Social minds

Fenomenologia di Vincenzo De Luca

(e della sinistra post-democratica)

Da oramai 3 decenni imperversa sui media, prima locali e oggi sociali, l’unico politico costantemente impegnato a imitare i suoi imitatori. 

L’affabulatore

All’epoca dei suoi primi successi su una televisione locale, privilegiava il dialogo con i telespettatori, dando conto dei suoi risultati e delle sue idee, al massimo redarguendo qualche ardimentoso cittadino che aveva osato criticarlo e crogiolandosi nei complimenti che regolarmente arrivavano tramite le telefonate in studio. 

Oggi, in epoca di social media, si dedica per lo più a monologhi in forma di proclami via dirette facebook. Il tono della voce indugia su una scala di bassi, scandendo le parole e a volte le sillabe con fare pedagogico e talvolta a mo’ di “consiglio amichevole” di un malavitoso. Le pause, gli sbuffi, le incrinature della voce, studiate come ogni bravo attore, indicano, di volta in volta, rabbia trattenuta per l’incapacità degli avversari, benigna commiserazione verso l’ottusità altrui, complicità con gli spettatori nell’irridere i critici.

Tipica mimica deluchiana durante un’esibizione su LIRA TV

L’eloquio forbito non serve solo ad affermare il suo livello culturale, ma anche a incutere un timore reverenziale in una parte del suo pubblico, affezionato quanto ingenuo, come tutti i fan d’altronde. Un lessico così ricercato creerebbe una distanza incolmabile con il pubblico se non venisse inframmezzato da insulti colloquiali, dialettali, o schiettamente volgari di cui presentiamo un florilegio minimo: somaro, sciacallo, pinguino, cretino, idiota, imbecille, farabutto, sfessato, Neanderthal, pistolino, chiancarelle, chiattona, portaseccia e mezzapippa. Il nostro performer dedica particolare cura all’elaborazione degli epiteti da destinare agli avversari: “chierichetto” quando vuole essere banalmente gentile, “faccia come un fondoschiena usurato”, quando è in vena creativa. Si tratta oramai di un pezzo forte del repertorio preteso dal suo pubblico ad ogni sua performance e la collazione di queste ingiurie creative alimenta una specie di sottocategoria giornalistica. 

Sarebbe però banale ridurre Vincenzo De Luca alle invettive e agli insulti che lo hanno fatto diventare una star del web internazionale. La storia di questo politico meridionale dice molto della parabola della sinistra italiana, del suo fallimento, che l’ha portata a essere al contempo conformista e marginale; teoricamente inclusiva, ma elitista nella pratica; sulla carta progressista, ma conservatrice, se non addirittura autoritaria, nella sostanza, come anche la pandemia ha dimostrato. 

Dalle rivendicazioni collettive all’affermazione del singolo 

Nato a Ruvo del Monte, un paesino della Basilicata di mille abitanti, e cresciuto a Salerno, dove si laurea in filosofia agli inizi degli anni Settanta, il futuro “sceriffo” era destinato a essere un professore di liceo, un onesto quanto oscuro intellettuale di provincia, se non avesse intrapreso l’attività politica con il partito comunista, impegnandosi in particolare nelle lotte dei contadini. Una tipica sintesi perseguita dal PCI: gli intellettuali che si confrontavano con il popolo, se ne facevano portavoce, lo elevavano in termini di consapevolezza e capacità di organizzazione. Non è  il percorso di vita di un singolo: dal Dopoguerra in avanti tantissimi giovani intellettuali di sinistra decisero di impiegarsi nei servizi dello Stato o di farsi assumere nelle fabbriche private per fare attività politica in questi contesti. Lo stipendio fisso era una motivazione secondaria rispetto all’obiettivo di cambiare i rapporti di forza sociali dall’interno dello Stato e nella società. Chi si dedicava esclusivamente al Partito, faceva una scelta di vita che implicava sacrifici ancora maggiori in termini personali ed economici. 

Dunque il nostro attuale performer di successo viene da una gavetta che per circa 15 anni ha visto come pubblico contadini, braccianti, allevatori, operai delle fabbriche della filiera agroalimentare di Campania e Lucania, un pubblico al quale parlare semplice, diretto, con un linguaggio immediato era una necessità, ma anche un obbligo morale e politico. 

Immaginiamo la situazione: un giovane intellettuale meridionale fresco di una tesi di laurea su Francis Bacon, il primo teorico moderno della razionalizzazione del mondo, si confronta con un mondo che negli anni Settanta era in parte ancora ancestrale per cercare di portarlo nell’analisi marxista dei rapporti di forza economici e mobilitarlo politicamente. Tanti giovani idealisti si sarebbero arresi nel constatare quanto la razionalità dei libri risultasse lontana da quella realtà. Non il ambizioso eroe, che in quegli anni gli avversari  soprannominarono, con un’iperbole lungimirante, Pol Pot, il dittatore cambogiano che sterminò gli intellettuali e chiunque portasse gli occhiali per creare una società totalmente rurale. 

Una vulgata giornalistica facilona associa la politica degli anni Settanta quasi sempre e solo ai terrorismi, di destra come di sinistra. In realtà, gli anni Settanta sono stati l’acme di un percorso, intrapreso due decenni prima sulla scorta delle intuizioni gramsciane, in cui la sinistra ha davvero creduto di redimere il popolo, non svuotandone la cultura, ma valorizzandola come elemento di orgoglio e di identità e dunque di liberazione, oggetto di studio e ispirazione per grandi studiosi e artisti, come Ernesto De Martino Italo Calvino, Roberto Leydi e Roberto De Simone,  e tanti altri. 

Quel che oggi sappiamo della civiltà contadina italica, che era rimasta la medesima per forse tremila anni ed è stata distrutta in Italia in meno di tre generazioni, lo dobbiamo per lo più ai lavori di ricerca ispirati nel Dopoguerra dal PCI, capaci anche di demistificare certe modalità di idealizzazione del “popolo” da parte di chi non era mai stato in mezzo ad esso. Vincenzo De Luca in mezzo ai contadini si è invece formato, e ha capito nel corso degli anni Ottanta come la battaglia ideale e sociale del PCI stava perdendo colpi, a seguito delle trasformazioni della società, del consumismo televisivo, dell’emergenza di  nuovi soggetti lavorativi che portavano nuovi bisogni e forse soprattutto dei limiti, in termini di idee e di personale politico, che il PCI manifestava a comprendere questi fenomeni. La caduta del muro di Berlino è stata soltanto la pietra tombale su un progetto di trasformazione sociale e politica che era già morto da anni. 

Così, a inizio degli anni Novanta, migliaia di persone dal notevole spessore intellettuale si ritrovarono allora non solo disorientati, ma spesso anche disoccupati a causa del fallimento di un progetto politico che aveva convogliato per decenni nella sua realizzazione migliaia, se non decine di migliaia, di esistenze, condizionandone scelte e qualità della vita. Si smantellava una burocrazia intellettuale e si rinunciava così a ogni ambizione di redimere i cafoni, i lavoratori, gli ignoranti, i marginali, quelli che un tempo erano stati invece l’oggetto privilegiato delle cure del PCI: le masse industriali e civiltà contadina non si sarebbero mai fuse in un “popolo” capace di indirizzare un percorso di avanzamento sociale e politico. Il dilagare del berlusconismo, inteso come un’idea di società individualista, opportunista, antilegalitaria, anche negli strati meno agiati della popolazione veniva vissuto dalla sinistra come un tradimento. Pochi però si sono posti qualche domanda sugli effetti che il crollo di certi ideali, l’agile trasformismo di tanti dirigenti e l’opportunismo da sopravvivenza di tanti altri facevano sul sentire comune di ex militanti e tesserati. Il berlusconismo dilagò anche perché trovò le casematte abbandonate da chi vi era a guardia. 

Sparito il mondo in cui si era formato De Luca, quando gli intellettuali facevano politica per redimere gli ignoranti; chiuse le sezioni dove ci si ritrovava a ragionare tra istruiti e militanti e prima ancora a conoscersi e a socializzare; svanita ogni prospettiva di cambiamento: restavano singole emergenze e indignazioni del momento, singoli obiettivi di questa o quella associazione monotematica, vertenze territoriali e diritti dei singoli (gay, disabili, immigrati) raramente visti in una dimensione collettiva.

Come tanti suoi ex compagni di partito, il nostro personaggio capì che la sua sopravvivenza politica passava attraverso la conquista in prima persona delle leve del potere amministrativo. Per decenni il ruolo di segretario del partito comunista e gli incarichi amministrativi erano stati tenuti ben separati. Nel 1993 De Luca impone da segretario cittadino del PDS la sua candidatura a sindaco di Salerno, conscio che i rapporti si erano ribaltati: il potere non si trovava più nel partito politico, locale o nazionale, o nei corpi sociali che organizzavano le istanze della cittadinanza, ma nell’amministrazione e nel governo. Svanisce l’ambizione di dilatare il potere e i diritti del popolo e predomina l’idea di un cittadino-cliente che chiede di essere amministrato attraverso servizi efficienti gestiti da tecnici competenti. 

Da plebe a popolo, dalla gente ai follower

Plebe, sudditi, proletariato, popolo, massa, gente, individui: sono tutti termini che sottendono una specifica ideologia e una specifica relazione di potere tra l’oggetto e il discorso che ne parla. Quando ci si lamenta che è sparito “il popolo” (qualsiasi cosa con questo termine si intenda) non ci si riferisce a un’estinzione di tipo antropologico come nel caso della cultura contadina: semplicemente è diventato minoritario o marginale un certo approccio che implicava una determinata modalità di (auto)rappresentazione.

Nel corso del Novecento la cosiddetta cultura popolare è stata di volta in volta oggetto di disprezzo, repressione, riscoperta o valorizzazione a seconda dei rapporti di potere nella società. Quello che una volta veniva chiamato popolo attraverso le lenti di un’ideologia di liberazione, diventa negli anni Novanta la “‘ggente” sotto le telecamere della cosiddetta Tv-verità, in cui i singoli che vi apparivano dovevano per lo più manifestare solo sfoghi, proteste, rabbia, urla, sentimenti basici e per lo più negativi: un coro vociante chiamato solo a fare da contrappunto e a confermare le tesi dei conduttori, i Funari o i Michele Santoro, guarda caso quest’ultimo proveniente dal PCI di Salerno. 

In questi anni di trionfo mediatico del suo storico antagonista salernitano, De Luca deve accontentarsi delle dirette da una sgarrupata televisione locale (“De Luca non vali una LIRA TV” è lo slogan di protesta di quegli anni a Salerno) per affermare il suo lavoro amministrativo e affinare il suo appeal televisivo. Nei suoi proclami televisivi il caudillo di Salerno sostituisce presto la pedagogia del popolo di gioventù con l’ortopedia del buon cittadino che egli ritiene debba, da buon amministratore, imporre. A un’idea di trasformazione democratica dei servizi pubblici subentra presto l’uso dei vigili urbani come una guardia pretoriana personale. La tanto esaltata movida esalta il disimpegno dei giovani e lascia ampi spazi all’autocrazia localistica, mentre i pochi spazi realmente autogestiti vengono  marginalizzati, criminalizzati, se non a volte anche perseguiti. Un modello di amministrazione e un’idea di società che in qualsiasi paese d’Europa verrebbero definiti di destra. Perché allora la sinistra salottiera di Fabio Fazio ama tanto Vincenzo De Luca? Perché quest’ultimo, nella sua studiata incontinenza linguistica, dà voce al disprezzo che questi “ceti medi riflessivi” riservano ai miracolati della politica come ai dipendenti pubblici fannulloni, agli immigrati che spacciano e non sanno fare la differenziata, ai vicini maleducati, ai fattorini che gli portano il cibo a casa senza il dovuto rispetto, ai giovani ignoranti e sboccati, a tutti quelli che disturbano l’agognata quiete nelle loro vite e confermano le loro supponenze. D’altra parte quale è lo zoccolo duro degli elettori della sinistra “moderata” italiana se non un ceto medio conformista e in cerca di sicurezza economica e tranquillità sociale?

Vi è in questo fatto la profonda contraddizione che condanna oramai la sinistra italiana a essere minoranza numerica nel paese, proprio a fronte della sua sbandierata superiorità morale e intellettuale: mentre un politico leghista, berlusconiano, post-fascista non si sente migliore dei suoi elettori e rappresenta coerentemente i loro principi e il loro sentire, un politico di sinistra italiana rimarca spesso una certa distanza (se non imbarazzo), dai suoi elettori. Il politico della sinistra italiana attuale farebbe volentieri a meno dei suoi elettori, e ancor di più delle elezioni (come in effetti accade). 

Nel collasso ideale e antropologico che ha caratterizzato la politica italiana dell’ultimo trentennio, De Luca è stato un raro animale politico capace di adattarsi all’ambiente e agli scenari che rapidamente si susseguivano, attivando doti mimetiche a seconda dei contesti e delle situazioni in cui si trova. La sua comunicazione è tutto tranne che improvvisata e connette mondi ben diversi: le volute volgarità del suo linguaggio lo fanno percepire loro prossimo a ignoranti e analfabeti di ritorno; i termini aulici e le allusioni di varia natura sono colte da chi le deve intendere a ben altri livelli; le metafore, le iperboli, le metonimie, le pause, gli sbuffi, le urla sono il precipitato storico che dai comizi di piazza arriva fino alle miniclip e ai meme sui media sociali e sui sistemi di messaggistica. 

 

La pandemia, prove generali di post-democrazia 

La pandemia è stata per De Luca la grande occasione per mettere in atto senza freni il suo narcisismo comunicativo e le sue pulsioni sadico-autoritarie. 

Ricordare nel dettaglio le sue sparate grandguignolesche, come sull’utilizzo del lanciafiamme come antisettico, sarebbe stucchevole quanto stupirsi, dopo le nostre argomentazioni, degli applausi scroscianti che ha ottenuto dai cosiddetti liberali di sinistra per queste e altre affermazioni della sua incontinenza verbale. Ora delle due l’una: qualsiasi governante in qualsiasi parte del globo che avesse affermato una cosa del genere (pensiamo per esempio a Trump) sarebbe stato trattato o da psicotico o da buffone. Il lettore avrà oramai capito che noi propendiamo per la seconda ipotesi, nella variante del personaggio da avanspettacolo, eppure sconcertano ancora le risate crasse e indulgenti che la sinistrata sinistra italiana ha riservato a queste e altre sparate, mentre milioni di famiglie campane vivevano nelle quattro mura domestiche momenti di sconforto, panico e spesso di fame.

Mentre la pandemia in primavera risparmiava il Meridione, Sua Incontinenza se ne attribuiva il merito e metteva in campo un confinamento durissimo (vietato anche l’asporto) che realizzava così il suo sogno segreto: esercitare, almeno per qualche settimana, un controllo assoluto sulla popolazione, facendo delle città un deserto poco problematico. 

E quando poi in autunno è arrivata la seconda ondata quali sono stati i risultati di questa starlette della pandemia, invitato costantemente da Fabio Fazio per rivitalizzare l’audience con i suoi monologhi della piangina contro il mondo incapace? Abbiamo un ulteriore paradosso: a parlare in tv di governo del Covid e dintorni viene chiamato il governatore della regione con più ammalati d’Italia al momento e quello che ha registrato spesso i peggiori numeri. 

Secondo il Gimbe, la Campania resta ad oggi la quarta peggiore regione italiana (dopo Calabria, Sicilia e Basilicata) nel rapporto tra incidenza per 100.000 abitanti nelle ultime due settimane e percentuale di incremento dei casi. 

Sempre secondo i dati elaborati dalla Fondazione Gimbe sulla base dei dati ufficiali del Ministero della Salute, la Campania è oggi di gran lunga la regione con la maggiore incidenza di casi di Covid19. 

La regione è risultata sempre agli ultimi posti in Italia per numero di tamponi ogni 100.000 abitanti. La Campania resta la peggior regione d’Italia per numero di posti in terapia intensiva per 100.000 abitanti. Dopo l’attivazione del piano elaborato dall’ex commissario Domenico Arcuri, la Regione Campania ha aggiunto appena 9 posti effettivi di terapia intensiva ai precedenti 355 complessivi. Dal canto suo il Veneto è passato con lo stesso piano da 494 a 804 posti letto. 

Repubblica (proprio il quotidiano dei liberali di sinistra, che paradosso) ha prima denunciato la presunta truffa dei tamponi con bandi su misura tra l’Istituto Zooprofilattico di Portici e la struttura privata Ames e poi ha svelato il trucco dei posti letto disponibili e attuabili: ecco allora che il moralismo sbandierato dal Governatore degrada in una farsa scarpettiana, mentre i posti letti appaiono e spariscono come il gioco delle tre carte a piazza Ferrovia a Napoli. 

Dati e fatti risaputi a livello regionale che vengono coperti a livello nazionale da una comunicazione che usa oramai il personaggio-intrattenitore come uno schermo alle inadeguatezze del politico-amministratore. Non si tratta di una novità assoluta, la comunicazione è oramai l’unica forma autonoma di politica. Eppure allarma vedere come i liberali di sinistra non abbiano capito che De Luca non è un’eccezione narcisista quanto provocatoria, ma l’esito, caricaturale ma prevedibile, dell’indirizzo antipopolare e tecnicista che ha gradualmente prevalso nella sinistra italiana. Se si rinuncia a un progetto politico di cambiamento per celebrare competenze tecniche insindacabili, governare finisce per essere l’attuazione di determinate verità, ovvero un regime autoritario. Così un’emergenza sanitaria viene interpretata e affrontata come un problema di ordine pubblico, ribaltando sui cittadini, in termini di minore libertà, le inadeguatezze dei governanti. 

 

Per quanto abbia superato i settant’anni, Vincenzo De Luca non è un personaggio del passato, e studiarlo ci aiuta a capire come potrebbe essere l’esito dell’attuale post-democrazia: una società verticistica dove un solo leader di un’elite ristretta tiene a bada masse di persone impoverite nel reddito, nella cultura e nei diritti, impaurite dalla precarizzazione delle loro esistenze.  Esattamente il modello di società contro cui tutte le sinistre del mondo si sono battute, almeno fino a trent’anni fa, con l’aggiunta oggi dell’introversione narcisistica indotta dai social media.

L’influencer De Luca tutto questo lo sa bene, come sa che solo la popolarità in rete gli garantisce un futuro politico.  Perciò se dovrà gareggiare in lazzi con l’ultimo guitto che lo imita o prestarsi alle attese del pubblico televisivo pur di mantenere questa popolarità, da bravo performer lo farà. The show must go on. 

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