa il capo della Polizia Gabrielli fu più sincero: l’emergenza vera era l’imminente campagna elettorale per le elezioni 4 marzo. Certo, bisognava stare attenti ai congiuntivi di Di Maio e alle solite bufale di Berlusconi, ma quale è il confine tra promessa elettorale, diritto di critica e polemica politica? Tra generica cialtronaggine e specifica denigrazione?

La Polizia offriva anche il modulo online per fare le segnalazioni: immaginavamo orde di sicofanti digitali pronti a segnalare ogni incongruenza e balla degli avversari di collegio elettorale o per le elezioni di condominio.  Il tutto promosso da un ministro aderente a un partito che vantava un segretario chiamato fin da ragazzo “il bomba”.

Come è andata a finire? Si è mossa addirittura l’ONU dichiarando che il famigerato bottone rosso era “incompatibile con gli standard di legge internazionale sui diritti umani,” e delle 128 notizie che la Polizia dichiarava di aver scovato come fake con tanta acribia non esiste un elenco. L’iniziativa è stata fatta sparire, discretamente.

Un’iniziativa tanto imbranata è stata dunque la risposta del governo italiano a un timore diffuso basato su un chiaro teorema: le centrali di diffusione di fakenews basate in Russia e gli strumenti di microprofilazione che sfruttano i dati di Facebook e Google sostengono le opzioni politiche cosiddette populiste, come già successo in Usa con Trump, nel Regno Unito con il Leave e in Germania con il successo di Alternative fur Deutschland. L’obiettivo, come ha evidenziato un rapporto della Commissione Esteri del Senato americano, è destabilizzare l’Occidente e nello stesso rapporto fu lanciato l’allarme anche per l’Italia, indicando esplicitamente i beneficiari di queste azioni di manipolazione. Una sana democrazia occidentale basata su principi (neo)liberali si difende dalle fake news perseguendole. Se almeno le sapesse definire, certo.

Ma chi erano i partiti maggiormente indiziati di fruire di questo incrocio perverso tra fakenews putiniane e iperprofilazione digitale? Ovviamente la Lega Nord guidata dal filoputiniano Matteo Salvini e il Movimento 5 Stelle creato dal guru del webmarketing Gianroberto Casaleggio. E chi ha stravinto le elezioni del 4 marzo? Proprio Lega e Cinque Stelle. Allora abbiamo tutti gli elementi per arrivare rapidamente alla conclusione di questo articolo: c’era il timore di manipolazioni dall’estero degli orientamenti degli elettori che già hanno avuto successo in Usa, UK e (parzialmente) in Germania e hanno puntualmente vinto proprio i partiti sospettati di fruire o usare queste tecniche.

Grazie per la lettura e arrivederci.

O forse no.

Post hoc ergo propter hoc? Contro il pensiero magico digitale

Un vecchio adagio di base della logica ricorda proprio l’errore alla base del pensiero magico: post hoc ergo propter hoc, se un fatto precede un altro, esso non ne per forza è la causa.

La sequenzialità temporale non è un nesso causale. Figuriamoci quando la presunta causa è tutta da dimostrare.

Giornalisti, commentatori, tuttologi assortiti nelle ultime settimana sono tutti diventati esperti di Facebook Ads per spiegarci non solo che c’è un’unica regia che unisce il microtargeting,  la fakenews e populismi, ma che soprattutto queste azioni abbiano avuto una clamorosa efficacia e siano l’arma finale per destabilizzare l’Occidente (il quale evidentemente non riesce a destabilizzarsi abbastanza da solo nonostante gli sforzi delle sue elite). Quali sarebbero le prove a sostegno dello straordinario successo di questa strategia?

Come accade nelle culture premoderne, quando non si hanno strumenti culturali e tecnici per spiegare fenomeni naturali o tecnologici ci si rifugia nel pensiero magico.

E da qualche tempo dobbiamo registrare la nascita del pensiero magico digitale, in cui tanti commentatori privi di competenze tecniche e della pazienza per leggere le ricerche di settore, sovrappongono piani di analisi e costruiscono teoremi di causalità senza portare un minimo di studio empirico.

Il pensiero magico digitale parte da alcuni principi:

  1. I concreti algoritmi, di cui è pieno il nostro mondo, da componente tecnica di cui studiare e denunciare la non-neutralità, sia perché scritti da esseri umani con i loro pregiudizi sia perché spesso piegati alle logiche della società che ci sta fornendo il servizio, vengono raccontati come un elemento metafisico, l’Algoritmo con la A maiuscola. Una ipostasi per rinunciare a studiare i fatti tecnici nella loro complessità e nelle loro distorsioni e proporre invece una spiegazione astratta quanto polivalente, una specie di semidio digitale che tutto spiega e tutto vuole, come quando invece dei meteorologi ci si affidava ad Eolo o a Poseidone.
  1. Citare coattivamente e ricorsivamente l’Algoritmo (sempre con la A maiuscola) come fino a cinquant’anni fa si citava il Capitale per spiegare un po’ di tutto, dalla guerra in Vietnam alla guerra in Siria, dalla sconfitta della squadra del cuore ai cambiamenti climatici, tanto in qualche modo qualcosa può sempre entrarci, fa moderno e non impegna ad analizzare le molteplici variabili che impattano su ogni fenomeno.
  1. Un bel teorema-mischione cospirativo che mette dentro Mark Zuckerberg, Larry Page e Sergej Brin, Jeff Bezos, Vladimir Putin, Xi Jinping, Beppe Grillo e magari il Gabibbo per dimostrare che sono tutti impegnati a destabilizzare le certezze dell’Occidente, ovvero a rovinare gli aperitivi dell’upper class di Manhattan, dei Parioli o di Brera. Poco conta che i Big del digitale statunitense siano quasi tutti liberal e hanno dato uno sostegno dirimente all’elezione di Obama (il Presidente giurista che spiava le email dei capi di Stato alleati), hanno pesantemente finanziato la campagna di Hillary Clinton o hanno grossi problemi con le pretese cinesi e russe di sovranismo digitale.
  1. Un equivoco tecnico di fondo, per cui non si capisce quando il termine algoritmo per parlare di algoritmi strictu sensu, programmi eseguibili e codici. Naturalmente la critica ai grandi nemici della libertà digitale avviene usando operativi Mac, Win o Android e postando tutto su Facebook. Un po’ come se negli anni Settanta i grandi intellettuali di sinistra avessero lanciato i propri strali contro il Capitale dalle colonne del Sole 24 ORE, magari grazie a ricerche finanziate dalla Mount Pelerin Society.

Il pensiero magico digitale va ora di gran moda in certi circuiti culturali perché come “ai tempi degli dei falsi e bugiardi”, credere nell’Algoritmo soprannaturale esime dall’ammettere colpe e fallimenti di questo mondo, non solo quando si tratta di una prenotazione sbagliata, ma ancor di più quando intere classi dirigenti e politiche hanno rinunciato a dialogare, comprendere e dare voce agli elettori che pretendevano di rappresentare.

Facebook, “why always me?”

Prima che venisse eletto Trump, la principale accusa mossa alla piattaforma di Zuckerberg era di creare delle filter bubbles confermative dei pregiudizi soggettivi e di cancellare o emarginare attraverso algoritmi o scelte editoriali soggettive i contenuti di orientamento conservatore. Come sta emergendo negli ultimi giorni, a dispetto della retorica ribadita nei suoi proclami da Zuckerberg, Facebook resta un sistema opaco anche per gli studiosi più esperti, e affermare di aver compreso gli obiettivi politici globali della piattaforma fa progressivamente slittare il ragionamento dall’abduzione ai detti oracolari.

E’ d’altronde acclarato che agenzie di propaganda russe sono intervenute nella campagna presidenziale Usa del 2016. Quello che tanti cospiratori non sanno o non dicono è che l’inchiesta del Congresso ha determinato che l’investimento in Facebook Ads del gruppo russo di disinformazione IRA è stato di 46,000 dollari (aggregando altri investimenti sospetti si può arrivare a non più di 100,000 dollari), mentre l’investimento complessivo di Trump e della Clinton sulla piattaforma è stato di 81 milioni di dollari.

Per quanto i messaggi costruiti dai russi fossero volutamente incandescenti per suscitare più engagement, difficilmente si può valutarne l’impatto. Semmai la squadra digitale di Trump ha lavorato meglio su Ads Auctions e Custom Audiences, in sostanza è stata più efficiente perché ha generato più engagement ed engagement (coinvolgimento in termini di tempo, di condivisioni e di contenuti originali postati) è il mantra che indirizza tante preferenze di Facebook quando si tratta di dar visibilità a contenuti e pubblicità. E questo, come spiega Antonio Garcìa Martinez, già parte del monetization team di Facebook, è ancora più vero per NewsFeed.

Quando i quotidiani e i commentatori tuttologi citano gli 87 milioni di profili che avrebbe acquisito (all’epoca legittimamente) Cambridge Analytica non spiegano quanti di essi sono stati effettivamente utili alla campagna di Trump. E in tutto questo ragionamento vi sono due assunzioni che configgono apertamente.

a) Se Facebook promuove un engagement tanto autoreferenziale da creare le celeberrime filter bubbles, è possibile che le azioni di microprofilazione sia riuscite a scardinare le filter bubbles degli elettori negli swinging states in maniera così performante?

b) E’ realistico pensare che il microtargeting abbia d’improvviso soppiantato l’efficacia di ogni altro media e risulta essere l’unico strumento capace di far cambiare idea repentinamente a centinaia di migliaia se non milioni di elettori?

La Clinton ha concentrato i suoi 140 milioni di dollari di pubblicità televisiva su Ohio, Pennsylvania e Florida, perdendo in tutti e tre, mentre Trump ha avuto a disposizione “solo” 40 milioni di dollari.

Certo, se uno nota che Trump ha vinto in Michigan per 10mila voti, in Pennsylvania per 50mila e in Florida per 100mila, può legittimamente ipotizzare che un distacco così piccolo sia stato frutto del microtargeting. I commentatori apocalittici dell’algoritmo non ricordano però che in questi Stati quattro anni prima Obama aveva vinto rispettivamente per 450mila, 300mila e 70mila voti. Dunque è ragionevole supporre che il microtargeting ha spostato quasi il 10% dei votanti solo in questi 3 stati?

Questi stessi votanti, trattati da certi commentatori quali eserciti di zombie digitali capaci solo di reagire passivamente agli stimoli cui li sottopongono le piattaforme sociali e dimentichi di qualsiasi relazione personale, a partire dalla famiglia, forse hanno anche voluto protestare contro una crescita economica statunitense  senza occupazione che preoccupava Obama a poco più di un anno dalla fine del mandato.

Proprio a proposito di Barack Obama, viene sempre da chiedere ai commentatori apocalittici perché non si sono stracciati le vesti quando le invasive strategie di microtargeting attuate del 2008 e del 2012 hanno permesso la vittoria del Senatore di Chicago, al contrario celebrate e studiate come casi da manuale della nuova comunicazione e della nuova politica tout court. Viene forte il sospetto che Cambridge Analytica, al netto della grande pubblicità che sta ottenendo, avrebbe dovuto lavorare per far vincere l’altra candidata per venir celebrata oggi come un club di geni e non come un covo di ladri di identità digitali.

 

Le elezioni italiane del 4 marzo: la tecnologia digitale come alibi della politica

Ad oltre un mese dalle elezioni del 4 marzo possiamo contare su un numero significativo di analisi e di ricerche che consentono di tracciare un bilancio delle strategie di comunicazione politica applicate.

Se partiamo dagli allarmi lanciati dal Congresso degli Stati Uniti e ripresi dallo stesso Ministero degli interni italiano dovremmo provare a rispondere ai seguenti due punti:

  • Quali fake news hanno condizionato il dibattito e l’agenda setting elettorale e in che misura?
  • Quali partiti hanno realizzato campagne di iperprofilazione su facebook?

Ma al di là delle tecniche salite alla ribalta, cerchiamo di ragionare anche su obiettivi e risultati:

  • Quali sono state le strategie di comunicazione dei principali attori politici?
  • Quali sono state le campagne più efficaci?

Abbiamo visto come vi sia stato un allarme diffuso e internazionale prima delle elezioni. Non vi sono prove di bufale di origine russa, ma è possibile che l’alto allarme abbia consigliato una certa prudenza e discrezione nell’intervenire nella campagna elettorale italiana. Ma anche questa è conclusione prematura basata, su un periodo di tempo limitato, che invece va approfondita.

Un articolo di El Pais del 2 marzo scorso riporta una ricerca effettuata dal centro di ricerca The Alto tra febbraio e luglio 2017 la quale evidenzia come Sputnik.it abbia un’influenza sproporzionata sulle conversazioni digitali italiane a fronte di soli 45.000 followers Facebook e 6.300 followers su Twitter. Questo alto impatto può essere spiegato con l’alta mobilitazione di un numero relativamente limitato di account. Secondo lo studio su un 32% di account Twitter che possono essere definiti anti immigrati, I loro tweets rappresentano i due terzi delle conversazioni sul tema.

Ma l’agenda setting sul tema dell’allarme immigrazione non è solo una specialità russa. Le testate di centrodestra ilgiornale.it e libero.it totalizzano molto traffico con gli articoli dedicati all’allarme immigrazione. Quando agli allarmismi sul tema si contrappone un generico buonismo ecco che si arriva al gap tra immigrazione reale e percepita che pone l’Italia ai vertici in Europa.

Se l’agenda setting sull’immigrazione è stato fondamentale per il successo della Lega e il crollo della sinistra, vi è anche da dire che Berlusconi non ha raccolto quasi alcun dividendo, tanto che ha immediatamente chiuso le trasmissioni televisive che più cavalcavano il tema come Quarto Grado di Paolo Del Debbio e Dalla vostra parte di Maurizio Belpietro.

Come mostra il grafico di seguito, nessun altro partito come la Lega ha spinto tanto sul tema dell’immigrazione.

 

 

Il trionfo leghista va correlato a un agenda setting costruito da tre principali aree mediatiche:

  • I quotidiani e le edizioni online di centro destra, controllati direttamente o meno da Berlusconi
  • Le testate online estremiste, nazionaliste e antiimmigrazione, come Imola Oggi, molto attivi sui media sociali e registrate da tempo nella black list di Butac come spacciatrici di notizie distorte o esagerate
  • I media della galassia mediatica putiniana, ovvero RT e sputnik.it, oltre a vari account di area e gruppi anche su Facebook che promuovono personaggi come Aleksandar Dugin.

Se l’allarme immigrazione può essere certamente collegato a strategie di agenda setting nazionali o internazionali, non sono emersi altri traini di consenso eterodiretti dall’estero. Di certo resta un elemento di fragilità sociopolitica il fatto che nella graduatoria continentale Media Literacy Index l’Italia si trovi in fondo tra i paesi occidentali, indice di una chiara vulnerabilità alle fake news.

 Il reddito di cittadinanza, che punta a rispondere alle urgenze di una fascia della popolazione italiana, 9 milioni, prossima o già vittima di povertà, è stata un’esclusiva grillina. Nei mesi precedenti le elezioni e anche durante la campagna elettorale né la televisione di Stato né le televisioni di Berlusconi avevano interesse a sollevare il problema. Il pubblico mediamente più colto e affluente di Twitter non ha trattato il tema in maniera diffusa il tema, mentre i partiti di governo non avevano alcun interesse a evidenziare la questione. Dunque il tema è rimasto quasi patrimonio esclusivo del Movimento Cinque Stelle, che ha potuto farne un tema caratterizzante la sua campagna elettorale, grazie anche alla scelta del PD di raccontare solo un paese in ripresa e quella di LeU di concentrarsi sui diritti.

Quattro occasioni fallite dal Partito Democratico

Possiamo individuare quattro notizie esterne al ristretto dibattito sulle proposte politiche che hanno scandito la campagna elettorale:

  • L’allarme per il ritorno del fascismo dopo la marcia di Casa Pound a il 7 gennaio a Roma
  • L’omicidio di Pamela Mastropietro e la successiva tentata strage di Macerata tra fine gennaio e inizio febbraio
  • Il caso delle mancate restituzioni delle diarie da parte di alcuni deputati e senatori dei Cinque Stelle scoppiato con il servizio de Le Iene del 10 febbraio
  • I video di Fanpage del 17 marzo sull’inchiesta sullo smaltimento rifiuti in Campania che vede coinvolto Roberto De Luca, figlio del Presidente PD della Regione Campania

Matteo Salvini ha assolutamente dominato la narrazione sull’omicidio di Pamela Mastropietro da parte di uno o più spacciatori nigeriani e della successiva tentata strage di neri tentata dal suo ex candidato Luca Traini. A partire da inizio febbraio i post sul tema di Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno dominato il dibattito su Twitter e Facebook in termini di visibilità e condivisioni.

In questo caso il centrosinistra, sia tramite esponenti politici sia tramite intellettuali di area come Roberto Saviano, è stato incapace di trovare un’interpretazione mobilitante che andasse oltre le accuse a Salvini di strumentalizzare le tragedie. Mentre i Cinque Stelle hanno intelligentemente evitato di scendere nel dibattito, estremamente polarizzato, il centrosinistra si è rifugiato nell’antifascismo generico, scelta che forse aveva l’obiettivo di ricompattare la sua storica base elettorale ma che si è rivelata debole e poco sentita.

Sul tema del pericolo antifascista il centrosinistra aveva già battuto i suoi colpi con la marcia di Como a dicembre e i tanti allarmi sul ritorno delle destre dopo la partecipata marcia a Roma di CasaPound del 7 gennaio, allarmi fortemente esagerati da vari media vicini al PD. Al completamento degli scrutini le due formazioni che si richiamano al fascismo, Casa Pound e Forza Nuova, hanno registrato rispettivamente lo 0,9 e lo 0,3% dei consensi. Dove è finito il ritorno del fascismo in Italia, come si paventava sulla scorta del successo di AfD in Germania? Se non si può definire questa esattamente una fakenews, di certo si tratta di un fenomeno grandemente esagerato.

I Cinque Stelle sono riusciti a gestire in maniera eccellente la scoperta delle restituzioni falsificate da parte di alcuni loro eletti. Il confronto con la “iena” Filippo Roma di Luigi Di Maio con l’annuncio delle sanzioni per i colpevoli è stato il post su facebook più cliccato della campagna elettorale. La rilevanza polemica che è stata data al fatto da parte degli avversari politici e delle testate avverse hanno fatto sì che tutta Italia venisse a sapere di questa scelta politica ma anche promozionale dei Cinque Stelle. Dopo qualche giorno lo scandalo che doveva pesantemente colpire la credibilità dei Cinque Stelle è diventato un fattore positivo e di crescita dei consensi.

Il Centrosinistra si ritroverà pochi giorni dopo in estremo imbarazzo nel difendere il figlio del Presidente della Regione Campania e assessore a Salerno Roberto De Luca, ripreso dalle telecamere nascoste di Fanpage mentre partecipa a incontri propedeutici all’assegnazione di appalti per lo smaltimento dei rifiuti. In questo caso Centrodestra e Cinque Stelle possono agevolmente martellare sulla vicenda.

In questi quattro snodi del racconto elettorale a situazioni oggettive e imprevedibili si è sovrapposta una incapacità di chi gestiva la comunicazione del PD nell’argomentare e nell’offrire narrazioni alternative a quelle di Centrodestra e Cinque Stelle. Accusare le moderne tecniche di microprofilazione sui social media o evocare le fakenews, oppure accusare i limiti caratteriali o politici del partito committente quando non si riesce a gestire le crisi di comunicazione o di reputazione di cui inevitabilmente può essere costellata una campagna elettorale è indice meno di mancanza di umiltà che di scarsa professionalità.

Movimento Cinque Stelle e Salvini: due modi opposti e di successo di fare comunicazione politica

Anche da un punto di vista mediatico i vincitori sono Salvini e Di Maio, ma con strategie radicalmente diverse.

Quella di Salvini è un leaderismo digitale. Il “Capitano” (come viene spesso chiamato nei post) satura Twitter postando più di ogni altro politico, costantemente invita i suoi followers su Facebook a spalleggiarlo nelle polemiche o a dire la loro (tipica call to action), utilizza espressioni giovanili, popolari o anche volgari per entrare in sintonia con i diversi tipi di pubblico che vuole attivare.

Il social media manager Luca Morisi, docente di Informatica filosofica a Verona, ha sviluppato un meccanismo di comunicazione top-down, in cui i messaggi del capo cercano un riscontro di consenso e di attivazione all’interno delle varie tribù sociali che lo seguono con l’obiettivo di suscitare di volta in volta sentimenti di indignazione o di appartenenza o di polemica ma senza arrivare ad argomentazioni particolarmente dettagliate. Gli hashtag #primagliitaliani o #vergogna sono atemporali e acontestuali, possono andare bene quasi in qualsiasi contesto e anche in qualsiasi momento storico, dall’eliminazione dell’Italia dai Mondiali di calcio fino alle accuse agli altri politici sul tema immigrazione.

In Italia Twitter dichiara circa 6,5 milioni di account che in termini di utenti attivi non arriverebbero a otto volte meno, si tratta di uno strumento quasi di elite, che tuttavia Salvini, seguendo lo stile di Trump, ha trasformato in un luogo dove il dileggio e la polemica con gli avversari vengono esaltate.

I parametri essenziali di successo su Twitter sono quantità, stile e mobilitazione: con un numero altissimo di tweet ogni giorno, il suo stile corrosivo e una base di seguaci maggiore, Salvini ha dominato ogni altro avversario quando questi cadevano ingenuamente nelle sue provocazioni.

Come scrive Walter Quattrociocchi nell’ultimo numero de Le Scienze: “Tantissime informazioni, poco tempo per elaborarle attentamente e difetti connaturati alle nostre percezioni creano un mix potentissimo. Notiamo le informazioni che più ci convincono e che meglio aderiscono alla nostra visione del mondo (e ignoriamo quelle avverse), su di esse ci soffermiamo e le condividiamo con i nostri amici virtuali. Da confirmation bias si arriva così alle echo chamber e si innesca così un processo che, segregando su visioni comuni, fortifica la polarizzazione. Le fake news sono solo la punta dell’iceberg, l’uso strumentale e pretestuoso delle informazioni è solo una conseguenza di questo fenomeno molto più radicato e profondo” (W. Quattrociocchi, La babele di Internet, Le Scienze, 1 aprile 2018, pag. 42)

Quanto leaderistica è la strategia della Lega, tanto la strategia del Movimento Cinque Stelle è molecolare e può essere indicata come paradigmatica di un modello alternativo e altrettanto vincente di gestire la comunicazione politica. Se da una parte c’è “il Capitano”, dall’altra il mantra è “massima condivisione”. La Casaleggio e Associati non solo gestisce i contenuti e ne promuove la distribuzione (e la recente ricerca dell’Università Carlo Bo ne attesta l’estrema efficacia), ma favorisce anche la creazione di contenuti sviluppati dagli stessi militanti. Questi contenuti, non direttamente riferibili alla Casaleggio, consentono di testare l’umore degli attivisti e di aprire dei fronti polemici anche violenti senza un diretto coinvolgimento. Si tratta di meccanismi che si sviluppano anche sul blog, dove una parte dei commenti sono “spintanei”, ovvero scritti dallo staff. Checchè ne scriva il complottista Jacobo Jacoboni, le tattiche di gestione di un’assemblea o di una community sono in essenza le stesse. Chiunque ha fatto politica quando le assemblee erano una cosa seria con scontri anche fisici sa che alcune posizioni venivano poste e fatte approvare dall’assemblea attraverso un’azione coordinata di vari partecipanti, che rimarcavano una posizione e indirizzavano verso l’esito voluto la discussione.

La teoria delle reti a invariaza di scala elaborata da Albert Laszlo-Barabasi e applicata da Gianroberto Casaleggio alla politica italiana si sta rivelando estremamente efficace. Venuto meno lo snodo (hub) originario, Beppe Grillo, si è lasciato lo spazio agli snodi che sono cresciuti in questi anni, che sono stati fatti crescere in parallelo in termini di connessioni/popolarità anche attraverso l’aiuto della Casaleggio e Associati. Se Luigi Di Maio ha 1,591 milioni di like mentre Matteo Salvini lo supera nettamente con 2,1 milioni, il Movimento Cinque Stelle può contare su molti più snodi di comunicazione della Lega. Alessandro Di Battista vanta anch’egli a 1,5 milioni di Like, Paola Taverna arriva a 486mila, Roberto Fico registra 336mila Like, Danilo Toninelli 187mila. Basti dire che la storica figura leghista di Roberto Calderoli arriva ad appena 41mila Like.

Se i grandi hub diffondono le informazioni e attivano le campagne (“attenzione, massima diffusione”), i nodi periferici diventano più strategici per avvicinare e persuadere le loro personali reti amicali e familiari. I microinfluencer riescono a fare opinione a livello familiare, indirizzando le scelte di tanti indecisi.

Ecco perché l’analisi Ipsos TWIG evidenzia il paradosso del primo partito di Italia, che cresce di quasi due milioni di voti ma che registra un fortissimo gap tra performance comunicazione del leader (pur eccellente, come attesta la crescita della fan base) e performance del partito nel suo complesso. In realtà quel gap è ampiamente recuperato dalla grande capacità di mobilitazione del Movimento Cinque Stelle, che in qualche modo è l’unico partito il cui successo non dipende dal leader.

In questo senso la strategia dei Cinque Stelle non richiede investimenti in microtargeting perché la grande capacità di mobilitazione consente una capacità di diffusione dei messaggi in maniera assolutamente trasversale, non solo per caratteristiche sociodemografiche ma anche per quanto riguarda i media di riferimento. La rete dei microinfluencer risulta anche più efficace del microtargeting, perché basata su un rapporto spesso personale costruito nel mondo reale.

Sembra un paradosso per un movimento politico nato sul web ma sviluppatosi programmaticamente fuori di esso, ma la Casaleggio e Associati, specializzata in ecommerce, è pienamente consapevole che oggi il consumatore o l’elettore deve essere seguito e persuaso in un’ottica omnichannel, che implica anche i contatti faccia a faccia e i bagni di folla nelle pubbliche piazze.

 

Conclusioni

Una ricerca presentata su La Stampa del 19 febbraio curata da Community Media Research evidenziava come cresca costantemente l’importanza dei nuovi media per l’acquisizione delle informazioni, specialmente tra i più giovani, ma per quanto riguarda le opinioni esse hanno ancora un impatto limitato, al contrario delle reti relazionali reali: famiglia, amici, persone abitualmente frequentate. È sempre sbagliato separare, per motivi di ricerca o di semplificazione concettuale, quello che nella realtà è sempre costantemente interrelato: viviamo non solo un’esistenza onlife, costantemente scambiata tra mondo fisico e mondo digitale, ma anche per quanto riguarda i media, le interlocuzioni reali, le relazioni e i contatti digitali, il tutto non ha alcuna soluzione di continuità. Credere dunque che microtargeting o fake news possono nell’arco di tempo limitato di una campagna elettorale condizionare decine se non migliaia di persone è farsesco e autoassolutorio, mentre non è un caso che l’ultima campagna elettorale è stata vinta dai partiti non solo più efficienti sul web ma anche più presenti sul territorio.

I professionisti del debunking sono talmente vigili durante una campagna elettorale che difficilmente una fakenews potrebbe incidere realmente. Quello che invece viene poco evidenziato è l’impatto delle fakenews nel costruire un framing rispetto ad alcuni temi mesi o anni prima che si arrivi alla competizione elettorale. Insomma: sbagliato il bottone rosso a poche settimane dalle elezioni, ma sbagliato anche farlo sparire senza ripensarlo non appena l’iniziativa ha evidenziato tutti i suoi limiti.

Un ulteriore elemento che deve essere accertato è il fallimento della comunicazione del PD, incapace di gestire la campagna ordinaria e gestione delle crisi di comunicazione ma anche solo di caratterizzare la comunicazione del committente con una unique selling proposition memorabile. Lo stesso Berlusconi, nonostante i ritardi di natura proprio culturale nel gestire i nuovi media, ha saputo rimpacchettare il vecchio “meno tasse per tutti” con 7 memorabili lettere: #flattax.

In questo senso denunciare a posteriori il pensiero magico digitale che accusa Cambridge Analytica di ogni nefandezza (e in Italia non ha nemmeno lavorato!) non fa i conti con il fallimento professionale dei consulenti PD e ancor di più con i limiti della proposta politica.

Non si è studiato abbastanza l’impatto nella campagna elettorale dei meccanismi “tribali” o “comunitari” che sanno attivare la Lega e i Cinque Stelle. Puoi avere ogni sorta di media o di psicografia dalla tua, ma se alla fine non hai una base elettorale altamente motivata che diffonde il tuo messaggio, forse non tanto casa per casa come una volta, ma di certo di più contatto per contatto sui media sociali, non potrai che essere destinato alla sconfitta. Una delle lezioni di queste elezioni è l’emergere dei microinfluencers, che arrivano a presidiare decine di migliaia di piccoli circoli di relazione dove sono stimati e seguiti.

Quasi un post scriptum, anzi tre

1. Appena Luigi Di Maio ha proposto una qualche ipotesi di accordo con il PD, Twitter è stato inondato da migliaia di tweet con hashtag #senzadime per rifiutare senza esitazioni ogni compromesso. La ricerca di Niccolò Barca e Giacomo Antonelli pubblicata su The Vision (http://thevision.com/attualita/senzadime-alleanza/) ha dimostrato che l’operazione è stata orchestrata da solo 8 account Twitter, gli stessi che a dicembre celebravano il finto rientro dei terremotati dell’Aquila nelle loro case. Di chi è stata la regia di questa operazione?

2. Il 7 aprile Dario Franceschini è stato vittima di un’ondata di critiche su Twitter per aver sommessamente ipotizzato la possibilità di valutare le aperture Di Maio. Questa volta la stessa Repubblica ha sospettato l’attivazione di account Twitter fasulli. Chi è il regista di questa operazione?

3. Prima ancora che terminassero gli scrutini che attestavano la clamorosa avanzata al sud dei Cinque Stelle è iniziata a circolare la notizia di un assalto ai Caf di persone pronte a richiedere e a ottenere il reddito di cittadinanza. I telegiornali di Stato hanno dedicato molti minuti alla notizia mentre il coordinatore nazionale dei Caf Massimo Bagnoli ha parlato di qualche decina di richiesta di informazioni, “potremmo arrivare al massimo a 200 complessive” in Puglia, Sicilia e Calabria, a fronte di 2 milioni di Dsu, le richieste per ottenere le Idee nei primi tre mesi del 2018.

Il debunker questa volta è stata Striscia la notizia, che ha svelato una telefonata tra Vittorio Sgarbi e il suo addetto stampa dove concordavano di sparare la notizia durante un’ospitata. Di chi è stata la regia di questa operazione? Anche il Gabibbo è parte della cospirazione?

Nasce invece il sospetto che per vari casi di fakenews e manipolazione del dibattito in rete i politici finora al governo ne siano più promotori che vittime.

 

Riferimenti

Tra i tanti testi e interventi citati sono stati estremo aiuto i contenuti di DatamediaHub e l’ottimo lavoro di monitoraggio della campagna elettorale sui social che ha fatto Marco Borraccino con socialrecap.it. Spunti estremamente interessanti sulle dinamiche di diffusione dei messaggi di Lega e Cinque Stelle sono arrivati anche dai risultati della ricerca Ipsos-TWIG. La linkografia che segue è parziale e in costante aggiornamento:

https://motherboard.vice.com/it/article/pamwkz/dove-la-lista-delle-128-fake-news-smentite-dalla-polizia-postale

https://motherboard.vice.com/it/article/j5aqgx/per-lonu-il-bottone-rosso-delle-fake-news-di-minniti-viola-i-diritti-umani

http://www.butac.it/the-black-list/

https://www.foreign.senate.gov/imo/media/doc/FinalRR.pdf

https://www.nytimes.com/interactive/2016/10/21/us/elections/television-ads.html

https://techcrunch.com/2017/11/01/russian-facebook-ad-spend/

https://www.wired.com/story/how-trump-conquered-facebookwithout-russian-ads/

https://www.theguardian.com/us-news/2016/nov/16/facebook-bias-bubble-us-election-conservative-liberal-news-feed

https://www.washingtontimes.com/news/2017/oct/23/internet-giants-show-power-to-shape-politics/

https://gizmodo.com/former-facebook-workers-we-routinely-suppressed-conser-1775461006

http://www.butac.it/democratica-salvini-calabresi/

http://www.butac.it/il-non-candidato-di-forza-nuova/

https://medium.com/@CKava/why-almost-everything-reported-about-the-cambridge-analytica-facebook-hacking-controversy-is-db7f8af2d042

http://www.affaritaliani.it/politica/la-piu-grande-bufala-della-sinistra-onda-nera-scomparsa-da-media-tv-532795.html

https://www.nytimes.com/2016/05/01/magazine/president-obama-weighs-his-economic-legacy.html

http://www.nybooks.com/articles/2018/04/05/silicon-valley-beware-big-five/

Il low cost, causa dimenticata del populismo

Social minds

Il low cost, causa dimenticata del populismo

Cosa c’entra un mobile di compensato con Berlusconi, Salvini, Renzi e Grillo? Molto più di quanto si creda e di seguito cerco di spiegarlo. 

Il low cost e l’eclisse del futuro

In un mondo dove prima o poi quasi tutto sarà in offerta speciale, in saldo, in sconto, in promozione o al prezzo di lancio o di svendita, il low-cost è molto di più che il suo prezzo. Semmai esso rappresenta un’estetica e un’ideologia, al contempo aspirazione e rifugio dell’esistenza, che oggi appaiono prossime ad esaurire la loro carica persuasiva: il basso costo non riesce più a nascondere i suoi costi nascosti, materiali e sociali; l’abbassamento degli stili di vita non è più mascherato da consumi accessibili; le scelte che dieci anni fa sembravano scaltre ora appaiono per quel che sono: compromessi, con i quali si è deciso di rinunciare a qualche certezza nel futuro in cambio di un presente meno frustrante.

Cosa (non) è il low cost

Passiamo a definire meglio il tema.

Il low cost non è l’acquisto al mercato rionale dove si fruga tra roba taroccata, rubata o di seconda mano, ben consapevoli dei limiti della propria condizione economica.

Il low cost non è la svendita o la promozione speciale, quando per un periodo limitato si può comprare un prodotto della medesima qualità usuale.

Il low-cost non è nemmeno la bassa qualità, quando il rivenditore non fa nulla per mascherarla.

Il low-cost non è sobrietà. Al contrario è la rivendicazione da parte del consumatore impoverito a pretendere svaghi e beni simili a quelli che possono permettersi i benestanti globali.

Il low-cost non è solo uno slogan e una tecnica di marketing, ma definisce anche un habitus sociale che va ben al d là delle scelte strettamente economiche di chi ne fruisce

Il low-cost si è presentato come uno stile di vita capace di incarnare un nuovo compromesso sociale, tipico delle società post-industriali europee, in cui le generazioni di mezzo si adeguano alla contrazione dei loro redditi rispetto alla generazione precedente, accettano l’impossibilità di accumulare risparmio e rinunciano, inconsciamente o meno, alle tutele sul futuro che garantiva lo Stato in cambio di un potere di acquisto immediato e alquanto diversificato di beni e servizi mimetici dei consumi affluenti, ma il cui prezzo media tra le loro aspirazioni e la loro condizione economica.

La rap-presentazione del low cost

Il prodotto low cost non si propone a prima vista come povero o economico, almeno per quanto riguarda la comunicazione. Il low cost non si racconta come un compromesso o una rinuncia, ma come una scelta consapevole di cui non vergognarsi perché dei beni e i prodotti low cost si evidenzia la loro ampia diffusione, cercando così di renderli non solo accettabili, ma fattore per essere socialmente accettati. Il low cost viene comunicato con stili e modalità a volte più raffinati di quelli dei prodotti equivalenti di qualità superiore, lo stile è tranquillizzante, oppure entusiasta ma anansiogeno, in alcuni casi addirittura scanzonato e (auto)ironico.

Il catalogo IKEA è un classico caso di studio. La qualità delle composizioni, degli ambienti, della luce nelle immagini del catalogo potrebbe reggere il confronto con le riviste di architettura più prestigiose. Ma questa scenografia serve a presentare prodotti in truciolare, pannellature e plastica prodotti nei paesi più poveri al mondo.

Non si tratta solo della classica confezione più prestigiosa o più costosa del contenuto. Il catalogo interloquisce con le attese e le aspirazioni del compratore. Certo, ogni acquirente è ben consapevole che se si trova in un IKEA è perché, di solito, vive in un appartamento piccolo e vuole risparmiare, ma quel che l’acquirente inconsciamente cerca e vorrebbe ritrovare quando entra in un megastore IKEA sono gli ambienti e le atmosfere del catalogo. Il catalogo è l’utopia possibile, di un appartamento piccolo ma confortevole, economico ma accogliente, in cui esprimere i propri variegati interessi calibrandoli sul proprio reddito. Coerente con le conclusioni di queste riflessioni anche lo slogan del catalogo italiano IKEA 2018: “Facciamo spazio alla tua voglia di cambiare”.

Le didascalie del catalogo alludono spesso al confine, chiaro ma implicito, tra vincoli materiali (spazio, disponibilità economiche) e aspirazioni.

Ascesa e declino del low cost 

Son passati poco più che dieci anni da quando il testo di Massimo Gaggi ed Eduardo Narduzzi “La fine del ceto medio e la nascita della società low cost” si spingeva a ipotizzare un modello low cost per tanta parte delle attività economiche e sociali. Si andava ben oltre l’acquisto di un biglietto aereo a pochi euro o un mobile in truciolato per qualche decina. Si ipotizzava un mondo dove la produzione e l’erogazione di servizi tradizionalmente in capo allo Stato, la giustizia, la sanità, la pubblica amministrazione, le pensioni, venivano ripensati in logica low cost e dentro l’idea di uno Stato minimo. Molto più di una moda o di uno stile di vita, il low cost veniva proposto come uno strumento, culturale, prima ancora che economico, per riprogettare la società sulle basi non di una frugalità voluta, ma di modello sociale imposto dall’addio al welfare state e dal declino dei redditi personali.

Una generazione intera ha così visto nei consumi compulsivi e low cost una soluzione alle grandi aspirazioni cui era stata educata. La “generazione low cost” e la per tanti versi sovrapponibile “generazione Erasmus” sono due facce della stessa medaglia: una generazione occidentale transnazionale, che ha fruito solo indirettamente dei benefici e le tutele sociali dei loro genitori, accomunata da principi politici in sostanza moderati e da una bassa conflittualità sociale anche grazie all’accesso a beni che per i loro padri erano un lusso, come ad esempio i frequenti viaggi in aereo. Una generazione precaria e senza alcuna sicurezza per i suoi anni tardi che non sente acutamente il disagio della sua condizione grazie all’accesso a beni e servizi a basso costo.

Al di là di motivazioni strettamente culturali e politiche, bisognerebbe anche indagare quanto la facilità di accesso a beni e servizi ha consentito di disinnescare la conflittualità potenziale di una intera generazione. Internet e il low cost hanno rappresentato due grandi valvole di sfogo delle inquietudini e dei desideri giovanili, per cui mai come oggi, nonostante scontri sporadici, la gioventù europea è tanto poco politicizzata e tanto conformista. Se di per sé internet ha ancora una carica liberatoria e libertaria (disintermediazione del sapere, della politica, dei rapporti sociali: messa in discussione dei “poteri”), i social media, che tanta parte parte rappresentano dell’internet, sono al contrario un meccanismo conformista perché tendono a spingere le persone a ricercare il consenso su quanto affermato, rafforzando gli stereotipi delle grandi filter bubbles in cui le varie tribù digitali vivono. Il low cost ha trasformato il desiderio in un processo pulsionale e ricorsivo di accumulazione quantitativa, rimandando la pretesa per la qualità (degli oggetti, come anche della stessa esistenza) a un orizzonte lontano, “quando ce lo potremo permettere”.

A questa platea di consumatori si aggiunge una parte consistente dei loro genitori, privati spesso delle tutele e dei servizi sociali che fruivano all’inizio del loro percorso lavorativo, che oggi si trovano a far fronte a questo declino della loro condizione ricorrendo a servizi e beni low cost. Da un punto di vista globale queste due generazioni si trovano soprattutto in Europa, affastellati attorno al valore minimo della oramai classica curva di Branko Milanovic.

In fondo alla proboscide dell’elefante di Milanovic si sono dunque ritrovati milioni di giovani europei che prima hanno pensato che le scelte low-cost fossero solo legate alla fase iniziale del loro percorso lavorativo per poi capire di essere ingabbiati in una dimensione permanente.

In un mondo dove poi l’esibizionismo digitale di desideri, esauditi o meno, crea forti pressioni esistenziali, il low cost si propone come una strategia di gestione all’impoverimento delle prospettive di almeno due generazioni.

Ma questo modello, che poteva essere accettato come un rifugio temporaneo, è diventato per molti  la trappola in cui son richiuse le loro aspirazioni.

Dalla sicurezza ai consumi: il low cost come ricerca di senso

La modernità può essere raccontata anche come l’eclisse dall’orizzonte umano di una idea di senso trascendente e inattingibile nella storia dei singoli e delle collettività. L’idea di un destino che presiedeva le vite di tutti, rendeva le tragedie più accettabili e comprensibili (“dio dà e dio toglie”). L’ideologia della razionalità che inizia a farsi strada a partire dall’età moderna sostituisce un destino accettato come inevitabile con la volontà di prevedere il futuro, la coscienza di poter controllare il percorso delle vite umane e delle stesse società.

Con Bismark, in pieno positivismo, viene teorizzata e messa in pratica l’idea che la coesione sociale e lo spirito nazionale vanno rafforzati attraverso l’impegno dello Stato a garantire a tutti un possibile futuro (scuola pubblica aperta a tutti), la cura dalla malattia (ospedali pubblici) e soprattutto la vecchiaia. Lo Stato garante del futuro attraverso le pensioni è il massimo esempio di predittività sociale: le assicurazioni calcolano matematicamente quanti lavoratori servono per mantenere un pensionato e quanti anni in media potrà quest’ultimo godersi la pensione (al netto di abusi).

Il passaggio dal modello a ripartizione al modello contributivo è già un primo colpo a una idea di coesione sociale attraverso la garanzia di tutela comuni e inclusive. Il principio contributivo per cui chi più versa più avrà cambia totalmente il quadro. Viene meno l’idea che era un diritto e diventa una componente di un piano di investimento in base alla capacità individuale gestito dallo Stato.

Il compromesso socialdemocratico europeo di una vita confortevole basata su lavoro, pensioni, sanità e istruzione era il patto fondante tra cittadino e Stato, in cui quest’ultimo si faceva garante del futuro dei propri cittadini che in cambio ne riconoscevano la piena legittimità.

Ogni senso dell’esistenza parte dall’idea di futuro che ci facciamo o che ci viene proposta. Se lo Stato viene meno con gli impegni che aveva iniziato a prendere oltre un secolo fa che senso ha più la mia cittadinanza? Ecco dunque che nella tarda società consumistica avviene il decoupling, il disaccoppiamento tra consumatore e cittadino: lo Stato con le sue elites si allontana dalle masse, mentre si minimizza e si ritira da tanti ambiti, lasciando il cittadino orfano di legami politici e concentrato solo nel suo ruolo di consumatore a basso costo, con l’obiettivo di massimizzare le sue gratificazioni materiali.

Il destino personale in una società atomizzata si riduce a nient’altro a una collazione di gratificazioni consumistiche a basso costo e a se stanti, senza più una visione che dia l’idea di un percorso o di un senso all’esistenza. Al massimo, si richiede un consenso temporaneo alle proprie esperienze pietendo un Like su Facebook o un cuoricino su Instagram.

Il processo di produzione-consumo del low cost

L’abbassamento dei costi di produzione non è solamente il frutto delle efficienze dovute alla digitalizzazione dei processo produttivi e distributivi. Il prosumer, il produttore-consumatore, è un soggetto centrale perché senza la sua diretta collaborazione non si potrebbero ottenere ulteriori riduzioni di costi, ad egli, talvolta, parzialmente restituiti.

Il Low cost addebita al cliente una serie di costi non monetari o non immediatamente monetizzabili: il montaggio con le proprie mani o a proprie spese di beni fisici, il self service in tanti ristoranti a basso costo, il processo di registrazione e accettazione del passeggero, la necessità di acquisire competenze un tempo appannaggio solo dei bancari, la breve durata dei capi di abbigliamento che implica costi di sostituzione significativi.

Il consumatore è costretto alla collaborazione se non vuol pagare costi aggiuntivi che spesso fanno svanire i vantaggi del prezzo basso. Richiedere il trasporto e il montaggio a casa di un mobile o dimenticarsi di completare da sé il check-in costa molto salato.

Non si tratta solo di costi a valle. Sappiamo bene che il processo d’acquisto di un volo low cost può tradursi in una snervante gimcana tra caselle da cliccare e offerte da declinare per riuscire davvero a raggiungere l’agognato prezzo speciale. Così come il prezzo di altri beni low cost appare davvero super conveniente solo con ulteriori sconti, mentre prodotti simili sono spesso più convenienti in altri esercenti.

Iniziamo ad essere sempre più consapevoli che la produzione del low cost ha un pesante impatto ecologico e sociale. e a volte non è nemmeno tanto conveniente sotto l’aspetto strettamente economico. La produzione globale delocalizzata punta non solo a inseguire il costo del lavoro più basso, ma anche il quadro normativo meno stringente per quanto riguarda il rispetto della sicurezza ambientale e sul lavoro. Le nostre case low cost sono piene di capi di abbigliamento made in Bangladesh o di mobili made in Serbia o  in Romania, ma queste nostre stesse case sono abitate da assistenti di volo di compagnie low cost, commesse di negozi low cost, sviluppatori software sottopagati per progetti low cost.

Il low cost, essendo un processo assolutamente deterritorializante, indifferente al territorio e alle sue regole, tende a imporre la stessa logica lungo tutta la sua filiera, non conta se parti di essa si trovino in Marocco o in Germania. L’assistente di volo della compagnia low cost si può affidare solo al low cost per poter mangiare, poter arredare il proprio monolocale, per potersi vestire, per poter telefonare e per gran parte delle sue attività.

Il low cost, che è apparso nelle nostre vite come idea geniale per avere di più dai nostri salari sfruttando le opportunità delle disuguaglianze globali, ha piegato le nostre vite e i nostri diritti alle sue logiche.

Low cost e populismo industriale

Il low cost, come ideologia di controllo sociale proposta dalle elites, finisce per sfociare nel populismo, come rottura della fiducia tra governanti e governati a seguito della rinuncia dello Stato a offrire un orizzonte di senso e di futuro ai suoi cittadini.

Lo Stato viene identificato del tutto con le sue élite perché non riesce più a rappresentarsi come un organismo coeso. Il superamento degli Stati-nazione è andato di pari passo con il ritiro dello Stato dagli impegni del compromesso socialdemocratico del secondo Dopoguerra. Privati di molte garanzie che si aspettavano dallo Stato, disorientati da uno Stato multiculturale che spesso non sa gestire la trasformazione dovuta ai flussi migratori, le classi meno agiate hanno trovato un rifugio consolatorio nel low cost e un rifugio politico nel populismo, pur pienamente consapevoli che si tratta di soluzioni di ripiego in entrambi i piani.

Il low cost rappresenta una delle massime esperienze del Populismo industriale, per usare il termine di Bernard Stiegler. La fruizione compulsiva di beni di poco valore e dal basso costo alla fine banalizza l’esigenza degli stessi consumatori di individualizzarsi, di caratterizzarsi attraverso il consumo. Se sei consumatore low cost, sarai anche un cittadino low value?

L’ideologia di controllo sociale attraverso il low cost dell’ultimo quindicennio implicava una depoliticizzazazione delle masse e il loro rifugio in orizzonti di senso del tutto individuali, basati su gratificazioni materiali continue ma di breve durata e di ridotte ambizioni. Questo downsizing materiale, questa resilienza esistenziale, mostrano ogni giorno dei punti di rottura di fronte alle pressioni di una società orfana di visioni capaci di governarla nel complesso e dare un senso alle singole esistenze. Così, all’interno del classico pendolo tra dimensione pubblica e dimensione privata di Albert O. Hirshman, gli individui tornano alla politica, ma a una politica di stampo populista, in cui si ritrovano accomunati da accuse più o meno generiche alle èlites che, esplicitamente o meno, hanno gestito il processo di impoverimento di milioni di persone nelle nazioni più industrializzate.Il disvelamento dei limiti del compromesso low cost porta questa forma di individualismo frustrato a sfociare in politica, in una politica che si può essere definita, senza accezioni di giudizio, populista.

In tutti i programmi politici populisti vi è un forte accento su un nuovo protagonismo dello Stato, che deve essere chiamato non solo a proteggere i cittadini dagli effetti della globalizzazione (si manifesti essa come immigrazione o come impoverimento della classe media), ma dovrebbe ricostruire un orizzonte di senso attraverso un nuovo senso di appartenenza e di coesione collettiva.

Ecco perché il low cost, che pure resterà come offerta commerciale, ha fallito come ideologia a sostegno dell’idea di uno Stato minimo: essa ha mancato totalmente l’obiettivo di creare una generazione soddisfatta della propria condizione grazie all’accesso diffuso a beni di scarsa qualità e oggi questa generazione (assieme agli strati sociali più poveri che più hanno sofferto …) entra in politica attraverso la porta del populismo, senza essersi però mai addestrata alla capacità politica di risoluzione dei problemi.

Il low cost rientra nei ranghi come mera strategia aziendale e lascia il campo a un’epoca in cui il contrasto tra le attese degli individui e le possibilità della politica diventerà ancora più stridente e rischioso per la tenuta della stessa società.

(l’immagine di copertina è tratta dal Catalogo Ikea Italia 2017)

Bibliografia: 

Branko Milanovic, “Worlds apart: Measuring international and global inequality” Princeton University Press, 2005

Massimo Gaggi, Eduardo Narduzzi, La fine del ceto medio e la nascita della società low cost, Einaudi, 2006

Bernard Stiegler, Reincantare il mondo. Il valore spirito contro il populismo industriale, Orthotes, Napoli 2012

Bernard Stiegler, State of Shock. Stupidity and knowledge in XXI century, Polity Press, 2015

Albert O. Hirshman, Felicità privata e felicità pubblica, Feltrinelli, 1983

 

Linkografia:

Ideología del loro cost, El Paìs, 7 decembre 2006 https://elpais.com/diario/2006/12/07/sociedad/1165446009_850215.html

La generatiòn low cost, El Mundo, 11/01/2015 http://www.elmundo.es/economia/2015/01/11/54afd7cc22601d31158b457e.html “No hay muebles de carpintería, sino estanterías Billy de Ikea, símbolo de la existencia low cost de la mayoría de estos jóvenes.”

No more low cost: East Europe goes up in the world, July 25th 2017, Reuters, https://www.reuters.com/article/us-easteurope-economy-analysis/no-more-low-cost-east-europe-goes-up-in-the-world-idUSKBN1AA1RE “We are not just cheaper-labor economy but also a low-cost economy,”

When cheap is not so cheap, The Economist, Sept 2nd 2014,  https://www.economist.com/news/business-and-finance/21614076-rethinking-low-cost-and-high-cost-manufacturing-locations-when-cheap-not-so-cheap

La regola e la piattaforma

Algoritmi

La regola e la piattaforma

C’è un concetto che corrompe e confonde tutti gli altri. Non parlo del Male il cui limitato impero è l’etica;

parlo dell’Infinito.

(Jorge Luis Borges, Breve storia dell’Infinito)

Subito dopo la stupidità umana e l’universo, al terzo posto per approssimazione all’infinito vi è di certo il web. Oggi nemmeno stupisce più l’intuizione di Einstein, perché tra haters, trolls, spammers e altre deiezioni digitali la correlazione tra stupidità umana ed espansione del web appare evidente a molti.

Come ogni giorno noi diventiamo più piccoli in relazione all’universo, così il web si dilata, riducendo progressivamente la particella di attenzione relativa che possiamo dedicarvi. Ogni nuovo “amico” che aggiungiamo su Facebook toglierà una parte di attenzione a tutti gli altri, e inevitabilmente perderemo un numero sempre crescente di aggiornamenti. Più vite aggiungiamo alla nostra rete, meno sapremo di esse.

Ci soccorrono le grandi piattaforme, che filtrano il web per noi, così che seguiremo i nostri amici che Facebook riterrà interessarci di più, mentre conosceremo del mondo digitale quello che Google deciderà, quello che riterrà più rilevante per noi, o meglio per la rappresentazione di noi stessi che l’algoritmo si è creato tracciando i pezzi della nostra vita digitale che è riuscito a intercettare.

Dunque non dovremmo mai dimenticare che noi non esperiamo mai il web e il mondo digitalizzato di per sé, ma sempre all’interno di un’ecosistema relazionale, di un sistema di visualizzazione delle pagine, di un algoritmo di classificazione, ognuno di essi frutto di vari strati di codice. Di più: nella loro rincorsa infinita alla totalità, i grandi attori del digitale si sono già trasformati in piattaforme digitali, che integrano orizzontalmente e verticalmente i servizi e le esperienze che intendono offrire ai loro fruitori.

Quando ho letto l’eccellente comunicato stampa in cui la Commissione europea comunicava la multa da 2,42 miliardi di euro a Google  ho inteso che, pur all’interno di analisi e studi pluriennali formalmente ineccepibili, era lo stesso assunto di fondo della sanzione a essere parziale e in qualche modo inefficace. Non intendo difendere le argomentazioni di Google o le posizioni dietrologiche e innocentiste del Washington Post di Jeff Bezos, quanto evidenziare che le piattaforme e gli ecosistemi digitali nella loro corsa verso l’assorbimento delle informazioni e della vita digitalizzata corrodono leggi, norme e regole che erano state pensate per ambiti limitati. Lo stesso comunicato evidenzia che vi sono procedimenti in corso su Google anche per quanto riguarda AdSense e lo stesso Android: la questione non è chiusa né rimandata. Ma la questione vera non è nemmeno iniziata.

La commissione da parte sua sembra essersi mossa in maniera tradizionale: una o più imprese denunciano di essere danneggiate dall’abuso di posizione dominante della leader di mercato, parte l’inchiesta, si trovano le prove, scatta la sanzione. In questo caso gli altri siti di comparazione dei prezzi sono stati penalizzati nel modo in cui Google ha spinto in su i risultati di ricerca di Google Shopping.

Bisogna innanzitutto capire che Google, Facebook, Apple e Amazon si muovono con una logica di piattaforma digitale e che cosa implica questa logica.

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Che cos’è una piattaforma?

Piattaforma: uno dei tormentoni che va per la maggiore tra i consulenti aziendali. Se non proponi al cliente una strategia digitale in cui la sua impresa viene rappresentata o pianificata come una piattaforma non porti a casa il pane. E allora tutte le imprese vogliono oggi essere (definite) una piattaforma, magari anche il titolare della ferramenta sotto casa si sente spiegare dal figlio che studia economia che lui non deve più vedersi come un rivenditore ma come una piattaforma che mette in comunicazione nel suo negozio imprese B2B, B2C e singoli clienti, sia sul lato vendita che sul lato acquisti, grazie alla fiducia conquistata in quarant’anni di attività. Dopotutto il modello che viene proposto è talmente generico che si può applicare alla qualunque. A dimostrarlo questa frase:  “With platforms, the fundamental rules of strategy change. Strategy shifts from controlling to orchestrating resources; from optimizing internal processes to facilitating external interactions; and from increasing customer value to maximizing the value of the ecosystem” Questa supercazzola l’ha scritta niente meno che Marshall W. Van Alstyne, co-autore del libro Platform Revolution, in un suo intervento su l’Harvard Business Review.

E così anche gli apostoli della digital disruption confondono un marketplace digitale con una piattaforma digitale, una volta parlano di piattaforma di condivisione dei valori con gli utenti, un’altra volta di impresa piattaforma (nient’altro che il vecchio concetto di impresa-rete degli anni Ottanta), un’altra volta ancora di piattaforma-prodotto.

Al contrario la definizione che propongo è molto semplice: le piattaforme digitali sono solo quelle imprese con una larga base di utenti che hanno sviluppato un framework e un sistema operativo di base proprietario (come Android, Mac OS, Facebook Graph, Windows, al di là dei differenti livelli di codice effettivamente sviluppati), che nasce come interoperabile con altri servizi della stessa impresa o con componenti (app, plugin, ecc.) realizzate all’esterno ma che assumono la stessa logica di sviluppo e di utilizzabilità.

Le caratteristiche fondamentali di queste piattaforme sono la proprietà e la segretezza del codice e degli algoritmi che utilizzano. Se il codice modella il mondo, in qualche modo il mondo modellato da diversi sistemi operativi apparirà diverso sotto vari rispetti.

La regola e il controllo sono nel codice originario, Non sono in qualche persuasione colletiva o in qualche generica condivisione di valori comuni. Queste sono retoriche di chi non vuole o non sa vedere quanto stringente è il comando del codice, ben più forte di ogni persuasione.

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La regola e la piattaforma

Ecco perché la multa comminata dalla Commissaria Margrethe Vestager fa clamore ma non segna un cambiamento di indirizzo nel rapporto tra regolatori e piattaforme digitali. Bisogna essere consapevoli che è la stessa logica di Google e delle altre piattaforme che spinge verso il monopolio della relazione con l’utente.  D’altra parte la decisione della Commissaria Verstagen tratta Google come se fosse una utility, attribuendole un valore di servizio universale con cui spesso la società di Mountain View si rappresenta. Certo, con il 90% e oltre delle ricerche sul web in molti paesi europei non puoi considerarti come un attore economico qualunque. Ma si può chiedere a un monopolista di non comportarsi da tale? Immaginiamo se ci fosse in un paese pressoché una sola catena di supermercati (succede in Unione europea, per esempio in Croazia) condannato dal giudice a dar spazio sugli scaffali anche ai concorrenti della sua private label di patatine fritte. Dapprima penseremo che quella catena di supermercati in un (suppostamente) libero mercato ha il diritto di far entrare nei suoi scaffali i prodotti che vuole. E forse, un secondo dopo, ci faremo delle domande sullo stato di quel mercato e sulla libertà che possono avere i locali consumatori.

Questo ci fa intuire anche quanto sia distorto oggi il “mercato” del web.

Le piattaforme sono per loro natura proteiformi: a volte si propongono come meri “tubi” da cui passano informazioni e comunicazione, a volte come editori, a volte come community globali, a volte come semplici spazi dove servizi e beni altrui vengono ospitati. In ognuna delle loro metamorfosi mantengono opachi i loro algoritmi, continuano a estrarre dati dagli utenti, anche quando quel servizio è già ampiamente ripagato dagli stessi utenti o da terze parti e, infine, manifestano sempre la loro tendenza alla totalità: servizi e app per saturare in maniera esclusiva il web e l’esperienza digitale.

Dunque arriviamo alla vera posta in gioco, che inizia a essere compresa da sempre più osservatori: sarà possibile limitare normativamente le conseguenze che comporta, in termini di libertà economica e sociale degli individui, la tensione verso la totalità digitale, il totalitarismo digitale insito nel concetto stesso di piattaforma digitale?

Per quanto sempre più tentacolari, le piattaforme non potranno mai esaurire l’universo del web. È vero semmai il contrario: le piattaforme rischiano di farci vedere un web sempre più banale, poco ispirativo e normalizzato in base alle loro esigenze di monetizzazione.

I principi normativi e regolatori, di cui si potrebbe fare portatrice l’Europa, dovrebbero non solo partire dalla tutela dei consumatori e della concorrenza, ma soprattutto dalla tutela del web come spazio di diffusione del sapere, di libertà di espressione e di ricerca.

In questo senso non basta di certo una megamulta e la minaccia di altre. Uno degli elementi su cui fare leva potrebbe essere il divieto di acquisire i dati dei fruitori di determinati servizi per evitare posizioni dominanti rispetto ad altri operatori non-piattaforma. Gli esempi del passato (pensiamo alla riorganizzazione del servizio telefonico in USA da cui sono nate le cosiddette  baby Bells) portano invece a ipotizzare la frammentazione di certi servizi. Sarà necessario fare delle scelte normative capaci di spezzare alcune integrazioni delle piattaforme attuali, scelte in cui in un primo tempo gli utenti potrebbero non ritrovarsi, abituati alle pigrizie mentali che si sviluppano se si vive il web dentro i recinti delle piattaforme, ma che potranno garantire ulteriore spazio di ricerca e innovazione al mondo digitale.

Non toglieteci anche le Fake News!

Social minds

Non toglieteci anche le Fake News!

Come già per i superalcolici, il tabacco, le patatine fritte, le bevande gassate, i grassi idrogenati, lo zucchero e, buon ultimo, l’olio di palma, il proibizionismo delle buone intenzioni è pronto ad abbattersi su un nuovo nemico della salute fisica e mentale degli individui incapaci di badare al loro bene: le fake news.

Ho sempre sospettato di chi mi dava consigli per il mio bene, per questo nella vita ho fatto tanti errori. Ma almeno mi sono sentito libero di farli.

Che il grande allarme sulle fake news diventi il punto di partenza per imporre sul web una certa idea di verità, decisa per lo più da poche piattaforme attraverso algoritmi ovviamente proprietari quanto opachi, oggi è meno un’ipotesi distopica che una tendenza fondata.  Negare visibilità a versioni alternative o paradossali dei fatti potrebbe essere il primo passo verso una sorta di totalitarismo digitale.

Ma che cosa significhi fake news, termine oramai usato anche dalla casalinga per apostrofare un’offerta farlocca del supermercato sotto casa, per certo più non si sa: chi etichetta così anche gli slogan degli avversari politici, chi ci mette dentro anche le teorie cospirative, chi lo confonde con la propaganda, chi definisce fake news un fatto che vuole negare, chi lo usa perché è il termine del momento e produce tanta attenzione e tanti click.

L’utilizzo indiscriminato del termine fake news è diventato un grande alibi per dimenticare la cause reali della crisi del giornalismo e tralasciare la memoria delle manipolazioni, della propaganda, delle interpolazioni di testi e fotografie che hanno inciso in tante ricostruzioni storiche, come anche degli articoli un tanto al chilo, delle bufale per far abboccare i giornalisti tonni, degli educational tours con molte occasioni di divertimento che a volte sono entrate nella mitologia della professione giornalistica. Bei tempi andati insomma, quando si affogavano i cormorani nel petrolio al fin di smuovere i delicati animi degli occidentali (fino ad allora poco toccati da abusi, crudeltà e decine di migliaia di esecuzioni arbitrarie) o quando il segretario di Stato USA Colin Powell mostrava in Consiglio di Sicurezza dell’ONU le mitiche boccettine di polvere bianca, e ancora non si sa se fosse talco o forfora di Bush Jr. Ma tant’è, all’epoca la parola fakenews non era stata inventata e poi la diffusione delle contronotizie era fatta da grandi società di comunicazione come Hill&Knowlton con l’ausilio di tanti giornalisti finanziariamente “embedded”, mica dal primo pischello smanettone ubicato in chissà quale villaggio dei Balcani. Fino a dieci anni fa l’informazione era ancora un circuito abbastanza limitato e controllabile, un club quasi esclusivo e ancora relativamente benestante dove ci si conosceva, ci si scambiava favori e, almeno a certi livelli, tutti conoscevano gli altarini degli altri. Ecco, mi chiedo quanto gli allarmi per le fake news e il livore per l’informazione via social media che diffondono tanti paludati giornalisti non siano le reazioni di chi vede svanire il mondo confortevole in cui viveva.

Con questa persuasione ho seguito con distacco il tema fino a quando non ho letto un meditabondo  appello di Gramellini alla regolazione dei social. Il vate nazionale del buon senso il 17 maggio scorso ha dichiarato: “che le porte dei «social», spalancate sul male del mondo, hanno urgente bisogno di una serratura”. Ora, vada per i grandi esperti di politica e media, vada per i professori universitari di comunicazione e sociologia, ma la presa di posizione di Gramellini preoccupa perché,  a differenza di chi studia davvero l’argomento, il suo pensiero è letto dai politici perché ritenuto rappresentativo di qualche milione di italiani che si considerano buoni, civili e riflessivi e così tanti politici, anche le versioni reali e decuplicate di Cetto la Qualunque, tengono in gran conto il giudizio dei tremebondi lettori di Gramellini.

Ma il fatto è che per scrivere un editoriale alla Gramellini ci vogliono pochi minuti, mentre per verificare il caso Blue Whale ci vogliono ore o giorni di verifiche. Non mancano sul web le penne brillanti, invece scarseggiano i redattori capaci di ricercare le fonti e verificare le notizie con rapidità e autorevolezza.

Definizione delle fake news

Ma ora cerchiamo di definire l’ambito e il concetto delle fake news, che possiamo definire come contenuti non fattuali, dal tono spesso sensazionalistico e con una titolazione roboante, costruiti con logica di click baiting, diffusi via web prevalentemente attraverso i media sociali.

Le fake news trovano spazio all’interno della grande divaricazione  che il web sociale ha creato tra informazione e contenuti, con questi ultimi diventati strumenti principi del web marketing. I contenuti per il web non sono necessariamente informativi, ma sono costruiti con logiche di web marketing per incrementare il traffico o le page views. Anche l’informazione di qualità può essere riorganizzata per veicolare più traffico attraverso titoli enfatici, per ottenere più page views reimpaginando i contenuti in slideshow, per essere più facilmente condivisibile via social media utilizzando, per esempio, immagini efficaci ma non sempre in linea con l’oggetto dell’informazione.

In generale un contenuto per il web è innanzitutto ottimizzato per essere trovato dai crawler e condiviso facilmente via social media. Per certi contenuti sarebbe più corretto parlare di fake contents che di fake news, ovvero di contenuti che nemmeno si pongono il problema della veridicità (Il culo photoshoppato della Kardashan, non è una fake news, ma un fake content che produce traffico e visibilità monetizzabili).

L’ecosistema delle fake news strictu sensu è caratterizzato da variabili di mercato e da variabili sociali.

Le Variabili di mercato riguardano:

  1. Basse barriere di accesso al mercato dei contenuti digitali, sia dal punto economico (poche centinaia di euro per realizzare un sito web di buona qualità grafica) che organizzativo (grazie ai Content Management Systems gratuiti) e distributivo (costo marginale zero della distribuzione digitale)
  2. Declino della circolazione dei grandi media, a causa dei costi di produzione e di distribuzione e al declino della raccolta pubblicitaria
  3. Modelli attuali di pay-per-view e pay-per-click che premiano i volumi di traffico a discapito della qualità dell’informazione (un articolo di informazione o di riflessione di qualità verrà quasi sempre penalizzato rispetto a un contenuto ottimizzato per essere cliccato e condiviso)

Tra le variabili sociali possiamo elencare

  1. Incremento della fruizione di contenuti enfatici, polemici o leggeri attraverso i media sociali e in particolare Facebook.
  2. Declino della fiducia nei grandi media
  3. I fenomeni di echo chamber o filter bubble, che spingono verso un processo di ripetizione e di rafforzamento di determinati contenuti all’interno di cluster relazionali
  4. Diffusione di teorie cospirative e incremento dell’attitudine a credere a verità considerate “alternative”

 La censura attraverso gli algoritmi

Non è la prima volta che l’intellighenzija italiana si lancia ardimentosamente a provare a regolare le “fake news”. Prima si è provato proponendo un comitato di esperti (un evergreen italiano), che non si sa se si sarebbe riunito a cadenza mensile o trimestrale per verificare contenuti diffusi settimane o mesi prima e dimenticati in poche ore. Poi il 21 aprile a Montecitorio si son tenuti ben quattro tavoli di lavoro, promossi dalla Presidenta della Camera, per “arginare la disinformazione”. Ma verso chi si rivolgono gli strali delle menti illuminate convocate dalla Boldrini? Da una parte verso i produttori di fake news, siano essi ubicati a San Cataldo, provincia di Caltanissetta, a gestire il famigerato senzacensura.eu, o in Macedonia o Romania a disinformare a vantaggio di Trump o rifugiati in Bulgaria a fare gli imprenditori della bufala. Dall’altra parte ci sono le grandi piattaforme come Google e Facebook, alle quali anche il giurista statunitense Vivek Wadhwa ha indirizzato i suoi strali in un articolo sul Washington Post del 12 aprile intitolato “What Google and Facebook must do about one of their biggest problems” invitando le due grandi porte del web a indirizzarsi verso una “positive direction” e a rendere accessibili non i codici, ma almeno i filtri di selezione. Wadhwa ha dimenticato che se ci sono aziende che non vogliono apparire sui siti di fake news ce ne sono tante altre che si rivolgono proprio a quel target. A questo appello ha indirettamente risposto nel corso dell’ultima edizione di F8 Developers di Facebook Adam Mosseri, VP di News Feed, il quale ha evidenziato i quattro parametri su cui lavora la selezione di notizie di Facebook: Inventory, Signals, Predictions, Score. All’interno di “hundreds of thousands of data points” processati da Facebook, dei quattro parametri che riordinano I contenuti quello di maggiore interesse è Predictions, ovvero l’insieme degli algoritmi di predizione che Facebook usa per proporci i contenuti che hanno più alta possibilità di spingerci a una reazione/interazione.

Dall’esposizione di Mosseri sembra che Facebook punti solo a incrementare la capacità di engagement delle informazioni/contenuti distribuiti nel News feed. In questo senso Facebook si presenta in maniera agnostica rispetto ai contenuti che diffonde: la costruzione della filter bubble o della echo chamber non si baserebbe su considerazioni di tipo politico, ma avrebbe l’unico intento di farci restare più tempo possibile sulla piattaforma per alimentarla con Like, commenti e contenuti (con tutti gli enormi interrogativi che pone questo modello di estrazione del valore dalle persone).

Ma che l’interpretazione di Mosseri sia volutamente ingenua e reticente è dimostrato dal rapporto “Information Operations and Facebook” dello scorso 27 aprile. In esso si esplicita un obiettivo politico chiaro, sulla falsariga del Manifesto di Zuckerberg, quello di “make the world more open and connected”, con la rivendicazione del ruolo in “facilitating public discourse”.

Le ”Information Operations” sono definite come “actions taken by organized actors (governments or non-state actors) to distort domestic or foreign political sentiment, most frequently to achieve a strategic or geopolitical outcome” attraverso “fake news, disinformation or networks of fake account” con obiettivi principalmente di carattere politico e non di monetizzazione. Quindi un documento assolutamente politico e non di carattere tecnico, che pone al primo punto della sua strategia di contrasto la lotta al “Targeted Data Collection”, in sostanza ai “leaks” di dati politicamente sensibili che possono essere attivati anche attraverso i profili Facebook. Per chi crede che Wikileaks, al di là delle ambiguità e delle controversie, abbia consentito negli ultimi anni di conoscere alcuni aspetti del sistema di sorveglianza e degli arcana imperii globali, la posizione di Facebook appare assolutamente schierata a favore della segretezza e a tutela di una parte dell’establishment mondiale, ben lontana dai principi di promozione di un mondo aperto e di libera espressione dei sbandierati da Zuckerberg.

Le tecniche che presenta la società di Menlo Park per tutelare la sua dimensione informativa finiscono per essere risultare di sostegno ad alcune narrazioni (e abusi) di alcune classi dominanti globali. Prendiamo un esempio, la violazione degli account di posta della presidentessa del Democratic National Committee Debbie Wasserman Schultz da parte di hacker russi più o meno strettamente controllati dal Cremlino. Una operazione di spionaggio politico internazionale che ha svelato come i vertici del partito democratico americano giocassero scorrettamente ai danni di Bernie Sanders, ovvero ai danni di colui che tutti i sondaggi davano vincente contro Donald Trump. Queste rivelazioni hanno certamente incrementato, come era loro fine, la sfiducia nelle istituzioni politiche, ma sulla base di fatti veritieri che hanno portato alle dimissioni della Wasserman Schultz, a scuse formali del DNC verso Sanders, il quale aveva anche citato in giudizio il DNC. Eppure il rapporto di Facebook a pagina 8 si preoccupa dei “fake accounts” che potrebbero “undermine the status quo (grassetto mio) of civil or political insistitutions”: un’esplicita presa di posizione che evidenzia l’approccio conformistico di questi meccanismi che potremmo definire di “information patroling” che attiverà nei prossimi mesi Facebook. A tal riguardo Facebook assicura a pagina 12 che continuerà a lavorare con i governi per fornire formazione e a collaborare con le agenzie governative di cibersicurezza: una scelta di campo chiara a sostegno dei governi in carica, ovunque essi si trovino e comunque essi operino. Postulare e promuovere un confronto aperto tra i suoi utenti e collaborare con governi autocratici che perseguono chi vuole esprimersi liberamente potrebbe apparire una contraddizione oppure rappresentare i due assi di una rete di controllo globale pronta ad attivarsi per sanzionare o a imprigionare chiunque apponga un Like o faccia un commento considerato sovversivo ad Ankara o al Cairo, ad esempio. Un ambiente relazionale in cui si potrà parlare con tutti di quasi tutto purché non cambi lo status quo del mondo reale.

Ma, si dirà, le fake news ci hanno portato Trump e qualche contromisura bisogna pur prenderla. Ebbene, tanto il citato rapporto di Facebook quanto l’eccellente ricercaSocial Media and Fake News in the 2016 Election dei ricercatori della Stanford University Hunt Allcott e Matthew Gentzkow evidenziano che non vi è alcuna correlazione certa tra la vittoria di Donald Trump e la diffusione di fake news a sostegno delle sue posizioni. Mentre sul tema delle presidenziali USA il citato rapporto di Facebook dichiara che “we have no evidence of any Facebook accounts being compromised as part of this (information operations) activity”, il rapporto di Allcott e Gentzkow, pur confermando che Facebook era stato il principale veicolo di diffusione delle 156 fake news monitorate durante il periodo pre-elettorale, dimostra come l’impatto delle fake news in termini di capacità di indirizzo e di cambiamento delle opinioni politiche è estremamente limitato. Altri fattori, come l’orientamento politico, la dieta mediatica e il livello di istruzione, risultano molto più incidenti.

Le fake news come fallimento della governance liberal e globalista

In una recente intervista Eli Pariser ha dichiarato: ““The filter bubble explains a lot about how liberals didn’t see Trump coming, but not very much about how he won the election” e si chiede: “Is the truth loud enough?” Ma chi o cosa dovrebbe decidere cosa è la verità?

A mio avviso il dibattito globale sulle fake news può essere interpretato anche come un alibi che le élite mondiali liberal e globaliste stanno diffondendo per giustificare vari fallimenti delle loro scelte di personale politico e di governance. L’incapacità di queste élite di costruire quella che Gramsci chiamava la “connessione sentimentale” con il popolo, che oggi si esprime tanto attraverso i social media e in special modo Facebook, finisce per essere attribuita alle fake news, all’hate speech, ai leaks, alle information operations pianificate da stati esteri, ma raramente vi è un’autocritica sulle proposte politiche e sulla qualità della comunicazione e dello stesso personale politico proposto da queste élite liberal. Brexit e Trump sono due dei vari esiti di questa disconnessione tra gente comune e classi dirigenti globaliste. Di converso bisognerebbe chiedersi se l’efficacia di Sanders e Corbyn su Facebook sia solo merito del loro social media manager o anche l’effetto della loro proposta politica.

La risposta verso cui certe élite sembrano orientarsi per far fronte ai fallimenti della loro governance tende alla censura da stato etico, con l’aggravio di voler ricorrere agli algoritmi delle grandi corporation del web per fini strettamente politici. In realtà gli studi più recenti non mostrano una particolare capacità di orientare il dibattito pubblico da parte delle fake news. Esse vanno intese in molti casi più come una gratificazione psicologica per persone che vogliono ulteriori conferme dei loro pregiudizi, occasioni di svago più che armi di propaganda politica. Uno svago pettegolo e malizioso quanto si vuole, ma un indice della libertà di espressione di una società.

Immaginiamo un ministero della verità che decida di togliere dalle edicole Cronaca Vera e Novella 3000. Non sarebbe un attentato alla libertà di stampa, a una stampa che da sempre è anche svago e può essere letta senza alcun impegno intellettuale e senza impegnarsi in alcuna verifica fattuale?

Qualche Solone liberal dirà: “ma nessuno vi vuole togliere il cazzeggio pettegolo dal parrucchiere o sotto l’ombrellone! La questione riguarda i temi seri, dalla politica alle affermazioni pseudo scientifiche”. Ecco, anche se gli algoritmi di verifica della veridicità di un fatto o di un’affermazione venissero applicati solo (solo?) a questioni politiche e asserzioni scientifiche, ci sarebbe molto da preoccuparsi. Se la politica è il presente della storia sarebbe inquietante che il dibattito politico venisse indirizzato dagli algoritmi delle grandi piattaforme. Quale storia avremmo?

Aggiungiamo il fatto che mentre la storia viene da secoli riscritta grazie a documenti inediti e interpretazioni innovative dei fatti, un documento digitale una volta cancellato non può più venire recuperato.  E anche sulle affermazioni pseudoscientifiche bisognerebbe riflettere con meno conformismo.  Isaac Newton era un geniale scienziato quanto un alchimista appassionato: qualche algoritmo di ricerca potrebbe retrocedere tutti gli articoli sulle ricerche di un Isaac Newton contemporaneo perché parte di esse sarebbe patentemente controversa.

La storia del giornalismo, da Winchell e Pulitzer in poi, è un continuo confronto tra watchdogging e propaganda, tra impegno e svago, tra terze pagine e pagine rosa, tra scoop e violazioni della privacy, un coacervo di manipolazione, idealismo, servilismo e impegno civico. E ci sarà sempre un tipo di pubblico che all’Etica nicomachea di Aristotele preferirà la lettura delle amorali vicissitudini di Fabrizio Corona. L’importante è avere una politica che voglia fare in modo che tutti abbiano gli strumenti per comprendere il valore delle diverse intraprese.

Al contrario, una politica che si illuderà di usare gli algoritmi di aziende commerciali per poter cancellare una parte della realtà che trova sgradevole rischierà di vedersi cancellata da questi stessi algoritmi.

Il mondo dato di Cosimo Accoto

Algoritmi Biblioteca

Il mondo dato di Cosimo Accoto

Un mondo nuovo, al contempo remoto e usuale, sta emergendo attraverso le infinite declinazioni del codice e le applicazioni del digitale. Un mondo dove nulla è già dato perché il dato cambia e si ricombina incessantemente. Un mondo dove cambierà la condizione umana, dal momento che non solo esperiremo sempre più il mondo come dati e interfacce, ma soprattutto saranno sempre più algoritmi e codici a guidare le scelte di miliardi di persone connesse.

Come dice Alex Pentland citato da Cosimo Accoto: “usiamo concetti analogici in un mondo digitale”. Ecco dunque che la filosofia digitale non è lo studio delle manifestazioni del digitale, come la sociologia lo è dei fenomeni sociali e la etnologia delle popolazioni, ma si pone l’obiettivo di sviluppare nuovi concetti capaci di cogliere, spiegare e, possibilmente, incidere sul processo di digitalizzazione del mondo.

Siamo dunque in una fase in cui i concetti tradizionali dimostrano i loro limiti a fronte di una trasformazione dello stesso loro orizzonte di applicazione, nuovi concetti stentano a venire definiti, anche perché non si conosce l’esito degli svariati indirizzi della digitalizzazione e perché vi è, anche, un problema dromologico, ovvero tale è la velocità della trasformazione che le poche menti finora impegnate nella sua analisi non riescono a stare al passo. Ma quella di cui oggi si sente l’urgenza è proprio una riflessione critica. Una delle istanze di partenza del denso “Il mondo dato” di Cosimo Accoto è la volontà di “capire la struttura filosofica del capitalismo informazionale”. Per quanto siano oramai molti i testi di critica degli effetti sulle persone e sulla società della digitalizzazione, un approccio analitico e speculativo al codice, inteso sia nella comprensione della sua ontologia e delle sue possibili teleologie, è appena agli esordi del suo percorso.

Di fronte a questo scenario mi soffermo su alcune alcune questioni che pone Accoto, evidenziando come la trasformazione digitale tenda ad erodere i presupposti e la utilizzabilità di alcuni concetti classici della tradizione filosofica occidentale.

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Il labirinto dei dati

“ (…) questo grandissimo libro, che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’Universo) (…) è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto.” (Il Saggiatore, 1623)

Se Galileo Galilei vedeva il mondo come matematica e geometria, oggi noi conosciamo e prevediamo il mondo sotto forma di dati e codici. Alla scoperta scientifica delle leggi della natura considerate immutabili subentra la costruzione di una realtà basata su diversi software che possono utilizzare dati diversi e interpretarli diversamente: “un software può trasformare una stanza da letto in una unità ospedaliera personalizzata”, evidenzia Accoto, e un software può anche costruire infinite bolle informative e di intrattenimento calibrate sull’analisi delle scelte pregresse e imminenti del suo fruitore. Per certi versi si realizza nel mondo ordinario lo stesso mutamento radicale che nella fisica si è prodotto quando si è passati dall’ordinato mondo newtoniano al principio di indeteminazione alla base della fisica quantistica.

Il dato dunque non è solo un elemento statico, finito, ma è anche in contemporanea un processo perché sempre nuovi possono essere le modalità per rilevarlo, per rappresentarlo, per analizzarlo, per utilizzarlo. Se i dati vengono spesso proposti in interfacce “user-friedly”, essi comportano sempre una opacità perché restano quasi sempre opache le modalità di acquisizione e di processamento. Di noi stessi oggi non sappiamo quanti dati esistono, come essi vengono prodotti e per cosa vengono utilizzati. Il nostro corpo digitale produce dati diversi a seconda dei codici, dei campi, degli algoritmi da cui viene attraversato.

L’ideologia predominante del capitalismo informazionale propone i dati e gli algoritmi come neutrali e oggettivi, quando invece essi sono sempre frutto di un processo tecnico e sociale, che impatta sulle vite delle persone e determina le loro scelte. In questo senso dato e algoritmo diventano centrali anche nella vita politica, o meglio nella biopolitica, perché essi incidono costantemente non solo sulle scelte strumentali, ma sul vissuto della persona e sulla sua percezione di sé. La coscienza personale e sociale è costruita oggi tanto socialmente quanto informazionalmente, a maggior ragione quando una parte dell’umanità vive una fetta consistente della sua socialità attraverso ambienti relazionali digitali. Se storicamente la questione filosofica verteva sull’interpretazione del mondo, nel momento in cui il mondo dei dati e degli algoritmi è gestibile da determinate entità commerciali si pone una nuova questione: chi può verificare in ultima istanza dati e algoritmi che rappresentano il mondo e sulla base di quali principi.

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Il velo di Maya digitale

L’interpretazione tradizionale del mondo ha visto distinti e spesso contrapposti un soggetto e un oggetto. Non vi è spazio per ripercorrere tutte le modalità in cui si è presentata questa diade alla base del pensiero filosofico occidentale ma dalle forme più ingenue di realismo alle forme più scaltre di idealismo (inarrivabile l’incipit del Die Welt: “Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch’egli non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra; che il mondo da cui è circondato non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso”) vi è sempre stato qualcosa di opposto o proiettato dal soggetto al suo esterno, un Gegenstaend in tedesco, dove “l’oggetto” è appunto “l’opposto”: il mondo si dà nella sua alterità rispetto al soggetto. Al contrario nel digitale non viviamo più solo un’esperienza meramente oppositiva o dialettica con il mondo, ma anche immersiva, capace di oltrepassare questa classica diade. In questo flusso costante di dati di cui siamo produttori e fruitori veniamo rilevati da sensori non umani, i quali spesso ci chiedono di inter(re)agire. I video a realtà virtuale e immersivi a 360° con le relative apparecchiature come Oculus rift già presentano una nuova modalità di intrattenimento che presto si diffonderà anche agli ambiti professionali. Questa dimensione immersiva, in cui, per la prima volta volta, le persone sono oggetto di rilevazione, valutazione e giudizio da parte di macchine algoritmiche, costituisce una novità nella storia umana.

Si potrebbe dire che le interfacce tendono a levigare il mondo, a semplificarne e a eliminarne la complessità, la contraddittorietà, la conflittualità. Gli algoritmi tendono a tessere un“velo di Maya” digitale: un mondo immateriale, dove le problematiche connesse alla materialità del prodotto (l’usura di un disco musicale, lo smarrimento di un biglietto aereo o ferroviario, la fatica e le condizioni reali di produttori o distributori) tendono a sparire o a essere tralasciate.

Un mondo meno materiale può diventare un mondo meno conflittuale e dunque più omologato e conformista?

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La coscienza dell’algoritmo

In un articolo fondamentale del 1974 Thomas Nagel si chiedeva “Che cosa si prova a essere un pipistrello?” Contro i riduzionisti Nagel poneva la questione della coscienza come problema insormontabile come anche quello dell’impossibilità di conoscere cosa prova un essere dotato di apparati sensori radicalmente diversi dai nostri o privi del nostro sistema simbolico.

Se chiedersi cosa si prova ad essere una macchina algoritmica è un’analogia forzata, non credo lo sia porsi il problema dell’interazione con un mondo che sarà popolato sempre più da codici e processi che simuleranno una coscienza. Una macchina semplice come una chatbot può già oggi, nelle versioni più evolute, simulare offesa, sollecitudine, insofferenza, pazienza, ecc.

Vero è che domandarsi se un sottomarino sa nuotare è una domanda malposta, ma noi non interagiamo con i sottomarini, mentre sempre più spesso interagiremo con macchine algoritmiche che simuleranno una coscienza e queste relazioni avverranno sempre più in età prescolare. Ecco: chiedersi se e come cambierà la consapevolezza delle persone e le loro abilità relazionali in un mondo dove interagiranno sempre più con agenti non umani non è una domanda peregrina.

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Il superamento del soggetto?

Nelle società moderne liberali, la costruzione sociale della soggettività si basa sull’assunto dell’individualità e su un presupposto di libertà che guida le sue azioni.

In un mondo costruito su quella che Antoniette Rouvroy chiama la governamentalità algoritmica, questi due classici concetti dell’età moderna tendono a indebolirsi se non a svanire. La scissione del concetto classico di individuo in corpo e mente digitali, consente di dimenticare nell’analisi la coscienza del soggetto, definisce la dividualità come un produttrice di profili digitalizzabili composti da migliaia di dati raccolti con modalità e sensori diversi temporaneamente assembleati e riassemblati in base alle necessità di analisi, archiviabili e riutilizzabili indefinitivamente e senza controlli.

La libertà delle scelte sarà sempre più prevista in percorsi predefiniti. Oggi la frontiera del marketing è la customer analytics, analisi predittive fondate su un data behaviourism, come lo chiama la Rouvroy, orientato ad anticipare, formattare e selezionare il futuro potenziale dei nostri corpi e delle nostre menti, almeno come essi vengono rappresentati digitalmente: “l’estrazione di dati e le tecniche di profilaggio seducono le industrie e le istituzioni governative con la promessa del tempo reale e del rilevamento automatico, dunque presumibilmente “oggettivo”, nonché dell’ordinamento e della valutazione a lungo termine degli invisibili rischi e opportunità portati dagli individui”, ha detto la Rouvroy nella conferenza Transmediale – All Watched Over by Algorithms”. Il processo di codifica digitale della vita sociale rischia a scindere gli individui in dividualità, necessarie alla produzione incessante di dati che alimentano l’economia e la riproduzione socio-culturale, e al controllo attraverso le tecniche di analisi dei Big Data.

Qualche web marketing guru pronto a proporre la sua ricetta iperpragmatica potrebbe tacciare queste riflessioni come mere ruminazioni teoriche. Ma proprio oggi la copertina dell’Economist dimostra che quel che fino a ieri era un ristretto dibattito accademico oggi diventa oggetto di dibattito pubblico globale. Perché, come diceva Hegel citato da Accoto “”La filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero” e per comprendere consapevolemente il proprio tempo non esiste (ancora?) alcun algoritmo cui affidarsi.

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Riferimenti bibliografici

Gilles Deleuze, Postscript on the Societies of Control, 1992

Floridi, L. (2016) The Fourth Revolution How the Infosphere Is Reshaping Human Reality. Oxford University Press, USA

Antoniette Rouvroy, The end(s) of critique : data-behaviourism vs. due-process., 2012

Lev Manovich, Software takes Command, 2013

Paul Virilio, The Information Bomb. London: Verso, 2000

Thomas Nagel, Cosa si prova a essere un pipistrello?, The Philosophical Review, ottobre 1974
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