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Dove si nasconde il valore?

In Italia “Capitalismo senza capitale” è meno un titolo ad effetto che una costatazione.

Ma nel libro di Jonathan Haskel e Stian Westlake non si parla di capitalisti di relazione nostrani, abili a scalare e sbranare a debito le imprese, quanto di valore degli intangibili. Tema non nuovo, perché sono almeno venti anni che si parla di quantificazione dei beni immateriali di imprese e organizzazioni, eppure la lettura del libro mostra come ancora oggi l’intero ambito resta sfumato, indistinto, pur esplorato ma con esiti sfuggenti, per quanto tutti si rendano conto che il successo di qualsiasi organizzazione non passa attraverso capannoni o tecnologie all’avanguardia se non vi sono del personale e un’organizzazione capace di trarre valore da essi.

 

La materia oscura dell’economia contemporanea

Quando la stragrande maggioranza delle persone fa un’acquisto o una scelta (anche elettorale) non possiede le informazioni e le competenze tecniche sufficienti per giudicare fattualmente il prodotto.

Da una valigia a un cellulare, da un paio di scarpe a un computer, sappiamo oramai bene che quello che guida l’acquisto sono elementi non tangibili, quali la reputazione del marchio, il suo stile visivo, il sistema di associazioni che attiva, al limite l’elemento quantificatorio del prezzo, che pure è un vettore simbolico. In una società dalla manualità perduta, dove tanti giovani non hanno mai conosciuto un calzolaio, anche quando valutiamo una scarpa dal tipo di suola o un pc o un telefonino dal suo processore o dalla sua fotocamera di certo non sapremmo spiegare le effettive componenti tecniche e le implicazioni di parametri fattuali che usiamo.

In realtà siamo immersi non più nel sistema degli oggetti di cui parlava Baudrillard, ma in un ecosistema cognitivo che reinterpreta costantemente i significanti oggettuali. Tutta questa produzione di idee, messaggi e contestualizzazioni è a sua volta prodotta e diffusa da milioni di lavoratori dell’intangibile distribuiti in tutto il mondo, che vanno dai consulenti di qualsiasi ambito ai designer, dagli studiosi ai programmatori fino alle figure di cura del benessere delle persone. Figure professionali che sviluppano i settori economici della comunicazione, della creatività e della conoscenza che Robert Reich definì simbolic analysts, affermando stentoreo che “In decades to come, nations with the highest percentages of their working populations able to do symbolic-analytic tasks will have the highest standard of living and be the most competitive internationally.

I fatti stanno smentendo l’autore di “Saving Capitalism” e le economie basate su queste catene del valore simboliche non garantiscono per nulla, come qualche irredento ottimista potrebbe supporre, condizioni di vita migliori e stipendi più alti alla maggioranza di questi lavoratori, anche perché le piattaforme della gig economy consentono di affidare tante mansioni intangibili a persone residenti nei paesi dove esse costano molto poco. Come da sempre ricorda Sergio Bologna, viviamo il paradosso di una tanto decantata economia della conoscenza fondata su una estesa precarizzazione dei suoi operatori.

La vecchia catena del valore che poneva quasi a valle del processo produttivo le funzioni simboliche della comunicazione e del marketing va del tutto ripensata e dovrebbe essere scissa e analizzata in parallelo nelle sue due macrocomponenti, evidenziando come ogni fase della produzione materiale sussumi in sè molte funzioni di ordine immateriale. In anticipo rispetto alla catena del valore tangibile delle imprese, da tempo uscita dalle mura aziendali e oggi distribuite a livello globale con decine se non centinaia di subfornitori di tante nazionalità, ancor di più la catena del valore intangibile è stata da sempre in un rapporto reticolare e precario con l’impresa o con l’organizzazione servita, con contratti che legavano più o meno stabilmente questi lavoratori simbolici alle varie committenze. E tuttavia questa componente intangibile non viene quasi mai valorizzata, quantificata e messa a bilancio per il suo reale impatto. Come la materia oscura che l’astrofisica ha dimostrato avvolgere quanto dell’universo riusciamo oggi a rilevare, costituendone forse il 90%, così questa materia oscura dell’intangibile avvolge ogni processo economico contemporaneo senza che se ne riesca a definire esattamente gli effetti e il peso economico.

Una parte di questa conoscenza non viene fatturata e non entra nei registri statistici nazionali, vuoi perché tanti lavoratori della conoscenza non hanno un potere contrattuale tale da farsi pagare adeguatamente il loro contributo simbolico, vuoi perché una parte di questo sapere è di tipo implicito e storicamente non considerato fatturabile: pensiamo, solo come esempio immediato, a un concetto tanto attuale quanto sfuggente quale è la reputazione.

Come si evidenzia nel libro di Haskel e Westlake, se uno Stato costruisce un nuovo museo questa spesa va nel PIL; se lo stesso Stato compra un Tiziano per metterlo nel museo (e magari garantirne la fruizione gratuita) questa transazione non viene registrata nella ricchezza nazionale: valutiamo la società della conoscenza con gli strumenti della società del vapore e delle ferriere.

In termini finanziari si resta dunque al vecchio interrogativo: come finanziare e valutare qualcosa che non è liquidabile?

Le quattro caratteristiche dei beni intangibili che gli autori individuano sono esattamente gli elementi che nessun addetto al credito prenderebbe in considerazione per valutare un finanziamento:

  • Sunkness, ovvero irrecuperabilità dei costi di sviluppo e mantenimento di questi beni
  • Synergy, ovvero collaboratività e interoperabilità di servizi e prodotti intangibili
  • Spillover, intesa come condivisibilità (semi) libera di questi beni al fine di diffonderne l’adozione
  • Scalable, intesa come replicabilità a costo marginale zero

Conoscenza, sviluppo, disuguglianze

Si tratta di quattro aspetti che consentono di inquadrare prismaticamente alcuni attributi dei beni intangibili, ma che lasciano elusa la questione centrale del libro: dove è andato e come rilevare l’incremento esponenziale di produttività e di ricchezza prodotto negli ultimi decenni dalla messa a lavoro di conoscenza, relazioni e relazionalità?

Il premio Nobel 2018 a Paul Romer (nella foto) e a William Nordhaus indica l’urgenza di mettere in pratica modelli di crescita capaci di far dialogare l’economia della conoscenza e la sua sostenibilità sociale e ambientale.

A fronte della cosiddetta stagnazione secolare gli autori evidenziano l’esempio dei risultati del PIL statunitense negli ultimi decenni, non entusiasmanti se comparati con l’esplosione dei profitti delle imprese USA nello stesso periodo. La risposta che danno gli autori vede nella crescita degli intangibili e delle economie fondate su di essi la spiegazione di questo paradosso, citando gli studi di Paul Romer e la sua New Growth Theory e ponendo una questione urgente per tanti paesi ad economia matura: quale è la fonte della crescita economica? Bastano nuove fabbriche aperte con investimenti diretti esteri e nuove autostrade a garantire una crescita sostenibile? Secondo alcuni studiosi il capitale fisico non spiega che un terzo delle variazioni del reddito pro-capite nei paesi. Gli altri due terzi vengono spiegati da un concetto ancora alquanto indistinto quale il Total Factor Productivity. La New Growth Theory evidenzia la possibilità di prevedere e sostenere la crescita economica attraverso i cambiamenti tecnologici endogeni, intesi anche come ideatività e creatività prodotte da coloro che lavorano con la conoscenza. Ovviamente questo ecosistema di conoscenza si basa su internet, di cui è banale evidenziare l’impatto sulla produttività di singoli e imprese. Ma vi è un’effetto indiretto del potere abilitante di internet: quanto più saperi un tempo esclusiva di piccoli gruppi diventano alla portata di tutti (spillovers), tanto più le attività di quei gruppi di professionisti perdono valore, anche proprio dal punto di vista monetario. Attività intellettuali un tempo prestigiose come la traduzione oggi sono oggettivamente meno faticose e più, genericamente, accessibili, grazie all’arrivo di Google Traslate, Wordreference o Bab.la, come anche alla diffusione di piattaforme di gig economy come Upwork che consentono l’accesso ai mercati ricchi di migliaia di traduttori (e di tanti altri lavoratori della conoscenza) abitanti in paesi poveri. Questo comporta un abbassamento degli onorari, e dunque il paradosso, già rilevato, dell’economia della conoscenza che aumenta la precarietà e dunque spesso la povertà dei suoi operatori, incrementando le disuguaglianze sociali.

Nell’economia della conoscenza basata sulle piattaforme pochi stravincono e a quasi tutti gli altri restano i Like e i Retweet di consolazione.

In una società sempre più polarizzata la questione politica che si apre non riguarda l’indubbio incremento della produttività dovuta agli spillovers dei beni intangibili o alla non-rivalità delle idee, ma l’appropriazione di questo valore prodotto e diffuso nella società in maniera spesso inconsapevole e di certo quasi mai valorizzata non solo sul lato contabile, ma anche su quella della ripartizione sociale del lavoro collettivo immateriale. È il tema di cui tratta anche il recentissimo testo di Marianna Mazzucato The Value of Everything, ma sarà oggetto di una riflessione a parte.

L’Italia intangibile (quasi impalpabile)

Ora ci si potrebbe chiedere dove si trova l’Italia in questo scenario. Come è facile prevedere si trova male. A pagina 108 Haskel and Westlake mostrano, tra l’altro, come dopo la crisi del 2008 l’Italia, assieme alla Finlandia, registri i peggiori risultati in termini di crescita della produttività multifattoriale e crescita dei servizi capitali intangibili. Altri grafici a pagina 33 e 34 del testo mostrano la scarsa performance del nostro paese in termini di investimenti in beni intangibili tra il 1999 e il 2013, seguita solo dalla Spagna. Ancora: a pagina 106 si evidenzia come l’Italia sia stata tra il 2001 e il 2007, quindi prima della crisi, all’ultimo posto per quota di investimenti intangibili sul totale degli investimenti nella manifattura. Dopo la crisi del 2008 le imprese italiane hanno tagliato drasticamente gli investimenti in intangibili, perdendo ancora di più in competitività.

In realtà non esiste una equazione lineare tra produzione intangibile, crescita economica e riequilibrio sociale. L’Italia semmai vive inoltre più di altri paesi un problema di squilibrio tra offerta di competenze cognitive ed effettiva domanda del sistema produttivo nazionale. Come sottolinea Giuseppe Berta siamo di fronte a “uno scarto grave e crescente fra l’intelligenza collettiva presente nel lavoro giovanile e le possibilità d’impiego che esso può trovare. Si tratta di una questione che è presente in tutta la società occidentale e che riguarda lo spreco di risorse attuato dai modi di organizzazione dell’economia.

Che cosa è un bene intangibile

Gli autori di Capitalism without Capital individuano tre categorie generali di beni intangibili: l’informazione computerizzata, i beni innovativi, le competenze economiche. Mentre le prime due categorie sono tanto tutelate legalmente quanto registrate nelle contabilità aziendali, nel terzo ambito, quello delle competenze, ritroviamo ambiti come la formazione, le ricerche di mercato e il branding, la riorganizzazione dei processi aziendali (consulenza) che non sono tenute in considerazione nella stesura dei bilanci. Quanto vale un’impresa dopo un percorso di formazione interna? Quanto essa vale dopo una riorganizzazione interna che ne migliora produttività e magari anche il clima? A questi quesiti oggi è impossibile rispondere partendo dai bilanci.

Pensare che l’unica forma di bene intangibile siano i marchi e i brevetti (tra l’altro chiaramente rappresentati nei bilanci aziendali sotto la voce di asset non materiali) significa non comprende che la grande crescita dell’intangibile ha riguardato il mondo delle tecnologie sociali, ovvero la capacità di introdurre innovazioni organizzative nei gruppi sociali che ne incrementano la produttività sotto varie forme. In questo senso il modello produttivo kanban è una tecnologia, capace di “mettere al lavoro” il linguaggio e il sapere implicito all’interno all’interno di un gruppo di lavoratori. Come già ricordava nel 1999 Christian Marazzi ne Il posto dei calzini, la conoscenza tacita, competenze interiorizzate e implicite, quasi mai riconosciute e quantificate, fanno spesso l’efficienza di un’organizzazione o di una impresa e dunque la sua identità intangibile e il suo valore effettivo, ben oltre i numeri di un bilancio. Queste tecnologie organizzative, basate a volte su un sapere implicito e sociale introiettato dalle persone, consente di ridurre di molto i costi di coordinamento e di mettere al lavoro le attitudini personali anche per la soluzione di problemi. Si tratta del segreto della crescita nei decenni scorsi di tante imprese familiari italiane che grazie a fiducia, comunicazione e processi informali sono riuscite a competere anche in assenza di capitali e di investimenti significativi in beni capitali.

Il patrimonio culturale e relazionale delle persone, appreso all’esterno all’interno dell’organizzazione da cui traggono di che vivere, è eminentemente un costo irrecuperabile. La persona che entra in un’organizzazione la arricchisce di questo suo patrimonio e quando la abbandona si porta con sè tutto quanto ha imparato, non solo in termini di competenze tecniche e pratiche, ma anche in termini di appropriatezza sociale, efficacia relazionale e organizzativa, cultura aziendale in genere e molto altro.

Tutti questi asset mobili e in carne ed ossa non vengono registrati contabilmente né in ingresso né in uscita. Solo a livello di alta direzione si può sapere quando la perdita di quel manager costa o costerebbbe al datore di lavoro, magari come perdita di valore di borsa in caso di addio o decesso.

In Italia la Brembo resta da quasi 20 anni se non l’unico di certo il miglior riferimento sul tema del Bilancio del capitale intellettuale.

Il valore delle relazioni

Entriamo nello specifico di un caso precipuo di bene intangibile, le attività di relazioni pubbliche e di comunicazione. Esse sono sempre sunk, irrecuperabili in termini di costi, basate su inevitabili spillovers e sulla ricerca costante di sinergie. Le relazioni personali però non sono facilmente scalabili. Le relazioni e le competenze effettive soggettive non sono fungibili né cumulabili e dunque si tratta di un ambito labor-intensive.

Ad esempio: che valore ha, nell’epoca della interconnessione continua e pervasiva delle persone, vantare tremila o quattromila contatti su Facebook o LinkedIn? Quante centinaia di biglietti da visita accumuliamo ogni anno? I nostri smartphones hanno oggi rubriche pressoché illimitate: quanti sono davvero pregnanti e quanti di questi contatti sono pronti ad ascoltarci con interesse?

Il 2018 in Italia potrebbe essere ricordato anche come l’anno della apoteosi (e forse dell’inizio del declino) della influencer più celebre, la donna-brand Chiara Ferragni. Ma farsi trascinare in questa sfida quantitativa per un professionista della comunicazione finirebbe per risultare fuorviante quanto frustrante. L’influencer è un broadcaster dei social media, non un soggetto che vuole costruire relazioni durature, reciproche e pregnanti. Il relatore pubblico è per definizione l’esatto contrario di un broadcaster che accumula o compra follower e fan da propinare al media planner in cerca di nuove audience. E, secondo chi scrive, un buon relatore pubblico non vuole solo “connecting the dots”, ma anche sviluppare sapere e idee capaci di dare un nuovo senso alle relazioni. In generale, non sei un buon PR se non arricchisci le relazioni che intendi sviluppare o rilanciare. Se non lasci un valore aggiunto, in termini di contenuti, di conoscenze, di idee, di cambiamento di atteggiamento, non hai fatto bene il tuo mestiere.

Eppure a quasi un secolo dalla nascita, tale professione resta ancora in un limbo per quanto riguarda il suo valore e la sua monetizzabilità. Nel corso dell’ultima edizione del simposio di Bled Toni Muzi Falconi ha presentato un ricerca dal tema “How Big is PR (and why it matters)”. Attraverso un’analisi conservativa dei fatturati e degli onorari di tutti i professionisti che si occupano del settore a livello globale, Muzi Falconi ha stimato l’impatto economico e non delle attività di PR in tra i 250 e i 575 miliardi di dollari su scala globale.

Alla luce degli spunti precedenti mi permetto di suggerire a Toni di essere più ambizioso e di domandarsi quanto è grande la massa oscura o il Total Factor Productivity delle PR.

Come sa bene anche Toni, Il valore delle PR non può essere ridotto al fatturato del settore e degli addetti diretti e indiretti, perché l’impatto delle PR è ben più ampio del fatturato del settore. Quali sono gli effetti non monetizzabili o differiti? Oggi vi sono nuovi strumenti di data analytics per inferire e stimare il contributo di diverse variabil e delle diverse attività di comunicazione sul processo di persuasione all’acquisto o al voto, sulla valutazione di un marchio o anche sul valore di borsa di un’impresa.

Storicamente una serie di voci già possono essere poste a bilancio, quali il valore del marchio, l’avviamento, le vendite a margini incrementati rispetto alla media del settore. D’altra parte le conseguenze di PR negative possono manifestarsi a bilancio attraverso un incremento delle spese legali dovute a errori di comunicazione e/o il calo delle vendite. Ma oggi, grazie a modelli di analisi multivariata estremamente complessi, si potrebbe davvero iniziare a cogliere almeno una parte di questa “massa oscura” che storicamente tanto impatta nelle attività di PR. Un percorso di ricerca potrebbe partire da piccoli progetti per studiarne l’impatto non più in termini di mera conta delle uscite media o di sondaggi prima e dopo, ma per valutarne tutte le correlazioni tra le variabili (in una relazione anche il relatore è condizionato dal contesto e cambia nel tempo il suo approccio) e le propagazioni delle singole relazioni sviluppate. Il Total Factor Productivity delle PR potrebbe essere un orizzonte di ricerca ricco di scoperte e sorprese.

Chi finanza la società del valore intangibile?

L’ultimo capitolo del libro individua nello Stato l’unico soggetto che può rispondere a una serie di questioni aperte, quali la proprietà dei beni intangibili comuni, il finanziamento delle imprese e dei percorsi di ricerca che creano beni intangibili non liquidabili, la tutela della non-rivalità delle idee, la lotta alle ineguaglianze che i beni intangibili finiscono per incrementare.

Riprendendo alcune argomentazioni da Lo Stato Imprenditore di Marianna Mazzucato, gli autori ricordano che in Inghilterra non meno di un terzo degli investimenti in ricerca e sviluppo dipende dallo Stato perché sono attività troppo rischiose per le imprese, che preferiscono poi fruire poi delle soluzioni che si dimostrano vincenti. Un credito sulle imposte per investimenti capitali in imprese che sviluppano beni intangibili è la proposta che viene avanzata per incentivare gli investimenti privati. Anche le esperienze di Singapore con la Productivity e Innovation Tax Credit vengono citate, come anche la possibilità per lo Stato di acquisire beni intangibili non ancora testati sul mercato al fine di finanziarne le fasi di sviluppo e di adozione.

Una modesta proposta potrebbe partire da un approfondimento della definizione delle due filiere del valore parallele che abbiamo descritto all’inizio, ipotizzando di destinare una parte dell’imposta sul valore aggiunto relativa a ognuna delle fasi intangibili del processo produttivo a finanziare investimenti nel campo dei beni intangibili e del sostegno a quelle che il libro chiama le soft infrastructures alla base del loro sviluppo, ovvero le norme, i valori e principi civici, il capitale sociale del territorio o del paese che consente alle imprese che operano in questo scenario di condividere, collaborare, sviluppare alleanze e strategie congiunte senza particolari formalismi ma in base a una corretta relazione reciproca. Una specie di IVA di scopo, indirizzata a finanziare lo sviluppo dei beni intangibili sia in termini di ricerca di base, sia in termini di capitale sociale.

Che tanti studiosi, in un’epoca di capitalismo cognitivo transnazionale, di smaterializzazione dell’esperienza, di sovranismo corporativo e di frammentazione dei percorsi di vita e di lavoro, vedano nel tanto vituperato Stato, magari ancora tanto analogico, l’unica àncora per evitare che i beni intangibili diventino un ulteriore elemento di polarizzazione della società, la dice lunga sui limiti di tutte le altre soluzioni finora proposte per superare tale concetto, forse il più importante elaborato dalla modernità assieme a quello di soggetto.

Tassare (meglio) l’intangibile per meglio svilupparlo e ridurre le ineguaglianze prodotte dal digitale potrebbe essere un punto programmatico per una politica sociale consapevole del mondo in cui vive.

 

Bibliografia

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Toni Muzi Falconi, Frank Ovaitt, How big is PR? And why does it matter?, 2018
http://www.bledcom.com/sites/default/files/040_Session%204A_Muzi%20Falconi_part%201.pdf

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Sergio Bologna, Lavoro autonomo e capitalismo delle piattaforme, 2017, https://www.sinistrainrete.info/lavoro-e-sindacato/10855-sergio-bologna-lavoro-autonomo-e-capitalismo-delle-piattaforme.html

 

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Christian Marazzi, Il posto dei calzini, Bollati Boringhieri, 1999,

https://www.juragentium.org/books/it/marazzi.htm

 

Jean Baudrillard, Il sistema degli oggetti, 1968, http://ebookbit.com/book?k=Il+sistema+degli+oggetti&isbn=9788845254062&lang=it&source=firebaseapp.com#pdf

 

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