Un mondo nuovo, al contempo remoto e usuale, sta emergendo attraverso le infinite declinazioni del codice e le applicazioni del digitale. Un mondo dove nulla è già dato perché il dato cambia e si ricombina incessantemente. Un mondo dove cambierà la condizione umana, dal momento che non solo esperiremo sempre più il mondo come dati e interfacce, ma soprattutto saranno sempre più algoritmi e codici a guidare le scelte di miliardi di persone connesse.
Come dice Alex Pentland citato da Cosimo Accoto: “usiamo concetti analogici in un mondo digitale”. Ecco dunque che la filosofia digitale non è lo studio delle manifestazioni del digitale, come la sociologia lo è dei fenomeni sociali e la etnologia delle popolazioni, ma si pone l’obiettivo di sviluppare nuovi concetti capaci di cogliere, spiegare e, possibilmente, incidere sul processo di digitalizzazione del mondo.
Siamo dunque in una fase in cui i concetti tradizionali dimostrano i loro limiti a fronte di una trasformazione dello stesso loro orizzonte di applicazione, nuovi concetti stentano a venire definiti, anche perché non si conosce l’esito degli svariati indirizzi della digitalizzazione e perché vi è, anche, un problema dromologico, ovvero tale è la velocità della trasformazione che le poche menti finora impegnate nella sua analisi non riescono a stare al passo. Ma quella di cui oggi si sente l’urgenza è proprio una riflessione critica. Una delle istanze di partenza del denso “Il mondo dato” di Cosimo Accoto è la volontà di “capire la struttura filosofica del capitalismo informazionale”. Per quanto siano oramai molti i testi di critica degli effetti sulle persone e sulla società della digitalizzazione, un approccio analitico e speculativo al codice, inteso sia nella comprensione della sua ontologia e delle sue possibili teleologie, è appena agli esordi del suo percorso.
Di fronte a questo scenario mi soffermo su alcune alcune questioni che pone Accoto, evidenziando come la trasformazione digitale tenda ad erodere i presupposti e la utilizzabilità di alcuni concetti classici della tradizione filosofica occidentale.
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Il labirinto dei dati
“ (…) questo grandissimo libro, che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’Universo) (…) è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto.” (Il Saggiatore, 1623)
Se Galileo Galilei vedeva il mondo come matematica e geometria, oggi noi conosciamo e prevediamo il mondo sotto forma di dati e codici. Alla scoperta scientifica delle leggi della natura considerate immutabili subentra la costruzione di una realtà basata su diversi software che possono utilizzare dati diversi e interpretarli diversamente: “un software può trasformare una stanza da letto in una unità ospedaliera personalizzata”, evidenzia Accoto, e un software può anche costruire infinite bolle informative e di intrattenimento calibrate sull’analisi delle scelte pregresse e imminenti del suo fruitore. Per certi versi si realizza nel mondo ordinario lo stesso mutamento radicale che nella fisica si è prodotto quando si è passati dall’ordinato mondo newtoniano al principio di indeteminazione alla base della fisica quantistica.
Il dato dunque non è solo un elemento statico, finito, ma è anche in contemporanea un processo perché sempre nuovi possono essere le modalità per rilevarlo, per rappresentarlo, per analizzarlo, per utilizzarlo. Se i dati vengono spesso proposti in interfacce “user-friedly”, essi comportano sempre una opacità perché restano quasi sempre opache le modalità di acquisizione e di processamento. Di noi stessi oggi non sappiamo quanti dati esistono, come essi vengono prodotti e per cosa vengono utilizzati. Il nostro corpo digitale produce dati diversi a seconda dei codici, dei campi, degli algoritmi da cui viene attraversato.
L’ideologia predominante del capitalismo informazionale propone i dati e gli algoritmi come neutrali e oggettivi, quando invece essi sono sempre frutto di un processo tecnico e sociale, che impatta sulle vite delle persone e determina le loro scelte. In questo senso dato e algoritmo diventano centrali anche nella vita politica, o meglio nella biopolitica, perché essi incidono costantemente non solo sulle scelte strumentali, ma sul vissuto della persona e sulla sua percezione di sé. La coscienza personale e sociale è costruita oggi tanto socialmente quanto informazionalmente, a maggior ragione quando una parte dell’umanità vive una fetta consistente della sua socialità attraverso ambienti relazionali digitali. Se storicamente la questione filosofica verteva sull’interpretazione del mondo, nel momento in cui il mondo dei dati e degli algoritmi è gestibile da determinate entità commerciali si pone una nuova questione: chi può verificare in ultima istanza dati e algoritmi che rappresentano il mondo e sulla base di quali principi.
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Il velo di Maya digitale
L’interpretazione tradizionale del mondo ha visto distinti e spesso contrapposti un soggetto e un oggetto. Non vi è spazio per ripercorrere tutte le modalità in cui si è presentata questa diade alla base del pensiero filosofico occidentale ma dalle forme più ingenue di realismo alle forme più scaltre di idealismo (inarrivabile l’incipit del Die Welt: “Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch’egli non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra; che il mondo da cui è circondato non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso”) vi è sempre stato qualcosa di opposto o proiettato dal soggetto al suo esterno, un Gegenstaend in tedesco, dove “l’oggetto” è appunto “l’opposto”: il mondo si dà nella sua alterità rispetto al soggetto. Al contrario nel digitale non viviamo più solo un’esperienza meramente oppositiva o dialettica con il mondo, ma anche immersiva, capace di oltrepassare questa classica diade. In questo flusso costante di dati di cui siamo produttori e fruitori veniamo rilevati da sensori non umani, i quali spesso ci chiedono di inter(re)agire. I video a realtà virtuale e immersivi a 360° con le relative apparecchiature come Oculus rift già presentano una nuova modalità di intrattenimento che presto si diffonderà anche agli ambiti professionali. Questa dimensione immersiva, in cui, per la prima volta volta, le persone sono oggetto di rilevazione, valutazione e giudizio da parte di macchine algoritmiche, costituisce una novità nella storia umana.
Si potrebbe dire che le interfacce tendono a levigare il mondo, a semplificarne e a eliminarne la complessità, la contraddittorietà, la conflittualità. Gli algoritmi tendono a tessere un“velo di Maya” digitale: un mondo immateriale, dove le problematiche connesse alla materialità del prodotto (l’usura di un disco musicale, lo smarrimento di un biglietto aereo o ferroviario, la fatica e le condizioni reali di produttori o distributori) tendono a sparire o a essere tralasciate.
Un mondo meno materiale può diventare un mondo meno conflittuale e dunque più omologato e conformista?
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La coscienza dell’algoritmo
In un articolo fondamentale del 1974 Thomas Nagel si chiedeva “Che cosa si prova a essere un pipistrello?” Contro i riduzionisti Nagel poneva la questione della coscienza come problema insormontabile come anche quello dell’impossibilità di conoscere cosa prova un essere dotato di apparati sensori radicalmente diversi dai nostri o privi del nostro sistema simbolico.
Se chiedersi cosa si prova ad essere una macchina algoritmica è un’analogia forzata, non credo lo sia porsi il problema dell’interazione con un mondo che sarà popolato sempre più da codici e processi che simuleranno una coscienza. Una macchina semplice come una chatbot può già oggi, nelle versioni più evolute, simulare offesa, sollecitudine, insofferenza, pazienza, ecc.
Vero è che domandarsi se un sottomarino sa nuotare è una domanda malposta, ma noi non interagiamo con i sottomarini, mentre sempre più spesso interagiremo con macchine algoritmiche che simuleranno una coscienza e queste relazioni avverranno sempre più in età prescolare. Ecco: chiedersi se e come cambierà la consapevolezza delle persone e le loro abilità relazionali in un mondo dove interagiranno sempre più con agenti non umani non è una domanda peregrina.
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Il superamento del soggetto?
Nelle società moderne liberali, la costruzione sociale della soggettività si basa sull’assunto dell’individualità e su un presupposto di libertà che guida le sue azioni.
In un mondo costruito su quella che Antoniette Rouvroy chiama la governamentalità algoritmica, questi due classici concetti dell’età moderna tendono a indebolirsi se non a svanire. La scissione del concetto classico di individuo in corpo e mente digitali, consente di dimenticare nell’analisi la coscienza del soggetto, definisce la dividualità come un produttrice di profili digitalizzabili composti da migliaia di dati raccolti con modalità e sensori diversi temporaneamente assembleati e riassemblati in base alle necessità di analisi, archiviabili e riutilizzabili indefinitivamente e senza controlli.
La libertà delle scelte sarà sempre più prevista in percorsi predefiniti. Oggi la frontiera del marketing è la customer analytics, analisi predittive fondate su un data behaviourism, come lo chiama la Rouvroy, orientato ad anticipare, formattare e selezionare il futuro potenziale dei nostri corpi e delle nostre menti, almeno come essi vengono rappresentati digitalmente: “l’estrazione di dati e le tecniche di profilaggio seducono le industrie e le istituzioni governative con la promessa del tempo reale e del rilevamento automatico, dunque presumibilmente “oggettivo”, nonché dell’ordinamento e della valutazione a lungo termine degli invisibili rischi e opportunità portati dagli individui”, ha detto la Rouvroy nella conferenza “Transmediale – All Watched Over by Algorithms”. Il processo di codifica digitale della vita sociale rischia a scindere gli individui in dividualità, necessarie alla produzione incessante di dati che alimentano l’economia e la riproduzione socio-culturale, e al controllo attraverso le tecniche di analisi dei Big Data.
Qualche web marketing guru pronto a proporre la sua ricetta iperpragmatica potrebbe tacciare queste riflessioni come mere ruminazioni teoriche. Ma proprio oggi la copertina dell’Economist dimostra che quel che fino a ieri era un ristretto dibattito accademico oggi diventa oggetto di dibattito pubblico globale. Perché, come diceva Hegel citato da Accoto “”La filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero” e per comprendere consapevolemente il proprio tempo non esiste (ancora?) alcun algoritmo cui affidarsi.
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Riferimenti bibliografici
Gilles Deleuze, Postscript on the Societies of Control, 1992
(2016) The Fourth Revolution How the Infosphere Is Reshaping Human Reality. Oxford University Press, USA
Antoniette Rouvroy, The end(s) of critique : data-behaviourism vs. due-process., 2012
Lev Manovich, Software takes Command, 2013
Paul Virilio, The Information Bomb. London: Verso, 2000
Ah ah, Biagio, bellissima recensione di un testo sicuramente interessante, ma fuori dalla mia portata – quando ho letto “dall’ordinato mondo newtoniano al principio di indeteminazione alla base della fisica quantistica” mi sono reso conto che io sono due mondi indietro, la mia capacità di comprensione si è fermata a Newton, per me già la fisica quantistica è un mistero della fede :-). A parte gli scherzi, mi hai convinto: affronterò l’arduo impegno, e ti saprò dire se ci avrò capito qualcosa…
Il libro di Cosimo”, si legge nella prefazione di Alex Pentland, “descrive come la nostra cultura e i concetti che usiamo per comprenderla cambieranno in ragione di un mondo popolato da codici, sensori, dati, oggetti e piattaforme supportati da intelligenza computazionale.
Il postmodernismo, che Lyotard fa coincidere con la fine delle Grandi narrazioni , fu il tentativo un po compiaciuto di una teoria un po complicata della terza rivoluzione industriale (cos mi sembrava vagamente negli anni 80). Quello fu un tentativo un po goffo e un po troppo compiaciuto. Ad oggi non ci sembra che sia emersa una filosofia (e forse neanche una scienza economica) in grado di trattare in modo efficace i temi della quarta rivoluzione industriale. Ci auguriamo che, tra l eccessiva semplificazione del marxismo e il ruolo della grande narrazione e l eccessiva complicatezza del postmodernismo (con la disgregazione di tutte le narrazioni), la via filosofica che si stia intraprendendo sia quella mediana. In questa chiave suggerisco di leggere e discutere i tentativi laboriosi e interessanti, come quelli fatti da Cosimo Accoto, nel suo libro.