Social minds

Socialità e influencers

E’ possibile ricostruire un senso del vivere sociale nell’epoca del capitalismo digitale? Ecco la domanda da cui parte Pablo Calzeroni nel suo denso saggio “Narcisismo digitale” edito da Mimesis Edizioni.

Come spesso accade a una certa sinistra che cerca di colmare con l’entusiasmo acritico i suoi limiti teorici, l’avvento della rete globale è stato interpretato come un grande movimento di liberazione degli individui. L’idea di intelligenza collettiva, elaborata da Pierre Levy, sembrava aprire spazi non solo per una nuova socialità digitale basata sulla condivisione e sulla collaborazione, ma addirittura consentire il superamento della crisi del soggetto: grazie alla rete si usciva definitivamente dalle aporie del rapporto soggetto-oggetto in cui si dibatte la post-modernità e si entrava in un’era in cui all’io si sostituiva un noi, un senso di appartenenza che da una parte offriva un senso all’esperienza del singolo individuo e dall’altro confermava il processo di desoggettivizzazione proprio della tecnica. Ma questo orizzonte si è rivelato altrettanto fallimentare, nient’altro che un’utopia che ha spesso legittimato gli usi e gli abusi della rete di cui oggi vi è un’amplissima pubblicistica: l’isolamento narcisistico degli individui alla base, a mio avviso, anche dell’odio online; lo sfruttamento degli utenti come meri produttori di dati; il degrado generalizzato delle capacità cognitive e dialettiche delle persone in un contesto online basato su titoli ad effetto e meme, immagini e non ragionamenti. La stessa idea di democrazia diretta digitale è la conseguenza di queste dinamiche, nel momento in cui la dimensione digitale riduce l’attitudine al confronto dialettico e sviluppa bolle cognitive autoreferenziali le quali portano a credere che il ragionamento complesso, profondo, argomentato, dai tempi di elaborazione lunghi e consapevole delle conseguenze a lungo termine sia quasi il frutto di un complotto dei poteri forti e non uno dei massimi risultati dell’evoluzione umana.

Attraverso il confronto con Lacan e Castoriadis, Deleuze e Guattari, Calzeroni dimostra che la scissione del soggetto non viene sanata dalla rete. Il soggetto, ricorda Lacan, è sempre scisso, alienato, privo di sostanza. Il soggetto è la maschera di queste lacerazioni, una spiegazione posticcia di esse e dunque “la fascinazione narcisistica può portare alla credenza che l’Io rappresenti davvero l’unità del proprio essere” (pag. 102) e il web consente, come ricorda il collettivo Ippolita, “una costruzione ossessiva del profilo pubblico” per tendere a una “pubblicità riuscita di se stesso” (pag.103).

Stupisce che Calzeroni non attinga al classico Simulacri e Simulazioni di Jean Baudrillard per approfondire questi ragionamenti. Cosa è un profilo Instagram di una “influencer” (ma anche di un qualsiasi utente) se non un flusso di simulacri? La rappresentazione/esibizione di sé esiste in quanto tale sulla piattaforma, non in rapporto a una qualche realtà. Solo gli ingenui si stupiranno nel non riconoscere dal vivo le fattezze della influencer di turno. Luci, camere, filtri, photoshop, concorrono a creare un simulacro che mentre prima era frutto dell’industria dei media (televisione o moda, per esempio), oggi è alla portata di chiunque voglia sfruttare le capacità della piattaforma e lo slittamento dell’audience verso la mera visione senza pensiero. Anche le immagini più spinte non producono spesso una pulsione sessuale maggiore di quella che produrrebbe una statua: il desiderio (altro tema fortemente investigato da Calzeroni sulla scorta di Lacan) è anestetizzato dal simulacro. Dunque il simulacro digitale non solo (per statuto, secondo Baudrillard) vela il vuoto del reale, ma ancor di più imbriglia il desiderio, che è sempre un desiderio di senso, una petizione affinché il reale esista. Ecco perché quello che viene anche definito narcisismo digitale si disinteressa della relazione con gli altri, i quali non sono che dei Like, anonimo pubblico, e al contempo, da un punto di vista politico, disinnesca il desiderio come tensione verso il reale, pretesa della sua esistenza, volontà di trasformazione.

Senza aver letto Debord o Baudrillard, gran parte degli influencer attuano un’agenda tranquillizzante, passivizzante, socialmente conformista. Con la differenza che mentre gli strali dei teorici francesi erano soprattutto indirizzati verso il mezzo televisivo e l’apparato di potere industriale e politico che lo governava, oggi le piattaforme consentono a chiunque di contribuire a rafforzare questa agenda conservatrice e individualistica di sviluppo di simulacri. Basta conoscere e accettare le logiche della piattaforma, che semmai vuole essa proporsi come una sorta di “reale”.

Bisognerebbe allora chiedersi quali siano i legami tra consumo di merci ed esibizione di simulacri di corpi e vite. Come l’io, che si riconosceva e si gratificava nel sistema degli oggetti (ancora Baudrillard), che rimaneva un altro da sé, oggi si costruisca, fingendo (da fingere, modellare) simulacri che rendono l’idea di sè ancora più solipsistica. Si tratta entrambe di risposte che la tecnica offre per rispondere al nichilismo del postmoderno ma con dinamiche estremamente diverse. Le merci piegano il desiderio a una dimensione triviale, eppure alimentandolo, lasciando aperta la porta per un’oltrepassamento di questo stesso desiderio. L’esibizione di sé unisce soggetto e oggetto, con il soggetto che si elabora come oggetto, che si fa simulacro per un’audience indistinta, globalizzata, priva di identità. In questo senso diventa più arduo se non inutile chiedersi se e cosa ci sia dietro. Non si scorge immediatamente un apparato politico di produzione, perché la produzione dei simulacri è curata da questi io che si strutturano proprio grazie ad essa.

Come sottolinea Calzeroni nelle righe finali del saggio, “la socialità nel senso più ampio del termine (e quindi non solo quella supportata dalla Rete) è la dimensione davvero mancante che dobbiamo ricostruire, pezzo per pezzo, in tutti gli ambiti della vita comune: nelle attività scolastiche, nell’assistenza socio-sanitaria, sul territorio, nei programmi di lotta, nelle esperienze affettive, e, per quanto possibile, nei luoghi di lavoro”.

Si tratta di un appello politico vero e proprio, che interroga il senso delle nostre vite nell’epoca digitale. Ma quale politica e quale socialità saranno possibili nel capitalismo digitale?

 

Bibliografia

Jean Baudrillard, Simulacri e impostura. Bestie Beaubourg, apparenze e altri oggetti, a cura di M.G. Brega, Pgreco, 2008 (edizione originale 1994)

Guy Debord, La società dello spettacolo, Bolsena (VT), Massari Editore, 2002. (testo online)

Evgeny Morozov, L’ingenuità della rete, Codice Edizioni, 2011

Giorgio Agamben, L’uso dei corpi. Homo sacer IV,2, Neri Pozza, 2014

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Comments (3)

  1. Condivido in toto. Purtroppo il “solipsismo” dilagante, la patetica autoreferenzialità e la squallida mercificazione dei simulacri autoprodotti, sono conseguenza della mancanza di punti di riferimento CREDIBILI, assodato che l’unica CERTEZZA ormai universale e transgenerazionale è che regnano OVUNQUE MENZOGNA E AVIDITà! Con buona pace di religioni ed ideologie politiche ormai sentite come obsolete o puro strumento di potere per sofisti politicanti, l’unico riferimento vacuo e precario resta quello dell’IO: un IO che è sempre più proiezione fittizia del “NON ESSERE”, piuttosto che dell’ESSERE. Nel 2018 scrissi questo breve testo divulgativo per presentare la mostra Manera VS Gioia: le opere di Enrico Manera e Cleonice Gioia sono tra loro in perfetta simbiosi e rappresentano efficacemente l’evoluzione del linguaggio Pop italiano attraverso due generazioni successive.
    Manera, diretto ed originalissimo continuatore dei codici espressivi nati negli anni ’60, esaspera con ironia pungente le contraddizioni della società dei consumi, rielaborando icone di sapore cinematografico, televisivo e pubblicitario, dal fascino nostalgicamente rétro (come i simboli delle major americane, i divi del cinema o i supereroi dei fumetti che a volte compaiono nelle sue opere), spesso accompagnate da originali scritte sarcastiche (un’altra delle sue cifre distintive).
    Le opere di Gioia diventano, invece, lo specchio attualissimo dell’inarrestabile tendenza all’overdose quotidiana di immagini prodotte e diffuse dai giovani attraverso webcam, tablet e smartphone. Così, ai miti dello Star System si sostituiscono gli scatti dei selfie (spesso arricchiti da scritte e pupazzetti mutuati dal mondo di video games e cartoons), il narcisismo dilagante ed ipertrofico alimentato dal web.
    Entrambi gli artisti, insomma, sintetizzano magistralmente l’essenza dei linguaggi della narcotizzante comunicazione pubblicitaria e del travolgente flusso di news (o fake-news) che ottunde le nostre capacità percettive e cognitive, trascinandoci in una dimensione drogata, schizofrenica, costantemente oscillante tra noia e sovreccitazione, in cui diventa impossibile (o addirittura irrilevante) distinguere il virtuale dal reale, essendo quest’ultimo sempre più fagocitato dal primo.
    Ma, mentre nelle icone di Manera è ancora distinguibile la separazione tra realtà e fiction, tra chi produce l’illusione ed il suo fruitore finale, i volti dei soggetti di Gioia appaiono sospesi in una dimensione sempre più alienata, di cui diventano sia artefici che prodotto finale, da condividere sui social network, nella vana ricerca di qualche attimo di celebrità, autocompiacimento o condivisione di emozioni sempre meno sperimentate in autentici rapporti umani.
    Tutti siamo ormai condizionati dalle tecniche persuasive occulte dell’onnipresente “grande fratello”, che oggi si cela anche negli algoritmi della rete (internet) che analizzano le nostre navigazioni per suggerirci prodotti-servizi da acquistare o addirittura ideologie socio-politico-religiose da seguire.
    Tutti siamo sempre più coinvolti nella produzione di news ed immagini, di menzogne che sembrano verità e di verità che si fondono con le menzogne.
    Regna il caos. Anche i punti di riferimento e gli pseudo-valori del consumismo, del capitalismo e di qualsiasi ideologia o religione sembrano vacillare, cedendo il passo ad un blob culturale globale in continuo accrescimento, che i due autori pongono sotto il nostro sguardo con i loro indefiniti screenshot.
    Al di là del sensazionale impatto estetico, oltre la piacevolezza, l’umorismo e la forza emotiva che riescono a trasmettere, le opere di Manera e Gioia appaiono, quindi, come un’occasione per meditare sulla delirante condizione psico-sociologica del nostro tempo.
    Perché ogni vera opera d’arte ha in sé l’energia per scuotere le nostre coscienze sopite o anestetizzate, per gridare con forza, quando ormai tutti sembrano assuefatti, che “il re è nudo”!
    In conclusione, la loro è, sì, un’arte “Pop” (“popolare”, in quanto usa simboli, immagini e tecniche comunemente diffuse nel linguaggio pubblicitario e propagandistico di massa), ma è alla stesso tempo un’arte anti-sistemica, che propone una visione disincantata della contemporaneità.
    Un’arte irriverente e critica del mondo mass-social-mediatico che sembra in apparenza celebrare e di cui è frutto.
    Oltre il superficiale velo di omologazione ai modelli estetici che essa assimila dal contesto di riferimento, rielaborandoli in chiave poetica, potremmo addirittura definirla un’arte “maieutica” (in senso filosofico socratico), ossia capace di porre (e farci porre) interrogativi su temi esistenziali e socio-politici urgenti, che scivolano sulle meningi del “popolo” addomesticato dal marketing globale e sottomesso ai poteri forti che dettano legge.
    Un’arte, invero, profonda, che mette a nudo le criticità che finge di asseverare, ridicolizzandole e sbattendole cinicamente in faccia all’osservatore nella loro oggettività, disvelando con forza una “verità diversa” che si cela sotto l’apparenza, stimolando il senso critico ed autocritico di chi finalmente si accorge che, come nella nota fiaba di Hans Christian Andersen, “i vestiti nuovi dell’imperatore” sono solo frutto di autosuggestione!

  2. Gentile Dottor Carrano, sono d’accordo con la Sua analisi sulla desoggettivizzazione, il narcisimo digitale e le bolle autoreferenziali favorite dalla rete le quali non ripianano, anzi approfondiscono, la crisi dell’io e la scissione dell’uomo iniziata nell’epoca dell’industrializzazione e della società di massa. Ciò mi fa pensare alla teoria dell’alienazione di Hegel, poi sviluppata, seppur con con conclusioni diverse, da Marx.
    Dissento da Lei quando scrive che l’agenda di gran parte degli influencer, oltre ad essere tranquillizzante e passivizzante, è politicamente conservatrice. I valori del conservatorismo sono ben altri: il senso della comunità, dello scambio e dell’elaborazione attuati anche nei tempi necessari alla sedimentazione – e non nel contingentamento dei tempi per dare la risposta in tempo reale – dell’io conciliato e in armonia con l’altro, che gli contraccambia esperienze e ne impedisce l’alienazione.
    Definirei invece l’agenda di molti influencer come conformista, cioè allineata, alimentata e a sua volta alimentante il mainstream della società occidentale contemporanea, i cui (dis)valori sono il materialismo, la atomizzazione, la ‘liquidezza’ e la velocita’. È il pensiero in base al quale i corpi intermedi e vitali per lo sviluppo e la realizzazione della persona umana, quali la famiglia, il ‘villaggio’ leopardiano, il ‘paese dei saggi ignoranti di montagna dove trovo anche oggi quattro soldi di civiltà’, la comunità devono essere ridotti ai minimi termini, quando non azzerati. È la visione di una società atomizzata in unità individuali spersonalizzate, apolidi, sradicate, senza identità culturale, linguistica, nazionale, religiosa, di genere. È la società’ ‘non-sociale’ in cui gli individui-atomi devono essere intercambiabili come i mattoncini della Lego, mobili geograficamente, flessibili nella disponibilità ad accettare compromessi, comunicanti attraverso il vocabolario essenziale dell’international English (lingua ben diversa e assai più povera dell’Inglese di Shakespeare). È la società darwiniana in cui l’individuo è ridotto ad un conto Profitti & Perdite, in cui l’anziano generatore di perdite può essere abbandonato, in cui il riconoscimento deriva dal grado di accumulazione della ricchezza materiale e dalla notorietà. È la società senza Dio, in cui l’atto stesso di nominare Dio in pubblico attira sguardi di stupore, quando non di ostilità ammantata dal velo ipocrita del politicamente corretto.
    Speriamo che la disgrazia del Coronavirus sia almeno l’occasione per riprendere i giusti ritmi ‘lenti’, di riscoprire il senso delle cose importanti, della famiglia, della comunità, dell’essere parte del Creato e di un disegno superiore in cui non siamo pedine intercambiabili ma pezzi unici e insostituibili.

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