Guardo per un secondo fisso lo spioncino e la porta elettronica si apre lentamente.
Dopo una giornata sfiancante è bello risparmiarsi la fatica di cercare le chiavi, addirittura poter evitare di portarsele appresso quando si esce, magari molto presto la mattina. La chiave della mia casa sono i miei occhi. Meglio: il mio iride.
E poi lo sanno tutti che sono un distratto. Non so quante volte ho lasciato in giro le chiavi della macchina, quelle di casa in ufficio, il portafoglio a casa, i cellulari nella sala dove avevo avuto qualche riunione. Ecco perché quando ho cambiato casa ho preteso una che avesse tutte le ultime apparecchiature della domotica, una casa intelligente, “smart living” diceva lo slogan pubblicitario. Non lo so se sia smart, certo però che è comodo.
Prima ogni volta che uscivo di casa per un viaggio dovevo verificare più volte se avevo addosso la santa trinità della tranquillità domestica: chiavi, portafogli e cellulari. Perdevo minuti nel tastarmi le tasche della giacca e del cappotto, oppure nel controllare in valigetta, oppure, ancora, a cercare per casa un cellulare, il portafoglio o, peggio, un documento di identità. Oggi non più, anche quando esco negli orari più antimeridiani, ancora stordito dal risveglio e dalla stanchezza della giornata di lavoro precedente, il monitor interno della porta elettronica mi ricorda dove stanno le cose. La voce guida mi indica cosa portare in viaggio: “Oggi andrai in un paese extra Shengen: ti se ricordato il passaporto? L’ultima volta lo hai riposto nel secondo cassetto del mobiletto in stanza da letto”. “Il cellulare privato è sul tavolino in salotto”. “Il cellulare aziendale sul quale è squillata la sveglia lo hai portato con te in bagno”. “Il taxi arriverà tra sedici minuti… tra dieci minuti, tra cinque minuti, tra due minuti,… la telecamera esterna ha rilevato l’arrivo del taxi che ti aspetta all’ingresso”
Sono avviluppato in un flusso di informazioni che gli oggetti si scambiano per rendermi la mia vita meno ansiosa e satura di inezie da seguire. A volte forse mi sono sentito eterodiretto da questi messaggi, ma poi sempre più mi accorgo di quante attività ripetitive, inessenziali, meccaniche, assorbivano le mie energie mentali. Con l’internet of things gli oggetti di casa mi parlano, se voglio io, e li zittisco quando voglio.
Ricordo anni fa, appena divorziato: rientrare in casa mi metteva tristezza e oppressione, la desolazione di oggetti muti e indifferenti, su cui lo sguardo scivolava indifferente e indispettito, se non rabbioso, quando ancora credevo di aver subito un’ingiustizia e non una liberazione. Girando per casa perso a cercare le cose, mi sentivo orfano di un dialogo che pure negli ultimi mesi era diventato carico di stizza e di risentimento reciproci. Non sapevo dove trovare questa cosa e quest’altra, mi facevo sopraffare dalla rabbia quando intere ore passavano a cercare documenti e cose. Le odiavo, le odiavo perché esse, con il loro nascondersi, mi ricordavano chi riusciva a farmele trovare e sapeva sempre dove si trovavano.
Per quanto possa sembrare incredibile, non ho mai conosciuto le donne delle pulizie degli ultimi due appartamenti. Quasi ogni giorno sono in viaggio, e quando non lo faccio devo riordinare e pianificare il lavoro dell’ufficio: dalle 7 del mattino alle 9 di sera questa donna ha dunque tanto tempo per pulire e riassettare la casa. Nel fine settimana spesso sono assente e comunque lei (o loro?) hanno l’ordine di non venire.
Nel penultimo appartamento mi irritava scoprire le tracce del passaggio della domestica. Le tazze riposte al loro posto, quando io preferisco averne una sempre vicino al pc. La macchinetta del caffé smontata, sciacquata e messa ad asciugare nella rastrelliera, mentre io preferisco lasciarla vuota sulla piastra spenta, perché così l’alluminio si impregna del profumo del caffè. Il letto rifatto perfettamente, che mi ricordava troppo le tante camere di albergo che sono costretto ad attraversare ogni mese. Ogni scelta e ogni oggetto veniva riposto dove è più logico che si trovi. E spesso io non li ritrovavo. Perché le cose della mia casa devono seguire le logiche di una estranea? Secondo quale logica poi? Non abbiamo forse diritto a sceglierci le nostre logiche?
Nel nuovo appartamento queste contrarietà sono quasi sparite. Appena lo chiedo, la voce guida mi indica dove si trova ogni oggetto, ovunque lo abbia riposto io o la donna delle pulizie. Gli oggetti non sono più un’ansia o un rammarico, ma sono tornati ad essere ingombri necessari dell’esistenza.
Eccomi dunque disteso sul divano e in mutande, intento a bighellonare tra video e film via Chromecast. Ma sono troppo stanco, sono già le undici e domani alle 4.15 ci sarà la sveglia e il taxi per l’aeroporto alle 4.45. Sono tentato dal cedere alla spossatezza sul divano, un piacere che mi ricorda l’infanzia, quando, ranicchiato su mio padre, affondavo nel sonno per poi ridestarmi per un attimo nel lettino prima di addormentarmi. Sto quasi per cedere a questo piacere antico quando mi rendo conto che dormire sul divano mi farebbe svegliare ancora più intontito e finirei per passare una mattinata in stato catatonico. Il fresco dell’impianto di condizionamento del salone mi farebbe risvegliare quasi in ipotermia. Mi risolvo a fare i pochi metri che mi portano in camera.
Entro nel letto con le lenzuola pulite. Mi stiracchio e lascio che la morbidezza fresca delle lenzuola accarezzi le gambe. Sono pronto, vorrei che mi prendesse il sonno, ma non arriva. Troppi caffè, troppi viaggi, troppe discussioni, troppe informazioni da rimandare a mente per gli appuntamenti di domani. Sono stordito da un desiderio di sonno che non arriva. Mi sento poco lucido, sfibrato da una stanchezza figlia di una tensione prolungata. Cerco di rimanere immobile in una posizione e poi mi giro e mi rigiro, inquietato da una promessa di sonno che mi sfugge. Voglio dormire. Ricordo alla voce guida il nome e lei subito mi ricorda che il sonnifero sta sul terzo scaffale a destra dell’armadietto del bagno. Ingoio la pasticca rapidamente e resto così, nel letto a occhi chiusi ma vigile, fino a quando poi riesco a entrare in un torpore prossimo al sonno.
Sento una voce maschile stridula invadere il mio sonno, non la distinguo da un sogno, ma riconosco che non arriva da dentro me stesso, ma dall’altra stanza. La voce di Lino Banfi. Sì, inconfondibile. Avrò lasciato lo schermo acceso. O forse è il pc. Ma devo alzarmi, pur barcollando. Ecco, la riproduzione automatica di youtube starà su un filmetto di Banfi, partita chissà come quando ho messo il pc in sleep mode. Lo schemo è nero, però. Si sente solo l’audio. Devo forzare lo spegnimento dell’apparecchio.
Di nuovo a letto. Lino Banfi. Chissà quale collegamento avrà trovato l’algoritmo di youtube per far partire quel video. Ma voglio dormire. Ho poche ore per il sonno e domani in aereo dovrò leggere il fascicolo del cliente che incontrerò alle undici. Ripasso mentalmente alcuni passaggi delicati che dovrò toccare nel corso del colloquio e il solo pensiero mi agita. Mentre cerco di ritrovarmi nel letto la voce querula di Banfi mi rimbomba ancora nelle orecchie. Mi fa sorridere, ma anche questo rischia di farmi perdere quel barlume di sonno che avevo acchiappato.
Tutto è a posto ora. Cerco di fare un veloce controllo girando mentalmente per le stanze ma preferisco lasciarmi crollare nel sonno.
La piastra. Ho lasciato la piastra accesa dopo avermi preparato il te. Cosa accadrebbe se lasciassi la piastra accesa tutta la notte? Un incendio provocato dal calore? Morirei carbonizzato mentre l’appartamento va a fuoco? Oppure il sensore si accorge del pentolino vuoto, potrei lasciar stare tutto e dormire queste cinque ore che mi restano senza alzarmi? Non so se ce la faccio ad alzarmi. Allora lascio perdere. Però sarebbe una fine da cretino. Vado a vedere. Arrivo in cucina dove credevo di trovarmi avviluppato dal calore. Invece no. Tutto come al solito e piastre spente. Accendo e rispengo. Tutto come al solito. Come ho fatto a sbagliarmi? Meglio così. Buttiamoci a letto.
Finalmente posso dormire senza altri pensieri. Ma come dormire? Non ci riesco. Stanchezza e ansia si impastano dentro di me e mi fiaccano senza portare sonno. Ho paura che arrivino altri pensieri, altre paure da smentire. Come il ferro da stiro. Che è sicuramente spento. Certamente spento. Indubbiamente spento. Assolutamente spento. Cerco di convincermi con la logica ma ho bisogno di una nuova fotografia della situazione per tranquillizzarmi. Un breve click. Mi alzo quasi fresco. Vado. Ecco, era spento, mi rigiro a controllare. Spento. Presa staccata e a terra, ferro sull’asse. Tutto pronto ma inoffensivo. Posso tornare a letto. Con gli occhi sopraffatti dal sonno, mi muovo come un sonnambulo verso il letto, tastando il muro, appoggiandomi ad esso, strisciandovi quasi, pregustando il momento in cui potrò tuffarmi nel letto. Un dolore lancinante allo stinco. Lancio un ululato sommesso. E mi lancio sul letto. Digrigno i denti. L’ultimo cassetto del comodino rimasto aperto da stamattina. Soffro, il cuore mi sobbalza, passando dal torpore al dolore. Nulla si è rotto ma il dolore persiste. Mi calmo a poco a poco. Il cuore si sfianca e sfuma i battiti. Forse la conseguenza di quest’ultimo sbalzo porterà il mio corpo spossato a distendersi. Mi stendo aspettando il sonno.
I vari trambusti hanno stimolato la vescica. Ma posso resistere. O no? Ce la faccio. Mi piscio nel letto. Lascio perdere. Mi sento perdere qualche goccia. Devo alzarmi. Ad occhi chiusi e tastoni arrivo in bagno, dove mi abbasso le mutande, mi appoggio al muro, mi libero. E sento schizzarmi sulle gambe il piscio che batte sulla tavoletta del cesso abbassata. Sono mortificato mentre mi accorgo che boxer, cosce, gambe, piedi, pedalini sono tutti impregnati del mio piscio cieco. Devo togliermi tutto e buttare nel cesto, mentre attorno alla tazza il piscio acido è schizzato torno torno. Apro solo adesso bene gli occhi, feriti dalla luce e dal puzzo. Mi viene da lacrimare, per la situazione e il bruciore che mi provocano la puzza e la luce. Prendo la carta igienica e pulisco il grosso così, quasi alla cieca. Entro nella doccia per sciacquarmi, mentre grazie al flusso dell’acqua completo l’opera di svuotamento, almeno al sicuro.
Nudo entro nel guardaroba, si aprono i cassetti dei pedalini e delle magliette da notte. Non il cassetto delle mutande. Non ho tempo per contrariarmi, ci penserò tra qualche ora. Indosso la maglietta e lascio perdere i pedalini. Torno a letto, con i piedi che ancora soffrono il freddo della doccia notturna. Questo freddo ai piedi non mi lascia dormire. Provo allora a sfregare le piante dei piedi con la coscia opposta, ma questo movimento mi fa svegliare del tutto e sento di aver perso di nuovo il sonno.
Mi metto di fianco, con gli occhi sbarrati a fissare il muro di fronte al letto. Cosa fare? Perché non rinunciare a dormire, chiamare un taxi e arrivare in netto anticipo all’aeroporto? Controllo l’ora, ma è ancora presto, appena l’una e un quarto. Arrivare tra quarantacinque minuti all’aeroporto significherebbe rischiare di trovarlo chiuso o ritrovarsi tra la fauna lugubre che cerca un giaciglio caldo sulle poltrone e negli anfratti più improbabili dello scalo.
Prendo il cellulare e con gli occhi socchiusi faccio partire una musica dall’impianto di diffusione stereo. Cerco qualcosa di rilassante e scelgo il canale ambient-meditazione. La musica si diffonde con battiti caldi ed è quello che ci vuole. Ora è la volta buona, posso anche provare a immaginare qualcosa di sereno per distendermi, tipo una spiaggia d’inverno, la luce cinerea e diffusa del cielo, la brezza del mare sul volto. Entro ora in uno stato di dormiveglia e sono disteso, davvero disteso, fino a perdere coscienza, spossato.
Il ritmo sincopato e stridulo della sveglia del cellulare si sovrappone alla musica morbida che ancora satura la stanza. Mi stupisco che debba già alzarmi e che il sonno sembri durato così poco. Al buio tasto il cellulare e faccio scivolare le dita sullo schermo per fermare il suono della sveglia. Voglio restare ancora sotto le lenzuola per qualche minuto perché davvero non mi sembra di aver dormito tre ore ma poi mi ricordo che avevo messo la sveglia davvero tardi, giusto il tempo per fare la doccia, rasarmi e andare all’aeroporto. Mi alzo di scatto per buttarmi sotto la doccia e controllo ansioso il cellulare: l’una e quarantasei. Credo di aver letto male. Ficco bene gli occhi trafitti dalla luminosità dello schermo e vedo ancora 01:47. Sono certo di aver fissato la sveglia tra tre ore. Che trucco è questo, come è possibile che la sveglia si sia spostata indietro da sola? Mi lascio andare sul divano e resto con la testa tra le mani, prostrato dalla stanchezza e dalla situazione. Gli oggetti e la tecnologia sono contro di me stanotte. Vogliono farmi esasperare ma non glielo consentirò. Cerco di mantenere la calma: avrò cambiato la sveglia mentre cercavo il canale musicale, ma mi sembra davvero impossibile. Non so cosa pensare se non che sono le due meno cinque e io non so più cosa fare: meno di tre ore e dovrei svegliarmi ma ancora non ho dormito, se non meno di quindici minuti. Non so cosa fare e sono travolto dalla stanchezza e dall’incertezza. Mi viene un gesto di rabbia e lancio la pantofola contro lo schermo gigante, che risponde con un friggìo sommesso e ripetuto, segno che un danno di certo glielo ho procurato, bastardo. Non ho tempo ora di pensare al danno e a quanto sia rimediabile. Mi arrabbio con me stesso anche per questa stupidaggine.
Sono oramai troppo agitato. Non ho più sonno ma solo una spossatezza diffusa che mi porta a essere inquieto per la privazione di sonno. Mi aggiro per l’appartamento in cerca di una soluzione o almeno per sbollire la rabbia. Cerco di cambiare il canale musicale in qualcosa di meno monotono, ma non trovo nulla che in questo momento si allinei con il mio stato d’animo, anche perché non so descrivere il mio stato d’animo. Spengo la musica. Silenzio. Butto sul divano il cellulare. Mi rendo conto di non riuscire a pensare a nulla. Riparte di nuovo la musica. Come è possibile? Salto a prendere il cellulare e e vado sulla app: risulta stoppata. Ma la musica c’è, la sento benissimo. Oppure sto immaginando? No, non la immagino: riconosco questa musica, l’avrò ascoltata anche molte volte, sarà Moby o qualcosa di simile. Come faccio a staccarla? Riprendo il cellulare, faccio ripartire l’applicazione e immediatamente la chiudo. La musica continua. Faccio ripartire e spengo. La musica continua. Lancio un urlo di rabbia. No, adesso spengo il cellulare. Ecco. La musica continua. Non so cosa fare e mi viene voglia di lanciare il cellulare contro il primo amplificatore che individuo ma so che sarebbe inutile e dannoso. Mi stendo sul divano cercando di eliminare dalle mie facoltà il senso dell’udito. Mi accorgo di essere tutto sudato e che l’impianto di condizionamento non si è spento in automatico. Sono svuotato, devo abbandonare questa casa al più presto.
Sono le due e mezza e oramai sono rassegnato a non dormire più. Vale solo la pena prepararsi al meglio alla trasferta. La prima cosa da fare è una bella doccia. Butto la maglietta impregnata di sudore nel vano lavatrice e mi chiudo nel loculo trasparente della doccia. Flussi verticali e laterali di acqua ghiacciata schizzano sulla mia pelle come una tortura. Fuggo dalla doccia cercando l’accappatoio. Come è possibile? La doccia è costantemente sui 36 gradi, come è sempre stata, regolata dal termostato interno del sistema idromassaggio. Non posso crederci e controllo il termostato digitale. Segna regolarmente 36°. Forse è semplicemente la mia agitazione. Riavvio i flussi d’acqua e aspetto trenta secondi all’esterno della doccia nel caso vi fosse un problema con la miscelazione dell’acqua. Riapro la porta della bussola solo per essere inondato dalla stessa acqua fredda di prima.
Rabbia. C’è qualcosa di folle in tutta questa notte. Dovrò rinunciare alla doccia e arrangiarmi con l’acqua del rubinetto. Passo le mani sotto la fotocellula. L’acqua non viene giù. Ripasso, tengo fermo le mani, le alzo e riabbasso di pochi centimetri. L’acqua non viene giù. Non posso, non posso, non posso uscire e andare a un appuntamento di lavoro all’estero senza essermi lavato. Mi inginocchio sul pavimento del bagno. L’unica soluzione è la doccia fredda.
Provo replicare una doccia a un quarto del tempo usuale, con movimenti concitati e ridicoli, ululando sotto gli scrosci di acqua gelata. Ma il moto e il freddo mi svegliano, e mi sento quasi lucido dopo aver indossato l’asciugamani. Sento freddo, certo, ma almeno non ho più quello stordimento che mi aveva preso prima. Mi dedico alla barba. Il rasoio digitale non funziona. Ma oramai non mi irrito più, do quasi per scontato che questa è la notte della rivolta degli oggetti, che l’appartamento è diventato quasi un luogo ostile o almeno non più funzionale alla mia vita. Tra poco uscirò e finiranno gli inconvenienti di questa notte. Poi all’aeroporto, nel bagno del lounge, potrò sempre provare a farmi una barba con le vecchie lamette usa e getta. Il salone è gelido dato che la lieve frescura del condizionatore dopo cinque ore si è trasformata in un gelo quasi solido per il mio corpo ancora umido. Attraverso lo spazio correndo verso la cabina guardaroba dove lo schermo mi indica i completi, le camicie e le cravatte disponibili e abbinabili e la loro collocazione negli armadi. La mia urgenza è vestirmi e scelgo la prima combinazione proposta senza nemmeno ragionarci. Sento una puzza e mi accorgo che il completo è impregnato dell’impasto semigassoso di fumo di griglia, unto, arredamento storico e sudore obeso del locale tradizionale dove mi ha voluto trascinare il cliente l’altro ieri sera. La tipa delle pulizie non lo ha inserito tra le cose da lavare. Come faccio ora? Non voglio svestirmi di nuovo ma devo. Prendo il secondo completo proposto dallo schermo, anche se poi mi accorgo che il principe di galles mal si abbina alla camicia a quadrettini che ho già indossato. Ma ora non voglio cambiare ancora. Non sarà un dramma, spero che il cliente non sia fissato con lo stile e l’abbigliamento.
Sono oramai quasi pronto. “Controllo prima di uscire”. “Controllo prima di uscire”, ripeto più lentamente avvicinando alle labbra il microfono dello smartphone. Nessuno mi risponde. La usuale voce femminile ed elegante è sparita. Devo trovare da me il passaporto, i documenti e le chiavi elettroniche. Trovo la tessera subito, poggiata sul mobiletto all’ingresso. I documenti saranno nel trolley pronto all’ingresso. Controllo: nulla. Perché questa volta anche la donna delle pulizie mi tradisce?
Dove si troveranno? Devo cercare nello studiolo, sulla scrivania nel salone oramai sotto zero, sul tavolinetto in cucina. Non li trovo. Le tre e mezza. Già. E io che credevo che sarei uscito dall’appartamento molto prima del previsto. Dove stanno i documenti? Giro e rigiro per le stanze, scansendo ogni posto e la mia memoria al contempo. Mi viene un’illuminazione. Posso recuperarli dal cloud e stamparli nel lounge dell’aeroporto, se avrò dieci minuti. Ma meglio così.
Ora il passaporto. Che ovviamente non si trova nel solito cassetto. Dove cercarlo? Inizio questa volta metodicamente, dalla stanza da letto, nel cassetto dove spesso lo ripongo le rare settimane che non viaggio. Nel primo cassetto sul lato sinistro, dentro la busta bianca: non c’è. Allora vedo sul lato sinistro del cassetto: no. Allora inizio a scavare nell’affastellato disordine di buste, bustine, depliant, estratti conto, bollette, foglietti e altre carte ora inutili e urticanti. Prendo l’ammasso di carte e cerco di tastarlo per individuare lo spessore rettangolare del passaporto. Mi sembra di individuarlo invece è una tesserina scaduta di qualche supermercato. Passo al cassetto numero due, destinato ad accogliere fascicoli e documenti personali. Sfoglio a uno a uno i fascicoli, sperando che il passaporto si sia incuneato tra essi. Ripeto l’operazione per scrupolo: nulla. Passo al terzo cassetto: libri e depliant. Spingo questi oggetti di lato e in fondo per sperare di individuare il colore mattone che cerco. Passo al quarto cassetto: vuoto.
Ritorno al primo cassetto: qui deve stare. Ricontrollo tutto con un tentativo di calma. Nulla. Che ora è? Lo schermo mi dice 04:03. Ho quaranta minuti. Posso e devo mantenere la calma. Ritorno in questi cassetti, li guardo. E poi penso che deve stare altrove. Mi avventuro nel salone dove la temperatura è gelida ma almeno ora sono vestito. Il tavolinetto. Il divano. La vetrinetta. Lo scrittoio. Scansiono gli spazi senza vedere questo rettangolo marrone. In cucina allora. Controllo il pianale dove a volte, stanco, lo lascio prima di mettermi a mangiare qualcosa di freddo. Non c’è. Il tavolo grande della cucina. Non c’è. Vado all’ingresso. Lo svuotatasche. Vuoto. Ecco, mi viene un’idea: lo avrò lasciato in qualche completo. Corro nella cabina guardaroba dove lo schermo mi dice che sono le 04:23. Ho ventidue minuti e devo rimanere calmo. Inizio a tastare, prima con metodo e poi freneticamente tutti i completi, tutti i pantaloni. Nulla.
Mi rivolgo al cassetto di prima. Prendo tutti gli strati di carte, li sollevo e li sbatto sul pavimento. Inizio a cercare a carponi tra questo tappeto di carte. Non c’è. Le 04:39. Sono tutto sudato, di nuovo. Torno in salone anche per avere un po’ di aria fresca, visto che inizia a mancarmi il respiro. Cosa fare? Ho ancora sei minuti prima che arrivi il taxi. Mi metto a cercare sotto il divano, sotto le sedie, sotto qualsiasi posto che possa nascondere un rettangolo di mezzo centimetro di spessore. Non lo trovo. Il taxi è arrivato, di certo, anche se la voce guida è ancora muta. Perderò l’aereo, perderò l’appuntamento, perderò il lavoro, perderò tutto. Al pensiero mi scatta dentro una rabbia definitiva. Prendo la prima sedia e inizio a spaccarla sul pavimento. Una seconda. Spingo il divano al centro e lo prendo a calci. Svello il maxi schermo dai portanti e lo sbatto sul pavimento. I cristalli sbriciolati mi piagano le mani e schizzano sul volto, sento rivoli di sangue sul volto e la vista che si annebbia. E allora non è finita. Prendo un’altra sedia e la lancio contro la vetrata. Lo scroscio dei vetri è fragoroso e duraturo. Non mi basta. Un’altra sedia deve distruggere il maledetto condizionatore che mi ha congelato il cervello. Sbang. Sbang. Non si ferma al primo colpo ma al secondo sì. E adesso ancora. Le lampade da terra del salone. Eccole, la mia nuova arma contro questo appartamento traditore. Mi metto a ruotare la prima. Voglio vedere cosa colpire. Ecco, il pc. Voglio vedere che effetto. Prac. Il pc si rabbuia. Tutto qua? Nessuna scintilla? Ma io voglio vedere di più. Anzi, inizio a non vederci. I cristalli negli occhi mi bruciano. Sono cieco. Trovo la lampada e la voglio spaccare contro il muro. Ecco. NO.
.
.
Un immobile caos accolse chi entrò nell’appartamento dopo aver forzato la porta elettronica con l’aiuto di un tecnico.
“Che disastro immane ha combinato? Chi è questo pazzo?”, chiese il sovrintendente capo
“Un manager di livello internazionale. La sua società ne ha denunciato la scomparsa quattro giorni fa. I vicini non lo vedevano mai e non sapevano chi fosse. Abbiamo verificato il nome dal passaporto trovato sul pavimento”, rispose l’agente scelto.